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La nostra storia. “I fatti di Ardore”: la rivolta e gli intrighi

  •   Pino Macrì
Francesco Calfapetra Francesco Calfapetra

Tra la fine del 1866 ed i primi del 1868, scoppiò in tutta Italiauna pesante epidemia di colera, con decine di migliaia di morti. La Calabria non fu risparmiata, anche se patì un numero di decessi ridotto, rispetto, ad esempio, a quelli in Sicilia, Puglia, Bergamo, Novara.

Intrighi e rivolte

Nella jonica reggina il terribile morbo si manifestò, forse proveniente dalla Piana (da Radicena – Jatrinoli, l’odierna Taurianova), soprattutto ad Ardore. Qui, già al suo primo apparire, nel luglio-agosto del ‘67, fu approntato uno strettissimo cordone sanitario, ed il paese fu isolato. Dopo qualche tempo, cominciarono, oltre ai decessi, a fare sentire i propri effetti i morsi della fame: il pane era introvabile e gli ardoresi non riuscirono ad andare a macinare ai mulini di Antonimina, per la ferma opposizione degli abitanti di quel luogo, mentre a Ciminà l’impedimento fu la mancanza di acqua. Nel malcontento e nell’eccitazione che regnava sovrana in paese, ci fu chi, però, pensò bene di sfruttare la situazione per innescare una rivolta di popolo all’insegna del Borbone. Per farlo, peraltro, fu scelto il più abbietto dei metodi, di manzoniana memoria: vi fu chi, cioè, fece pesantemente leva sulla disperazione e, soprattutto, sull’ignoranza e la superstizione popolari, letteralmente inventando la presenza di untori governativi appositamente inviati per spargere il veneficio. L’operazione fu eseguita con fredda e lucida sapienza criminale: nei giorni precedenti la rivolta iniziarono ad apparire sugli usci di varie abitazioni degli strani coloranti giallastri; contemporaneamente, venivano rinvenuti ad arte dei residui melmosi nerastri in alcune gebbie e, naturalmente, vi fu chi giurava e spergiurava di aver visto coi propri occhi dei loschi individui che nottetempo andavano ad imbrattare con strane poltiglie gelatinose molte delle case ardoresi. L’oggetto delle odiose calunnie, però, non era generico, ma mirato ad una delle famiglie più in vista del paese, i Loschiavo, ed i promotori, neanch’essi senza volto, facevano capo ad una fazione storicamente avversa, composta dalle famiglie Marando, Rianò e Gliozzi. Per alcuni storici tanto basta a declassare il fatto a livello di faida, nulla ritenendo contare la chiara appartenenza all’ideale liberale ed unitario dei Loschiavo e, viceversa, la condotta ambigua e la generale propensione reazionaria e filoborbonica dei Marando, e dei Rianò in particolare, specie nei tragici avvenimenti della rivolta del 1848.

Il 4 settembre

La mattina del 4 settembre, dunque, la campana della chiesetta in contrada Limachi, di proprietà dei Marando, e retta da un loro congiunto sacerdote (don Eugenio, che più volte nei giorni precedenti aveva aizzato gli animi, indicando apertamente nei Loschiavo gli esecutori materiali di un presunto mandato governativo per avvelenare la popolazione) iniziò a suonare a tutto spiano: era il segnale convenuto, e in pochi minuti almeno cinquecento persone si raccolsero in quel luogo e si avviarono, armati, verso il paese, e chiedendo a gran voce la testa di tutti i Loschiavo, nel frattempo rifugiatisi nella locale caserma militare. A cadere per primo fu il tenente Gazzone, che era uscito dalla caserma nel vano tentativo di placare gli animi. Questa la narrazione di Edmondo De Amicis, il futuro autore del Cuore, che in quei frangenti prestava servizio a Gerace come sottotenente, fra i primi ad arrivare (a stragi, però, compiute): «In Ardore, comune di Gerace, v’erano sei carabinieri e ventiquattro soldati del 68.o Reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente Gazzone […]. Il Gazzone, fidando nella simpatia che il popolo gli aveva dimostrato in più d’una occasione, mosse benignamente incontro alla moltitudine e tentò di quetarla con buone parole; gli fu risposto con due palle al petto che lo stesero a terra cadavere. Non dirò quel che del suo cadavere si fece per non aggiungere orrori ad orrori. I soldati […] ebbero appena il tempo di riparare nella caserma dei carabinieri, nella quale fin dalla mattina s’eran rifugiate tre famiglie di nome Lo Schiavo, cui la popolazione, credendole ree di veneficio, aveva incendiate le case. […] La lotta durò più d’un’ora. Finalmente, visti riuscir vani i suoi sforzi, il popolo appiccò il fuoco alla caserma. […] In quegli estremi, il caporale Albani decise di tentar quel’unica via di salvezza che rimaneva; […] aperta in furia una porta e abbassate le baionette, lui e i suoi soldati si precipitarono a capo basso nella folla. Questa, sopraffatta da quell’incredibile audacia, cedette il passo; ma appena furon passati, esplose i fucili e colpì a morte parecchi delle famiglia sventurata; gli altri si salvarono, parte nelle case, parte nella campagna […]».

Il martirio dei Loschiavo

In quell’occasione, furono tre i morti della famiglia Loschiavo e sette fra gli assalitori. I quali però, non si fermarono: saputo che dei Loschiavo avevano trovato rifugio in alcune grotte appena fuori Ardore, li rintracciarono e li trucidarono senza pietà (fra loro anche due ragazzini di 10 e 14 anni). Successivamente, stessa sorte toccò ad altri sei (due erano donne) ritenuti vicini ai Loschiavo. In tutto, vi furono ben venti morti (dodici dei Loschiavo, il tenente Gazzone e sette assalitori). Vi fu anche il tentativo di coinvolgere i paesi vicini, per far dilagare la rivolta, ma i due emissari mandati a Bovalino furono sdegnosamente respinti dal capitano Calfapetra, ed ai rivoltosi non rimase che cercare scampo nei monti. Furono tutti rintracciati ed arrestati, e, tempo dopo, il processo che ne seguì vide imputate ben 504 persone: alla fine, però, furono rinviati a giudizio solo in 37, tutti condannati, ma solo a tre di loro fu inflitta la pena dei lavori forzati a vita e a nessuno quella della pur prevista (dal Codice penale allora vigente) pena di morte. Meno di trent’anni prima, in regime politico opposto, cinque giovani degli stessi luoghi per colpe infinitamente meno gravi (e senza aver versato una sola goccia di sangue!) furono barbaramente trucidati nella Piana di Gerace dalla sanguinaria follia borbonica (e, naturalmente, anche in quel caso vi fu chi cercò di liquidare la strage come una sorta di faida tra avverse famiglie).

Il libello di Nicola Marando

Il dato ancor più triste (o assurdo, ridicolo: fate voi) è che nessuno dei veri istigatori (Marando) dell’odiosa strage venne condannato: né il prete don Eugenio, né l’avvocato Nicola, da tutti considerato la vera “anima nera” dell’intera famiglia. Ciò non poteva che portare ad ulteriori, roventi polemiche: ad innescarne la fase più acuta fu un libello scritto proprio da Nicola Marando, a difesa della propria figura e della famiglia (Memoria per la Sezione di Accusa in difesa dei fratelli Nicola e Tommaso Marando). Per compilarlo, come spesso accade, Marando scelse da un lato di scaricare per intero le responsabilità dell’eccidio sui Rianò suoi alleati, dall’altro di rovesciare infami accuse di inerzia in primis proprio su Francesco Calfapetra, capitano responsabile della Guardia nazionale e di difesa del cordone sanitario attorno a Bovalino nelle operazioni anticolera messe a punto su tutto il territorio circostante Ardore.

Francesco Calfapetra

Era, però, Francesco Calfapetra, un personaggio sanguigno e poco incline a soprassedere alle offese: già attivo durante i moti del 1848, ne soffrì quasi dieci anni di carcere; quindi fu garibaldino della prima ora, e già comandante a Salerno il 22 agosto 1860; poi fu maggiore nella brigata Fabrizi, e capitano nella brigata Corrao. Partecipò con estremo vigore alla battaglia sul Volturno, dove riportò cinque ferite e la cattura della bandiera del reggimento avversario e, dopo la vittoria, sfidò a duello alla sciabola un ufficiale borbonico che aveva insultato Garibaldi. Nel 1862 entrò a far parte dell’Esercito italiano col grado di capitano, e fu inviato in Capitanata, dove si distinse nella distruzione della tristemente famosa banda Caruso (responsabile dell’uccisione e tortura di quasi cento militari e carabinieri e, soprattutto, di ben 67 civili innocenti, fra cui numerose donne e bambini), per la qual cosa ebbe diverse attestazioni di merito e la riconoscenza della popolazione di Casalnuovo di Puglia, che il 22 novembre 1863 volle conferirgli anche la cittadinanza onoraria. Ritornato infine a Bovalino, fu per due volte nominato per acclamazione capitano della Guardia civica, ed una terza volta eletto nella stessa carica.

Il libello di Calfapetra

Connotato, com’era, di doti di oratore e trascinatore, Calfapetra affidò ad un libello – di recente da me ritrovato nei meandri della Biblioteca comunale reggina – la risposta al suo avversario, che spregiativamente chiama “Morando” invece che Marando, dal quale emerge per intero la figura tutt’altro che cristallina dell’avvocato ardorese e dei suoi trascorsi. Di una così forte figura, nella sua Bovalino rimane a tutt’oggi solo il nome di una via (un’altra è intitolata a Filippo Calfapetra, suo padre e anch’egli patriota, distintosi nei moti antiborbonici del 1820-21) e il quasi totale anonimato presso i suoi concittadini.Per contro, forse non tutti sanno che, a coronamento di una vita spesa con dignità non comune, il capitano volle che il suo non indifferente patrimonio fosse utilizzato, dopo la morte, per erigere un asilo (foto 3) che portasse il suo nome: è sconcertante sapere che qualche mese addietro la macchina fotografica di un suo odierno compaesano (Mimmo Racco) immortalò una lapide che lo ricorda, che tuttora giace, a pezzi, tristemente ed indecorosamente abbandonata negli scantinati del palazzo municipale. Amen.


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