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La nostra storia. Il tempo dei mascherati

  •   Rocco Palamara
La nostra storia. Il tempo dei mascherati

A dispetto delle durissime condizioni di vita, a Casalinovo era straordinariamente fantasioso e partecipato il Carnevale, detto “IL TEMPO DEI MASCHERATI ”.

Neanche la tremenda alluvione del 1951, che costrinse all’abbandono del paese, valse ad attenuare la voglia di divertirsi e scherzare dei casalinoviti che continuò ugualmente nel campo profughi di Bova Marina (il Seminario) dove furono alloggiati nei 10 lunghi anni successivi.

Nel modo di travestirsi e di parlare ed di agire si prendeva il lato comico delle antiche paure, esorcizzandole; si ridicolizzavano i difetti, e si capovolgevano i concetti così che il BELLO era brutto e il GIUSTO sbagliato, e per cui nei travestimenti andavano le maschere più mostruose e nell’addobbarsi saltavano fuori i peggio esemplari dell’umanità: jumbusi, guahdharusi, orbi e sciancati.

Ribaltati anche i concetti di legalità, era normale vedere  nel viale le bande di mascherati (a volte muniti di lunghe corde) assalire e catturare i non mascherati (uomini) per introdurli con apparente violenza nelle putihe dove dovevano pagare da bere.

Erano, si intende, azioni per nulla considerate invasive. Comunque non così recepite e col valore della reciprocità in quanto erano veramente pochi gli uomini che non si travestivano per almeno una volta nel periodo indicato; i bambini tutti i giorni, e a volte persino le donne quando si scambiavano i vestiti con i mariti per visitare in quel modo parenti e amici.       

Calata la sera, bande da 3 a 5 mascherati sgusciavano silenziosi per i filari in cerca di “bottino”. Bussavano e normalmente gli veniva aperto. Alla domanda cosa cercassero rispondevano: “Vogliamo le cose storte!” secondo l’etica del momento- ma indicando nello stesso tempo l’oggetto del loro desiderio che erano le salcicce (“cose storte” per eccellenza) e solitamente appese sotto il tetto. Ma erano bene accette anche frittole, fichi secchi, castagne infornate e noci donate dal capo casale (il padrone di casa) che intanto, dopo lunghe trattative intorno a una bottiglia di vino,  cercava (insieme ai famigliari) di indovinare l’identità dei mascherati. Per contrasto quelli camuffavano la voce e, persino, bevevano il vino senza levarsi la maschera. Solo alla fine veniva il momento della calata delle maschere e il momento della verità su chi era stato più bravo a camuffarsi e chi a “smascherare” i mascherati.

A imitazione dei grandi anche noi bambini ci davamo da fare e, individuate le case dove sapevamo erano generosi,  a nostra volta andavamo per racimolare castagne infornate, fichi secchi, noci, raramente le preziose salcicce; tuttavia non senza tentare il colpaccio e alla domanda canonica: “Che volete?”, rispondevamo anche noi: “ Vogliamo le cose storte !!!”

Benedizione

Con aristocratica ritrosia da tali vedute “villane” si proiettava mastro Mario Bruzzaniti il falegname: giovanile e di bell’aspetto, che improntava la sua rappresentazione su un ruolo gentile travestendosi da prete senza maschera e con un bell’incarnato nel viso. Così conciato passava di casa in casa per “benedirle” all’uso del parroco nel periodo pasquale, che imitava alla perfezione: con tanto di camicia bianca di pizzo sulla tunica nera, trinacria in testa e aspersorio in mano. Coerenti in tutto, c’era anche il chierichetto col paniere delle donazioni dove i devoti  (come per l’altro prete) deponevano candididissime uova. Non cose storte!

L’Alzata         

Ma era nell’azione corale la specialità dei casalinoviti. C’era “Il giorno dell’Alzata”  altrimenti detto “il giorno degli africani” , quando tutti i maschi in grado di correre e saltellare eravamo chiamati a una grande adunata a partire dalle quattro di mattina. Si trattava di partecipare a una parodia degli africani, nell’eccezione dei guerrieri abissini per come ricordati dalle guerre coloniali.

Era la più “maschilista” delle nostre manifestazioni, in quanto prettamente guerriera; la partecipazione dei maschi adulti era pressoché totale, ed erano ben accetti anche i bambini piccoli per i quali anzi funzionava come una sorta di iniziazione perché “solo un grande” poteva alzarsi così presto al mattino! 

Ognuno, appena alzato, si tingeva le mani e la faccia col fondo nero della padella, così da sembrare un negro; si avvolgeva con un lenzuolo; si metteva qualcosa di buffo addosso; impugnava una canna o un bastone che fungesse da lancia e completava così il suo paramento da guerriero. Così conciato finalmente usciva per recarsi al piazzale, luogo l’adunata. Da là si partiva in fila indiana e ballonzolando con strilli e verseggiamenti simil-africani si cominciava a girare per il campo entrando e uscendo dai filari. Proseguendo secondo un carosello senza interruzione, man mano arrivavano i ritardatari che si accodavano alla fila e  questa si allungava fino a diventare un immane serpentone bianco che risaltava nel buio delle notte e l’ombra dei filari.  Al sorgere del sole, quando cioè i primi gruppetti di donne uscivano per gustarsi lo spettacolo, questo si spegneva  col riconcentramento nel piazzale; l’ ultimo carosello e la conclusione con solennità.

Il giorno del diavolo

Ma la parodia più coinvolgente, dove la partecipazione era generale, era quella detta del Diavolo, l’Angelo e la Morte: una allegoria sulla base delle credenze religiose.

Lo stradone e le vie adiacenti erano popolate dalla più varia umanità in costante agitazione e movimento imperniato su due nefasti personaggi: il Diavolo e la Morte. 

 – Il DIAVOLO, impersonato da un uomo vestito di calzamaglia rossa dalla testa ai piedi,  la maschera cornuta, con in  una mano un martello e nell’altra una padella con dentro uno straccio imbevuto di alcol  incendiato e di tanto in tanto alimentato;

 – la MORTE, figurata da donna con veste lunga e nera ed il volto verdastro seminascosto da un fazzoletto nero, e con in mano una roncola come nell’immaginario nostro paesano.

Il Diavolo era l’animatore principale della scena. Rincorreva chi ardiva stuzzicarlo; attaccava a fiamma tesa le masse di donne  e piombava alle spalle degli uomini che a gruppi ostentavano sicurezza.  Quando acchiappava qualcuno lo portava dritto dritto all’INFERNO”. Pardon, in una bottega di vino  a scelta del dannato; e la penitenza era sempre la stessa: pagare da bere.

Davanti al Diavolo si aprivano le folle di donne che, strette tra di loro, in certi bordi del viale ondeggiavano e si avviluppavano “spaventate” dal fuoco, con gli uomini  che a volte  scappavano – inseguiti – per sfuggire alla cattura; lo spettacolo  si articolava in più scene con l’improvvisa entrata in campo degli altri personaggi.

L’apparire della Morte, per la sua inquietante figura, portava un brivido sulla folla femminile  che per altro ella si dilettava a spaventare  agitando minacciosamente la roncola (vera). Le donne strillavano fingendosi spaventate ( e un po’ lo erano veramente) contribuendo loro malgrado allo spettacolo. Gli uomini si scansavano e la rispettavano perché ancora più del diavolo aveva la facoltà di portarsi all’altro mondo chi voleva. L’aldilà  aveva le stesse “porte” dell’inferno: quelle delle quattro putihe di vino.

In caso di strenua resistenza Diavolo e Morte si coalizzavano trascinando insieme “dannati” o “morituri” che fossero fin dentro le putihe. Se esageravano con la resistenza intervenivano aiutanti improvvisati col diritto di bere e per cui I resistenti erano maggiormente castigati.  

C’era infine l’ANGELO che si aggirava dietro le quinte facendosi desiderare in trepidante attesa perché era il solo in grado di ribaltare la situazione. Compariva  improvvisamente irrompendo di corsa nel viale protendendo la croce in faccia al Diavolo o alla Morte proprio quando questi avevano qualcuno sotto mano. Dovevano immediatamente liberalo e fuggire loro stessi tra gli applausi e l’acclamazione della folla  che per un po’ si liberava di loro. Come ogni allegoria religiosa che si rispetti il BENE trionfava sul MALE e la potenza di Dio riconclamata.

Il gioco delle parti, dentro le regole stabilite e con pesi e contrappesi naturalmente dosati, si autoalimentava stimolando il movimento della scena senza arbitri ne interruzioni.

Il giorno dei guerrieri

Veniva infine il Martedì Grasso, quando nel tardo pomeriggio tutto finiva con la morte di Carnevale. Per l’occasione gli si faceva un gran funerale col solito Mastroddongiannadria che lo impersonava adagiato su una scala e portato in giro per le vie.

Allora protagoniste tornavano le figure femminili, tipiche dei funerali, con gli uomini travestiti da donne in lutto con gonne, scialli, maglie e veli rigorosamente neri – assurdamente leggeri sopra i corpi mascolini. Così conciati si prodigavano in manifestazioni di dolore e pianti; salvo “consolarsi” nelle frequenti soste passandosi l’un l’altro bicchieri su bicchieri di vino.

Il “triste” evento era preceduto da un ancora più “tragico” accadimento avvenuto nella mattinata di quel giorno stesso.

Particolari come sempre, da noi la morte di Carnevale non avveniva per la vile consunzione del corpo oberato dai vizi (come altrove nella tradizione), ma per l’esito nefasto di un ferale duello. E ciò al culmine dell’ ennesima parodia stavolta detta “La parata dei Guerreri”, quando cioè tutti ci travestivamo da soldati, cavalieri o briganti, caricandoci di sorte di corazzamenti con cinghie di cuoio, piastre di cartone e coperchi di pentoloni come scudi; ed armati con spade e pugnali e coltellacci di legno, tutti con le lame “insanguinate”.

Nella baraonda generale, accanto alle trombette da due soldi strimpellate dai bambini, spuntavano una grancassa e due piatti d’ottone da banda musicale;  gli ottoni per solennizzare i momenti cruciali e la grancassa per apportare tono guerresco alla manifestazione.

Com’è ovvio, il momento culminante era il duello. Un anno ricordo che la disfida fu tra maru Peppi Carteri, uomo gagliardo e idolo dei giovani, contro quel panzone antipatico di Micu u Trillo, che tuttavia la superò uscendo vincitore.   

 Nel mezzo del grande cerchio dei guerrieri di tutte le età e sorte d’armamento, i due si batterono con corte spate secondo la scherma nostrana al coltello: senza cozzo di lame ma con frequenti fendenti che tagliavano l’aria, schivate di corpo e schermaglie.

Maru Peppi, alto ed energico, impostò la sua tattica sulla spettacolarizzazione del gioco, ruotando e zompando da una parte all’altra leggero ed elegante come un felino; mentre l’altro – impacciato nel fisico e assai più lento – impostò la sua (tattica) sull’attesa del colpo vincente di contromossa.

A un certo punto la spata di Peppi sbatté per terra spezzandosi. Un altro, svelto, gli lanciò la sua e il duello riprese; ma c’era stato il presagio! Il Trillo tirò e azzeccò il colpo: con la sua spata toccò al petto Peppi, che cadde di schianto sulla terra dura del piazzale.

 Supino, col suo viso d’Arcangelo nella zazzera riccioluta e le braccia e le gambe pelose scoperte al vento, rimase immobile; lo sguardo al cielo. Carnevale era morto e si levarono i pianti. I giovani adulti lo alzarono e, usciti dal piazzale, lo portarono come il Sigfrido sugli scudi lungo la discesa del viale. Novelli nibelunghi giovanotti e bambini seguendolo nel corteo lo piangemmo come il nostro campione sfortunato e non ci capacitavamo di come l’aveva potuto UCCIDERE quel panzone del Trillo!


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