La nostra storia. Il dialetto che racconta un Popolo
- Vincenzo De Angelis
Brancaleone fece parte dell’area grecofona della Calabria, almeno fino alla fine del 1700. Giovanni Battista Rampoldi, esploratore, studioso e importante storico, nel 1832 scrisse: «Come nella città di Bova, anche a Brancaleone è molto presente, nel basso popolo, l’idioma greco». Non c’è alcun dubbio che anche Brancaleone fosse grecanica e ancora oggi, nel lessico comune, espressioni e parole hanno una netta derivazione greca. Fino agli inizi del 1900, il sacerdote della parrocchia dell’Annunziata venne chiamato comunemente u protopapa.
Una lingua snobbata
Negli ultimi anni abbiamo pensato di dare, con molta convinzione, un’educazione linguistica ai nostri figli, costringendoli a parlare l’italiano e a non parlare il dialetto. Il dialetto è stato dunque bandito da molti genitori. Ma, se facciamo una piccola riflessione, i figli di genitori bilingue, ad esempio madre inglese e padre italiano, ascoltando quando la lingua dell’uno e quando la lingua dell’altro genitore, riescono a parlare perfettamente entrambe. Molti altri, invece, temono che il bambino, imparando il dialetto, avrebbe difficoltà a parlare la lingua italiana, oppure semplicemente considerano rozze le espressioni dialettali. Eppure le uniche difficoltà nel parlare l’italiano si avrebbero solo se questi non si studiasse, poiché è una lingua complessa e piena di regole. A volte noi calabresi risultiamo persino contraddittori: in molti crediamo ad esempio che, nell’iscriversi alla facoltà di Medicina, chi proviene dal liceo classico sia più facilitato perché molti termini medici derivano dal greco e dal latino. Però non facciamo lo stesso ragionamento riguardo la lingua. La maggior parte dei vocaboli che costituiscono la lingua italiana, infatti, deriva dal latino e in minima parte dal greco, il nostro dialetto invece deriva da entrambe le lingue. Per molti anni abbiamo snobbato la scrittura dialettale, considerandola di basso livello e di scarsa capacità espressiva. Abbiamo snobbato dunque la nostra vera cultura, che dovrebbe, al contrario, essere salvaguardata. Per questo dovremmo essere grati a chi si è cimentato in passato, e a chi si cimenta oggi, a scrivere il dialetto, perché è il solo modo per conservarlo.
Il rapporto con la scrittura
Abbiamo istituito l’anagrafe agli inizi del 1800, con l’arrivo dei francesi. Il vocabolario dialettale calabrese più importante, nel senso di completezza, è stato scritto da un tedesco, Gerhard Rohlfs; così come la ricostruzione delle nobili famiglie calabresi, addirittura corredata dagli alberi genealogici, è stata pubblicata in Settecento calabrese da Franz Von Lobstein, autore straniero; così come abbiamo scoperto molte cose sui nostri paesi attraverso le pubblicazioni dei viaggiatori stranieri come Norman Douglas, Alexandre Dumas, Edward Lear. Quest’ultimo, in Diario di un viaggio a piedi, racconta come vivevano le famiglie che lo ospitarono, ad esempio la famiglia Musitano di Staiti che conviveva con i bachi da seta, e i bachi si trovavano ovunque, nel letto e, probabilmente, persino nella minestra. Il popolo calabrese, al contrario dei viaggiatori stranieri, è stato sempre restio a scrivere della propria terra, anche se tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 la Calabria fu una delle regioni più prolifiche per pubblicazione di giornali. La terza in Italia, nonostante l’alto tasso di analfabetismo. Un giornale considerato di ottimo livello, e ancora oggi oggetto di studio, nel quale scrivevano personaggi come Gaetano Salvemini, fu Risurrezione; pubblicato a Brancaleone e distribuito su tutto il territorio regionale. Molte copie di questo giornale, che vide la luce nel 1909, furono destinate all’estero.
I vocaboli e le evoluzioni
Ogni lingua subisce una propria evoluzione, cambia e abbandona vocaboli, ne acquisisce di nuovi specialmente nel settore del commercio o in riferimento al mondo lavorativo. Ascoltando le persone che, trenta o quaranta anni addietro, hanno lasciato il nostro paese per recarsi all’estero, possiamo notare che ancora parlano un dialetto che conserva gli stessi vocaboli dell’epoca. Quante parole, o espressioni dialettali cariche di significato, abbiamo oggi totalmente dimenticato, «Gl’ietta u citu», era una classica; «Va ioca a ribba»; u biscottu cafaru cafaru per dire che è molto croccante; siccurrendu si diceva tra una frase e l’altra per dire “continuando nel discorso”; «Mi pigghiasti cori e coriu», per dire “cuore e pelle”; u tiraturi, cioè il cassetto; «U ccattiaia» per dire “l’ho visto”; Addunari, che vuol dire accorgersi; «Fatti a ddutta» per dire “facciamo una lotta”; bizzolu, lo scalino della porta; tripa o tripu, il buco; a camarda, per appoggiare i fichi per l’essiccazione; mandagghiu, chiavistello; tira na prujia, cioè tira vento freddo, e tante altre parole o espressioni che non si sentiranno più. Ecco due strofe di una poesia dialettale del 1898, adatta per evidenziare il cambiamento di alcuni vocaboli: “Nu iornu u patri eternu si levau (levau ora si dice iarzau) si fici l’occhi chini di sputazza e chi mani nta burgia s’avviau (burgia ora si dice sacchetta) mi vidi chi si dici supra a chiazza ma si fici nu mari di fururi quando vitti carompula a coluri. (carompula ora si dice garofani) Quando vidunu russu sti nimali perdunu sentimentu e ciriveddu perciò chidda iornata fici zali (zali ora si dice pezziu) chi si ntisuru fina o pantaneddu. Fu a prima i maju, pe nu juri russu (maju ora si dice maggiu) Chi u patri eternu fici lisciu e bussu. Come potete notare alcune parole cambiano totalmente mentre altre tendono ad italianizzarsi.
Le influenze straniere
La Calabria, con l’arrivo di indiani, rumeni, cinesi, albanesi, africani, sovietici è diventata una società multietnica. Se analizziamo a fondo il nostro dialetto e leggiamo la nostra storia, possiamo notare che la Calabria era già in passato una società multietnica. Latini, bizantini, greci, francesi, tedeschi, arabi, spagnoli hanno inciso profondamente sul lessico dialettale e negli usi e costumi, ma non in maniera uniforme. Ci sono paesi della Calabria come Roccaforte del Greco, Gallicianò, Roghudi, Bova che ancora oggi parlano il grecanico, una lingua che deriva dal greco antico. Negli stessi paesi sono greci anche i cognomi: Laganà, Criseo, Accorinti, Caristo. Prima ancora dei latini, la Calabria era abitata dai lucani e dai bruzi, entrambi i popoli parlavano l’osco, un linguaggio che aveva una sua grammatica e una sua scrittura. L’osco era una lingua italica ed era la lingua dei sanniti e dei mamertini, veniva parlata su tutto il territorio centro-meridionale. Dall’osco, una delle parole che ancora resiste è timpa che vuol dire burrone. Il dialetto calabrese, dunque, è costituito da un insieme di parole lasciate da tutte queste popolazioni. Nella maggior parte dei luoghi il latino costituisce la base principale della lingua calabrese, cioè la più alta percentuale delle parole che compongono il dialetto sono di origine latina, ad esempio: esti che vuol dire è; petrusinu cioè prezzemolo che deriva da “petroselinum”; casu che significa formaggio deriva da “caseus”; trappitu cioè il frantoio deriva da “trapetum”; sugna cioè il lardo di maiale deriva da “axungia”.
Parole greche e arabe
Anche la lingua greca ha lasciato profonde radici. Tra le parole di più comune uso vi sono: catoio che vuol dire cantina o stanza bassa e deriva da “katòghuiou”; iazzu che ha il significato di ovile e deriva da “iautmòs”; trugghiu significa rotondo, da “trullos”; malogna è il tasso, da “milax-milacos”; spinzu è un uccello (il lucherino), da “spinos”; lippu la pellicola che si forma nel latte dopo l’ebollizione deriva da “lìpos”; muccaturi da “mykos”, cioè il fazzoletto per il naso. Una delle frasi più colorite è «Isci ddocu», cioè “fermati là”; isci, che viene da “ische”, in greco vuol dire “fermati”. Di solito questa locuzione veniva intimata all’asino. Questa lingua è riuscita a penetrare anche nei paesi che erano latinizzati. Altra influenza lessicale è stata lasciata dagli arabi, i saraceni, che erano il terrore delle coste e sottoponevano a tributi ogni città conquistata. I saraceni erano anche mercanti che sfruttavano il potere a beneficio, e per l’espansione, del loro commercio e molti sono i termini che ancora oggi vengono usati: cafisu è la misura dell’olio, il termine deriva dalla lingua araba “kafiz”; cantaru, che vuol dire quintale deriva da “kintar”; tuminu, misura agraria, deriva da “tumn”; zagaredda cioè nastro, da “zahar”; gebbia, grande vasca, deriva da “gabya”; margiu, che significa terreno non zappato, da “marg”; portuallu o portucallu, che vuol dire arancio, deriva da “portukall”. Arabi sono anche molti cognomi, come Naimo, Modaffari, Cafari.
Parole francesi e spagnole
Anche la lingua francese ha contribuito al lessico del dialetto calabrese, soprattutto con il dominio degli Angiò. Molte sono le parole di uso comune. La via, nel lessico dialettale calabrese, è detta anche ruga che deriva da “rue”; accattari che ha il significato di comprare deriva da “acheter”; paddottula cioè grossa o cicciona da “baulotte”; buffetta, tavolo per mangiare, da “buffet”; grattugghiari che vuol dire solleticare da “chatouiller”; bucceria che vuol dire macelleria da “boucherie”; munzeddu cioè mucchio da “monceau”; racina che vuol dire uva da “raisin”. Anche lo spagnolo, specialmente il catalano, ha lasciato la sua influenza nel linguaggio nostrano. C’annunca che vuol dire giammai deriva da “nunca”; cucchiara che significa cucchiaio deriva da “cuchara”. E molti sono i cognomi: Cordova, Morales, Martinez, Navarra, Retez, Ramirez, Gonzales ecc.. Le lingue germaniche hanno lasciato il segno attraverso le invasioni dei goti e dei longobardi. Anche se poche, alcune parole di lingua tedesca vengono usate nei nostri dialetti. Staccia che vuol dire palo deriva da “estache”; iffula che vuol dire matassina deriva da “wiffa”.
Gli ebrei in Calabria
La Calabria è stata abitata anche dagli ebrei e in molti paesi, come Brancaleone o Bianco, vi era la judecca, così veniva detto il quartiere dove essi vivevano. Testimonianza inconfondibile è la sinagoga scoperta nei pressi di Bova marina, che è una delle più antiche. Gli ebrei, oltre a portare i loro insegnamenti relativi al commercio e alla lavorazione delle stoffe, hanno lasciato qualche parola ancora in auge nel nostro dialetto. «Mi scialu» che vuol dire “sono tranquillo, in pace, mi diverto”, a mio parere deriva da “shalom”, che vuol dire pace; alcuni dizionari sostengono che derivi dal latino “exalat”. Crivu, cioè il crivello, viene dalla parola ebraica “chibrak”; rigumina che vul dire ruminare deriva da “rumak”. Molti sono ancora oggi i cognomi ebraici, ad esempio: Sajia, Azzarà, Marino, Moretti, Rocca, Ardito, Amato.
In letteratura
Per quanto riguarda la letteratura calabrese, cioè del dialetto scritto, le prime testimonianze risalgono al 1600 e provengono da Aprigliani, in provincia di Cosenza, con Domenico Piru, detto Donnu Pantu, e Carlo Casentino. Verso la fine del 1800 la letteratura dialettale in Calabria andò intensificandosi, poiché crebbe l’interesse verso la cultura e le tradizioni. Spesso le poesie dialettali furono un modo per denunciare le ingiustizie sociali. Bruno Pelaggi di Serra San Bruno scrisse delle poesie per protestare contro lo Stato. E molti altri furono i poeti che ricorsero alla scrittura del dialetto per protestare contro la politica dello Stato unitario, tra questi alcuni liberali calabresi come Antonio Martino, sacerdote di Galatro, che dopo aver combattuto contro i borboni ed essere stato per questo imprigionato, espresse in poesia la delusione per il governo piemontese. Vincenzo Ammirà di Monteleone, dopo aver combattuto nel 1860 con Garibaldi, compose la Ninna d’u briganteju. Vincenzo De Angelis, dopo l’arresto nel 1898, scrisse la prima poesia in dialetto per protestare contro il re e raccontare la durezza del carcere. Nel Novecento la poesia dialettale raccontava la memoria e gli affetti con scene di vita quotidiana che erano uno spaccato di società calabrese dell’epoca. Si iniziarono a scrivere le “farse” carnevalesche, commedie che recitavano i difetti dei cittadini: furono esse il vero teatro popolare calabrese, e si perpetuarono per molti anni in tutti i nostri paesi. Di solito a recitare era la gente comune che, durante l’anno, con grande volontà ed entusiasmo, si preparava e aspettava ansiosa il carnevale per esibirsi. Fu un momento molto atteso, fu un modo per mettere a nudo le abitudini del popolo e, spesso, divenne un modo per esprimere la voglia di riscatto sociale dei più umili. Come se il povero rivendicasse i propri diritti contro il ricco o, per essere più chiari, il servo contro il padrone. Attraverso la farsa e attraverso il dialetto, quindi, venne espresso il pensiero popolare, perché lo si poteva camuffare col teatro; diversamente, sarebbe stato represso.