La nostra storia. Il jazz è nato in Aspromonte?
- Redazione
É noto che l’etimologia del vocabolo jazz è sconosciuta. Il vocabolario Treccani spiega: “Jazz, sostantivo, voce gergale di etimo incerto, invar, usato in italiano al maschile. Genere di musica sorto all’inizio del secolo XX, negli Stati Uniti d’America dall’incontro fra la sensibilità musicale della comunità negro-americana e la tradizione europea, musica popolare soprattutto”. L’ipotesi che il vocabolo jazz derivi dalla voce dialettale jazzu in uso nei paesi del versante orientale dell’Aspromonte non è peregrina. E la congettura che la musica jazz sia il risultato dell’incontro fra la musica popolare calabrese e la sensibilità musicale della comunità negro-americana non è avventata. Vediamo perché.
Pronuncia e significato del vocabolo Jazzu
In gergo dialettale calabrese la sillaba “ja”, si legge “ia” come un dittongo; la seconda sillaba, “zzu”, pronunciata accentuando il suono delle due consonanti “zz”, sovrasta, in pratica elide, la vocale “u”. La vocale “i” pronunciata al plurale “jazzi”, scompare del tutto. Nella dizione inglese la prima sillaba“ja” si legge “ge”, per cui il vocabolo jazzu (sia al singolare: jazzu; che al plurale: jazzi), si pronuncia “gezz”. Il lemma dialettale jazzu, oggi in disuso, aveva significati molteplici: agghiaccio, ovile all’aperto, giaciglio, letto di paglia. “Fare jazzu” significava: fare squadra, frequentarsi con assiduità, stare insieme, fare comunella (comunità). Quindi si attagliava perfettamente ad indicare il luogo fisico - le capanne - e il modo di vivere dei colored statunitensi, per cui essi lo adottarono. E dunque la disputa sull’origine della parola jazz dovrebbe essere risolta, sia sotto l’aspetto lessicale che semantico.
Nascita del Jazz
La musica jazz nacque negli anni Venti in concomitanza-continuità con l’epoca di maggiore afflusso di contadini, manovali e pastori calabresi negli Stati Uniti d’America. A quel tempo tanti emigrati clandestini vivevano in condizioni non dissimili da quelle dei nipoti degli schiavi africani deportati in America. In alcune realtà locali si creò così uno scenario sociale, psicologico e spirituale particolare, dove i canti degli afro-americani si fusero (to shuffle) e si amalgamarono con la musica popolare dei jazzi d’Aspromonte, caratterizzata dalla poliedrica ed estemporanea varietà degli strumenti musicali e dalla totale mancanza di canoni compositivi precostituiti, entrambi fattori apparentemente negativi, che invece esaltavano l’estro creativo dei musicisti afro-americani, gratificando e affinando la loro sensibilità musicale.
Gli strumenti musicali in Gente in Aspromonte
Nei racconti Gente in Aspromonte, pubblicato nel 1930, Corrado Alvaro descrisse da par suo le tradizioni, le usanze popolari, soffermandosi anche sui variegati strumenti musicali in uso a San Luca. Ecco alcuni estratti: «I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno […] e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna […]. Qualcuno seduto su un poggio, come su un muro, dà fiato alla zampogna […] Antonello tirò fuori il fischietto […]. Andava avanti uno con una zampogna, e un altro batteva ora il pugno ora le cinque dita a un tamburello. […] I ragazzi dietro si erano raggruppati per ordine, e con dei sassi che picchiavano uno contro l’altro facevano i piatti della banda, mentre altri che con la bocca andavano mugolando piripiripiriri facevano le trombe. L’Argirò certe volte era preoccupato di trovarsi un flauto di oleandro e quando veniva il tempo della smielatura poneva da parte un pezzo di cera gialla per metterlo a pallina nel piffero che faceva la voce dell’usignolo. Stava attento che suonasse la prima zampogna a tempo debito, e quando i pifferi dei ragazzi suonano insieme tutti a natale, che pare la foresta dei rosignoli. [...] L’organetto suonava allegro; mettendovi una mano intorno come una cassa armonica faceva un suono profondo, un suono d’organo. Davanti alla soglia del municipio si cantava a squarciagola. Nell’aria ancora squillante per il fresco notturno s’intonavano canzoni cui si rispondeva da vite a vite. I vendemmiatori si riunirono all’ombra di un pesco brandendo la bottiglia di vino vecchio che si passavano a turno come se suonassero la tromba della follia. Si sente un suono come di chi piange piano per non farsi sentire; è lo zingaro più piccolo che gira per richiamo suonando il suo strumento invisibile, una lamina d’acciaio che si mette sotto la lingua e fa vibrare, variandone i suoni col cavo della mano disposto a cassa armonica». Corrado Alvaro ha magnificato la spiritualità popolare ed evidenziato la prodigiosa attitudine dei pastori a trasformare, tradurre in “musica”, anche il rumore e i suoni delle cose comuni: pietre, cera d’api, canne, oleandri, legno, oggetti di metallo, persino “il pianto, strumento invisibile” di un bambino. U tamburinaru ‘i santuluca: trait d’unione musica popolare calabrese e canti religiosi afroamericani?
Occasionale e inconsapevole coniatore e co-inventore della musica jazz è probabile sia stato Giuseppe Porcaro, padre di Joe Porcaro celebre batterista jazz, e nonno di Jeff, Steve e Mark Porcaro fondatori e componenti del gruppo musicale “Toto”. Nonno Porcaro, instancabile suonatore di tamburo, emigrò negli Usa nel 1913, proprio alcuni anni prima della nascita del jazz. Un ulteriore indizio a sostegno della tesi in questione: immaginiamo di assistere a un’esibizione di musicisti sconosciuti stando attenti che suoni “la prima zampogna a tempo debito, …i pifferi dei ragazzi suonano insieme tutti…, che pare la foresta dei rosignoli; e un musicista tira fuori… un pezzo di cera gialla per metterlo a pallina nel piffero che fa la voce dell’usignolo”.
Non è musica jazz, questa?
Aurelio Pelle