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La nostra storia. L’alleanza tra bizantini e aspromontani

  •   Pino Gangemi
La nostra storia. L’alleanza tra bizantini e aspromontani

Anno 788 Aspromonte settentrionale

«Adelchi ritorna!». È il grido dei Longobardi, amici o nemici che gli siano, alla notizia che il principe longobardo sbarcherà in Calabria al comando di un esercito bizantino. «Il principe Adelchi ritorna per riconquistare il regno perduto!». È il grido di molti calabresi attratti dal sogno di una guerra, di una rapida vittoria e di un ricco bottino. Il penitente di Livorno è deciso ad assediare per prima Benevento, capitale di un ducato longobardo, quasi indipendente dai Franchi. Sbarcato l’esercito, lancia un invito a tutti i calabresi a unirsi a lui nell’impresa. 

La notizia rimbalza di paese in paese. Giunge fino in Aspromonte dove attiva uomini d’azione che hanno obiettivi diversi da quelli dell’illustre esiliato. Uno di questi uomini è Koran, della tribù degli Osci di Aspromonte. Appena udita la notizia dell’imminente guerra, Koran va a cercare frate Aurelio, punto di riferimento di tutte le bande della montagna e delle Planitiae. Lo prega di partecipare insieme alla guerra. Non tanto per soccorrere Adelchi nella riconquista del suo ex regno, quanto per aiutare gli Osci e i Bretti, ai confini delle terre longobarde, a liberarsi dalle razzie di schiavi. 

«È giunto per noi il momento di vendicare Herennio, ultimo Valgemon degli Osci di quelle terre, ucciso da rinnegati longobardi insieme a tanti della sua tribù», frate Aurelio ricorda il vincolo di amicizia che univa il suo bisnonno, Esopo, a Falco, predecessore di Koran. Soppesa lo scopo di annientare i rinnegati cristiani, che è nobile e alto, e che lo aiuterebbe nello scopo di costruire alleanze contro gli Agareni. Offre la propria collaborazione e si prodiga per convincere le banda sulle quali ha credito. 

Si discute a lungo tra i guerrieri d’Aspromonte se quella proposta da Koran sia o meno un’impresa in cui impegnarsi. Le difficoltà sono note. «C’è sempre il rischio che si trasformi in una impresa contro il papa che ha nei Franchi i suoi più fedeli alleati». Anche i pro sono noti. «Malgrado i proclami e le scomuniche del papa, sono continuate le razzie longobarde nei territori bizantini per la cattura di schiavi da vendere agli Agareni. Il monaco sfregiato gode di tante protezioni che nessuno lo ha ancora potuto catturare, malgrado la condanna a morte, da eseguirsi da parte di chiunque e promulgata da papa Adriano». 

Soppesati i pro e i contro, i magistri militum d’Aspromonte decidono di partecipare all’impresa. Appresa la decisione, tra i giovani guerrieri si diffonde un’improvvisa euforia. Unita a una pericolosa tendenza a sottovalutare gli avversari: «Nella penisola si sono insediati, alla fine di più invasioni, i barbari meno intelligenti e più grossolani. Totalmente insensibili alle esigenze della popolazione preesistente, rifiutano la fusione con i popoli vinti. Fondano città come quella sul monte Cocuzzo, ai confini con l’impero bizantino, costituite solo da popolazione di puro ceppo longobardo. Altrettanto pura è la più lontana Benevento, capitale del ducato». «Interessati solo a cacciare e ad allevare maiali, si scannano tra di loro per i più futili motivi e si tradiscono l’un l’altro continuamente. Non hanno senso di appartenenza ad un unico popolo e spesso si dividono tra Longobardi del Nord, assoggettati a Carlo re dei Franchi, e Longobardi del Sud, costituiti in ducato indipendente. La prova più convincente della loro disunione è questa impresa di Adelchi che, avendo perso il regno del Nord, cerca di rivalersi sul ducato del Sud, solo perché lo ritiene più debole». «In questa guerra, i Longobardi si contrapporranno in due fazioni e quella favorevole ad Adelchi ci aiuterà, come pure ci soccorreranno tutti gli autoctoni che non si sono fusi o non hanno ricavato vantaggi dal loro governo». «Ci aiuteranno anche quanti del popolo basso sono insoddisfatti di una legge di Liutprando, che per mettere al sicuro le proprietà dei nobili longobardi, ha permesso le peggiori forme di sfruttamento dei villaggi contadini. La legge stabilisce che ogni comunità debba rifondere il proprietario il cui fondo sia stato in qualche modo danneggiato. Implicito è il presupposto che i contadini senza terra sono sempre responsabili di qualsiasi tipo di danno al territorio». «La barbarie di quel popolo è tale che la legge è stata utilizzata per costringere le comunità a rifondere il proprietario da tutti i danni, anche da quelli provocati dal vento, dalle tempeste, dalle alluvioni, dai terremoti, etc. La rabbia contro questi proprietari è molto forte. E se non è ancora sufficiente a farli ribellare, potrebbe essere bastevole a portarli dalla nostra parte, per quello che ci serve in questa guerra». 

I magister militum lasciano parlare i loro giovani. Verrà più avanti il momento in cui spiegheranno che le cose non sono mai troppo facili. Per adesso, è bene che facciano andare la fantasia a ruota libera. Se gli uomini non si illudessero troppo spesso che le cose da fare siano semplici e poco impegnative, sarebbero tante le imprese, anche necessarie, che non verrebbero nemmeno cominciate. Si limitano, quindi, a ribadire che è necessario partecipare alla guerra non tanto per far riconquistare il potere perso ad Adelchi, quanto per avere accesso libero al territorio longobardo e poter catturare quanti più possibili rinnegati della fede, responsabili della tratta di schiavi cristiani. La sera stessa in cui la decisione è stata presa, frate Aurelio ha mandato in avanscoperta un folto numero di giovani monaci. Ha affidato loro il compito di muoversi lungo i confini, tra i monasteri bizantini e quelli longobardi, per farsi spiegare le reti di complicità dei rinnegati che incettano schiavi per gli Agareni. 

Anno 788 Terra dei Longobardi 

Una ventina di giovani guerrieri dell’Aspromonte sono arrivati nella città di Acri. Sono armati di accetta, lungo coltello, lance e arco composito. Ognuno di loro si posiziona davanti a una chiesa della città. Attende che qualcuno, spontaneamente, si avvicini. La voce popolare trasmette che sono venuti a indagare sulla tratta di schiavi cristiani e, in particolare, sull’odiato monaco sfregiato, uno dei capi dell’organizzazione di rinnegati. Molti si avvicinano e raccontano spontaneamente quello che sanno. Gli altri guerrieri delle banda stanno, intanto, con le truppe bizantine. Loro compito è proteggerne i lati nel percorso verso Benevento. Messa sotto assedio la città, rastrellano i territori intorno fin quando le truppe non consolidano le proprie posizioni. 

Quando cominciano ad annoiarsi per quel modo di fare la guerra che li tiene inattivi e ne mortifica le abilità, capiscono di non essere più indispensabili. Chiedono e ottengono di abbandonare il campo. Si uniscono al resto delle banda per una ricerca più capillare sul territorio. Le azioni di rastrellamento, più a vasto raggio, portano alla cattura di molti rinnegati. Li trascinano davanti ai religiosi delle banda e ai loro colleghi del posto. Questi leggono ai prigionieri la bolla di papa Adriano, promettono la salvezza della loro vita e dei loro congiunti se tradiranno i loro complici. Promettono anche la salvezza dei beni, proditoriamente accumulati, se daranno indicazioni su dove si nasconda il monaco sfregiato. Quanti dicono di non potere o non sapere sono consegnati a vescovi affidabili perché, dopo un’attenta inquisizione, venga eseguita una pena proporzionale alla colpa. Lasciano liberi i parenti che, per essere donne, o bambini non hanno partecipato ai rapimenti e alle uccisioni e gli anziani perché non potrebbero parteciparne in futuro. Risparmiano a tutti la casa, il raccolto e gli animali, ma portano via loro tutto ciò che ha valore ed è trasportabile: oggetti preziosi, candelabri, monete, armi. 

Scovano, in uno di questi rastrellamenti, un vecchio marinaio, Gianni detto Fango, che, da più parti, viene indicato come il braccio destro dello sfregiato. Lo costringono a rivelare dove sia nascosto il frate. Per aver salva la vita, collabora pienamente. Un forte gruppo di guerrieri e religiosi parte subito, prima che la voce della cattura di Fango arrivi lontano, verso un piccolo convento all’altezza del monte Pollino, vicino al mare, in località Blanda. Giungono la sera molto tardi. Frate Aurelio propone una tattica prudente: invita i laici a circondare, da lontano, le vie d’uscita dal convento, e i religiosi, circa una dozzina, a deporre le armi e dotarsi solo di un nodoso bastone. 

Quando sono pronti, i religiosi si avvicinano e suonano alla porta del convento. Da dentro il frate portinaio domanda: «Chi bussa?» «Confratelli in cerca di rinnegati della nostra fede!» «Non ci sono rinnegati in questa casa di Dio!». «Chi viva?». Invece di rispondere, padre Aurelio ha fatto un’altra domanda. Silenzio dall’altra parte. Nuova domanda, con un tono della voce molto più alto: «Chi viva?» «Viva la Santa Trinità!». «Chi viva?» domanda ancora Frate Aurelio. «Viva la Santa Croce!» «Chi viva?» domanda ancora la voce mostrando impazienza. «Andate via, indemoniati ed eretici! Lasciate in pace i fraticelli di questo convento!» frate Aurelio grida gli evviva che vorrebbe sentire «Viva la Santa Romana Chiesa! Viva Papa Adriano! Viva la bolla papale che condanna a morte i traditori della propria fede che fanno commercio di schiavi cristiani con gli Agareni!». L’intento dei nuovi arrivati è stato dichiarato. Nessuna parola proviene da dietro la porta. Né la porta si apre. «Viva la Santa Romana Chiesa! Viva papa Adriano!» fa segno ai suoi di restare zitti e si mette in ascolto. «Viva papa Adriano!» la voce non proviene da dietro la porta. La si sente arrivare dall’alto, da quella che sembra essere la finestra di una cella. «Viva papa Adriano!» questo secondo grido proviene da una finestra vicina. Altre voci cominciano a sentirsi da altre celle. Dietro il pesante portone, che rimane ancora chiuso, nessuno risponde o reagisce. Un’altra lunga pausa di silenzio. Finché, oltre la porta, non si sentono passi concitati di gente che corre verso il portone. Quindi, chiari rumori di un tafferuglio. La porta, lentamente, si apre. «Viva papa Adriano!» grida il primo monaco che si affaccia e subito si scansa per far passare. Entra per primo frate Aurelio armato di bastone. Seguono gli altri. 

Notano che due monaci del convento tengono immobile il portinaio. «Legatelo!». I nuovi arrivati dilagano nel cortile del convento. Incontrano monaci che vengono verso di loro esultando: «Viva papa Adriano!». Vedendo i bastoni dei nuovi arrivati, si dotano anch’essi di armi improvvisate e li precedono lungo la scala che porta alle celle. Davanti a ciascuna cella, chiamano per nome il confratello. Molti escono gridando «Viva papa Adriano!». Alcuni, che non aprono, vengono bastonati dai loro confratelli che irrompono di forza nella cella. I nuovi arrivati non intervengono. Qualche volta anche chi esce, lanciando i suoi evviva al papa, viene picchiato. «Ora è troppo tardi!». E giù botte. Giungono, infine, alla cella del priore. La trovano sprangata. 

I frati del convento sussurrano che, lì dentro, c’è lo sfregiato, con il priore, suo protettore. La porta viene sfondata. Il priore si prende la propria razione di bastonate dai confratelli. Frate Aurelio impedisce che lo sfregiato venga toccato«Questa è carne per l’inquisitore. Dobbiamo solo portarglielo per la punizione che merita». Ordina che sia legato e caricato su un cavallo. Il priore e gli altri monaci, complici dello sfregiato, vengono caricati su un carro. Saranno portati al loro vescovo. «Arrivando, denunciate al popolo il loro peccato. E solo dopo consegnateli. Il popolo saprà cosa farne di tutti e aiuterà il vescovo a prendere la decisione più giusta». Frate Aurelio è sicuro che il vescovo del luogo è, perlomeno, debole, se non è stato capace di richiamare all’ordine il priore. Il popolo, ne è sicuro, saprà incitarlo a un’azione decisa. I giovani guerrieri vengono mandati ad avvisare gli altri delle banda. 

I religiosi dell’Aspromonte portano velocemente lo sfregiato verso Sud. Già la sera successiva sono nelle più sicure terre bizantine. Si inoltrano nella valle degli Osci. Consegnano il prigioniero a Dosseno, il nuovo Valgemon. Lo sfregiato viene trascinato sul luogo dove gli Osci hanno celebrato la loro ultima tragica festa della memoria. Alla presenza dei congiunti di Herennio, l’adorata figlia Detfri, i maschi Buccenno e Marconne, e degli altri sopravvissuti della tribù, gli si legge il lungo elenco delle sue vittime: i nomi degli uccisi e i nomi dei venduti agli Agareni come schiavi. Il suo orecchio sfregiato viene mostrato come prova della sua colpevolezza. 

È condannato e immediatamente decapitato. E solo allora ognuno si sente libero di piangere congiunti e amici morti o persi per sempre. Il luogo dell’esecuzione prende, da allora, il nome di Decollatorio, un riferimento alla decapitazione, ma non al nome del rinnegato affinché niente di lui possa essere ricordato o tramandato.


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