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La nostra storia. Don Domenico e l’antica Bovalino

  •   Pino Macrì
La nostra storia. Don Domenico e l’antica Bovalino

Don Domenico Antonio Morisciano, erudito sacerdote bovalinese vissuto nell’Ottocento e morto ai primi del Novecento, con ogni probabilità non conosceva il manoscritto noto come Cronaca di Cambridge.

D’altronde, anch’egli è ignoto ai più, cresciuto, com’è stato, all’ombra del fratello Raffaele, vescovo prima a Gravina e Montepeloso, in Puglia, poi a Squillace, e assurto agli onori della cronaca internazionale per essere stato, a suo tempo, “il più vecchio vescovo del mondo” («Mgr Raffaelo [sic!] Morisciano, le plus vieux des évêques du monde, vient de mourir à Squillace, 98 ans, le 30 août 1909», è riportato nella rivista francese Annales catholiques del 12 settembre 1909). E sarebbe stato probabilmente oltremodo felice di conoscere quella Cronaca, don Domenico: negli ultimi anni di vita, infatti, andava trascrivendo su un quadernetto tutte le notizie storiche sulla sua amata Bovalino che riusciva a reperire. Collezionava un po’ di tutto: aneddoti raccontati dagli anziani del paese, vere notizie storiche in cui si era imbattuto il fratello vescovo, impegnato a scrivere la storia della Madonna dell’Itria di Gerace, e finanche una dolcissima leggenda risalente al sacco di Bovalino del 1594, durante il quale un pirata, trovato un bambino in culla (meglio: in una “naca”) abbandonato dai genitori in fuga dal saccheggio, invece di rapirlo o ucciderlo, gli lascia un bellissimo rametto di corallo in dono. Se avesse conosciuto la Cronaca di Cambridge, dunque, don Domenico avrebbe appreso che vi si dice che nell’anno 985 (o 986) d.C. gli Arabi presero Gerace e Boidyn: secondo i traduttori della Cronaca, Bartolomeo Lagumina e Giuseppe Cozza-Luzi, in quel “Boidyn” sarebbe da identificarvi proprio Bovalino, e sicuramente il religioso avrebbe collegato il dato alla scoperta da lui stesso fatta in una sua proprietà “alla profondità di palmi 10 [dove] comincia, e tira a Tramontana, una doppia fila di sarcofagi, laterizj, come seppellivano i greci”; o a quella presenza “nelle diverse piantagioni eseguite anni or sono nel bosco S. Ippolito, territorio di Bovalino, [in cui] si rinvennero ruderi di grandi fabbricati, che non era monastero di Basiliani, come si opinava, ma città bella e buona [che] ivi un tempo esisteva. Le mura non di mattoni, ma per mezzo, mattoni di smisurata spessezza”. Ad avvalorare questa tesi, don Domenico raccontava anche che “nel 1878, alla valle di Esopi, sopra Stefanìa, [un tal] Vottari ha trovato un idoletto di bronzo, dicesi venduto a Londra [per] lire 4.000 [ad oggi, 16.300 euro circa]. Esso aveva 3 montoni alla testa e 3 ai piedi”.

Ma, a dirla tutta, se anche don Domenico avesse conosciuto quell’antico manoscritto, probabilmente le sue convinzioni sarebbero comunque rimaste relegate in quel quadernetto, poi trascritto e pubblicato a cura di Rocco La Cava nell’ormai lontano 1995, né mai sarebbero giunte alle orecchie (ed alla curiosità) scientifica degli archeologi di professione, tante sono le leggende senza fondamento (dalla gallina con dodici pulcini, tutti d’oro massiccio, che sarebbero ancora murati nelle mura del castello normanno di Bovalino superiore, alla galleria che collegava fra di loro tutti i castelli della zona, ecc.) che allietavano i bambini con i racconti degli anziani nelle lunghe serate attorno al braciere, quando ancora la pestilenziale televisione era ancora ben di là da venire. Laddove, però, non poté la voce (e lo scritto) di un anziano sacerdote di paese, forse (e sottolineo il “forse”) gli effetti di un disastro riusciranno nell’intento di attirare le attenzioni di chi (Soprintendenza, archeologi, ecc.) è a ciò preposto? I fatti: a seguito degli eventi calamitosi abbattutosi nella Locride giusto un mese fa, la forte azione erosiva di un inusuale quanto corposo ruscellamento ha portato alla luce, in contrada Ancone, nel greto di un valloncello che segna esattamente il confine fra i territori comunali di Careri e di Benestare, a sud-ovest del centro abitato di Bovalino superiore, una serie di tumulazioni di fattura greca o greco-romana, che dovrebbero ascendere ad un’epoca compresa fra il I sec a.C. ed il II d.C.. Le tombe (tre certe, forse altre due, che si intravedono nelle vicinanze) sono allineate lungo l’asse del vallone, ma paiono continuare in direzione trasversale ad esso, misurano circa 120 x 40 centimetri e sono delimitate, ai lati e sul fondo, da lastre laterizie di fattura tipicamente greca. Sono anche emersi resti umani, sequestrati, come per legge, dalle forze dell’ordine, subito avvisate del ritrovamento.

Fra i residui dell’azione erosiva dell’acqua, anche numerosi frammenti di vasellame, utilizzato in antico come corredo funerario. In posizione esterna ad una delle tombe, cementato nel terreno, quello che appare la parte posteriore di un cranio, forse di bambino. Il ritrovamento, di per sé non eccessivamente consistente, pone però l’accento su alcuni interrogativi, per rispondere ai quali sarebbe, per intanto, opportuna un’indagine più approfondita sul territorio circostante, in cui, peraltro, alcuni saggi senza esito furono esperiti in tempi recenti: infatti, se si accertasse il numero limitato delle tumulazioni, potrebbe molto semplicemente anche trattarsi di una piccola area di sepolture annessa ad una qualche fattoria dislocata nelle immediate vicinanze, mentre, al contrario, se esse fossero in numero rilevante, allora si configurerebbero come necropoli. La conseguenza logica è che laddove si formava una necropoli nelle vicinanze più o meno immediate ci doveva essere un nucleo abitato, le cui dimensioni potrebbero essere dedotte solo dal numero delle tumulazioni rinvenute. É, come si vede, troppo presto per fare ipotesi conclusive e certamente ancor più azzardato e prematuro gridare al ritrovamento del possibile sito primigenio dell’antica Bovalino (la Altanum degli Itineraria antonini?), ma sicuramente spazzando via le prime insensate voci circolate su possibili segni della civiltà del mitico re Italo (a parte la non dimostrata esistenza del fantomatico regnante, non coinciderebbero nemmeno le probabili datazioni delle tombe con quelle relativi ai tempi pre-ellenici del mitico re), un dato importante ci viene in soccorso da direzioni impensate (ma non tanto, in fondo), cioè la toponomastica: nell’andare a visitare il sito, infatti, mi sono premurato di geolocalizzarlo tramite il Gps, e successivamente, riportando le coordinate su cartografia recente (al 50.000), è venuto fuori che la collina retrostante è detta “Serro dei morti”, e il vallone in parola, appunto, “Vallone del Serro dei morti”. Non è certo, questa, una prova definitiva dell’esistenza di una vera e propria necropoli, anche perché rimarrebbe il mistero di sepolture proprio nel greto di un torrente, ma, allo stesso tempo, sembrerebbe poco “logico” utilizzare un simile toponimo per un limitato numero di sepolture, quali quelle annesse ad una fattoria. Dimenticavo: la valle di Esopi in cui, per il buon don Domenico Morisciano, sarebbe stata ritrovata la statuetta bronzea nel 1878, è oggi detta valle di Sopo, e dista pochissime centinaia di metri dal vallone del Serro dei morti, e il bosco S. Ippolito, sede, sempre per don Domenico, di imponenti ruderi, è a meno di un chilometro in linea d’aria…


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