La nostra storia. L'Aspromonte, Garibaldi e... Rrusulia
- Giuseppe Pentimalli
È ubicata nel comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, in montagna a circa 1200 metri di quota, una pineta famosa per gli eventi storici del 1862 che videro coinvolti rivoluzionari garibaldini e truppe regolari dell’esercito “italiano”.
Bisognava fermare a tutti i costi l’avanzata dei garibaldini per ragioni di opportunità politica (c’erano di mezzo i rapporti della Casa sabauda con il Papato) e in uno scontro a fuoco sull’Aspromonte fu persino ferito lo stesso Garibaldi, il quale, dopo aver ordinato ai suoi di cessare le ostilità, si sedette appoggiandosi ad un pino secolare che ancora esiste, recintato e leggermente incavato, ed è meta di visite turistiche assieme al mausoleo che si trova nei pressi e custodisce le cosiddette memorie garibaldine. Questa, perlomeno, è la vulgata che gli storici del regime hanno tramandato ai posteri. Ma, siccome chi comanda detta legge, come afferma icasticamente un adagio paesano, la vera storia del ferimento di Garibaldi è stata obliterata. Sta di fatto che, sulla base di racconti popolari, che non possono essere tacciati di pura e semplice fantasia, i garibaldini durante la loro marcia si abbandonavano a rapine e stupri di ogni genere. Un giorno fu organizzato uno stupro in massa nei paesi aspromontani, e segnatamente a Pedavuli (Delianuova), in seguito al quale ci fu una reazione popolare violenta ed ebbero la peggio i garibaldini e lo stesso Garibaldi. Naturalmente le donne nel XIX secolo non avevano la cultura dell’aborto e non pensavano di ricorrere a pratiche abortive rudimentali con rischio della vita, ma portavano avanti le gravidanze, anche se indesiderate, con l’unico conforto che i figli venivano per volontà di Dio. Rrusulia (in italiano Rosalia) era il frutto di uno stupro. La piccola cresceva sana e di robusta costituzione. Era di carnagione bianca e aveva i capelli di colore biondo scuro. Ogni anno diventava sempre più alta, simpatica e bella, dai lineamenti signorili, anche se era costretta a vivere in un tugurio in promiscuità con gli altri componenti della famiglia. Le solite malelingue dicevano che era figlia naturale di Garibaldi, il quale avrebbe violentato la madre di lei sull’Aspromonte mentre lavorava in aperta campagna, perché solo così poteva avere una spiegazione il colore dei suoi capelli e la corporatura slanciata a confronto dei capelli castani degli altri familiari e della loro statura relativamente bassa. Ma è preferibile pensare che fosse figlia di qualche “garibaldino” siciliano, che può avere stuprato la madre di lei innamorandosene poi a tal punto da consigliare per la futura creatura (se femmina, ovviamente) il nome Rosalia, tipico della zona di Palermo. Rrusulia era diventata una ragazza avvenente e socievole, pur attraverso il duro lavoro nei campi. Era analfabeta, perché le donne nel XIX secolo non venivano mandate a scuola (veramente neppure gli uomini erano alfabetizzati, tranne casi particolari). Anche se non poteva permettersi di indossare vestiti alla moda, le misere vesti che poteva utilizzare la rendevano comunque ammirevole ed era sempre oggetto di sguardi furtivi ed alquanto interessati da parte dei giovanotti del luogo. Era grama la vita dei contadini, che, per via del duro lavoro, a volte si comportavano in maniera rozza e priva delle più elementari regole di decenza. Rrusulia lavorava sodo e cercava di non pesare più di tanto sul magro bilancio familiare, perché, o inavvertitamente o per calcolo interessato, qualcuno dei parenti un giorno le aveva detto che sarebbe stato meglio per tutti se, dopo la nascita, l’avessero consegnato alla “ruota”. Una sera Rrusulia, che era andata ad attingere acqua con una cortara (orcio) alla fontana pubblica, fu avvicinata da un giovanotto che con modi gentili le disse che voleva sposarla. Ella rispose che non era ora per lei di pensare al matrimonio e che, comunque, bisognava contattare per un’eventuale decisione in tal senso suo padre. Il giovanotto a quel punto l’apostrofò così: «Se Sua Maestà Garibaldi mi riceve!». Rrusulia trasalì e, indispettita, lo mandò alla malora. Siccome il giovanotto apparteneva a famiglia “ndranghetista”, organizzò il rapimento della ragazza, che venne stuprata con il fine del matrimonio riparatore. Rrusulia accusò il colpo, ma non volle saperne di sposare lo stupratore, anche se la sua famiglia spingeva in quella direzione. Se prima era stata socievole, allegra, solare ed a volte spensierata, dopo che fu violentata divenne sempre più pensierosa, guardinga, malinconica, acida nelle battute ironiche e sarcastiche con le amiche e gli amici e sfuggente di fronte a qualsivoglia discorso impegnativo. Lavorava nei campi come prima e più di prima e i familiari non le facevano pesare affatto il suo nuovo stato di donna destinata a restare zitella per tutta la vita, secondo le consuetudini tradizionali in un mondo di contadini poveri, ma onesti e rispettosi gli uni degli altri. Un giorno Rrusulia era andata in campagna da sola, perché doveva completare un certo lavoro, e stava riposando, finita l’opera, sotto un albero al fresco. Passava per caso, attraverso un viottolo nei pressi, un contadino sui trent’anni, un bonaccione che ella conosceva perché abitava lì vicino e spesso avevano parlato di come si lavorava sodo e si guadagnava poco per una vita dignitosa. «Rocco, vieni a farmi un po’ di compagnia, dove vai con questo caldo?», chiese Rrusulia. Rocco le si avvicinò e si sdraiò sull’erba accanto a lei. Dopo qualche frase di circostanza Rrusulia gli disse a bruciapelo: «Rroccu, facciamo l’amore?!». Egli restò a bocca aperta, felicemente sorpreso dalla proposta. Si unirono in un dolce amplesso. Dopo qualche mese si unirono in matrimonio contro le stupide convenzioni sociali per cui una donna stuprata non avrebbe mai trovato marito. A distanza di un anno dal matrimonio Rocco fu assunto dal comune come becchino del locale cimitero. Siccome in gergo il becchino è denominato campusantaru, perché lavora nel camposanto, Rrusulia da allora fu chiamata con l’appellativo a campusantara. La vita della coppia, allietata dalla prole, si svolgeva tranquilla nel cimitero e nelle immediate vicinanze, dove coltivavano un appezzamento di terreno per ricavarne ortaggi e frutta per il sostentamento quotidiano. Abitavano in una catapecchia accostata al muro di cinta del cimitero. Una mattina andò a trovarla un’amica, alla quale Rrusulia offrì dei fichi che aveva poco prima raccolto da una pianta che era cresciuta presso una tomba. L’amica rifiutò l’offerta dicendo che non voleva nutrirsi del “succo” dei morti. Un giorno, trovandosi in paese per fare delle spese, Rrusulia fu apostrofata con tono di scherno da una compaesana con le parole «Ma guarda, la figlia di Garibaldi, che di solito ha a che fare con i morti, sembra un fantasma ambulante!». Rrusulia, provata dalla vita e dal lavoro, senza alcuna remora di ordine morale o convenienza sociale ribatté: «Zocculara, figghja di zzocula, pensa mi ti curi da sifiliti, ca vijatu ndi vidimu o camposanto!» (Puttana e figlia di puttana, cerca di curarti la sifilide, perché presto ci vedremo al cimitero!). Un’altra volta la monotonia della vita quotidiana della famiglia di Rrusulia fu turbata dalla richiesta di disseppellire in un giorno tre morti alla presenza dei familiari superstiti. Il tempo passava ma i familiari in questione non arrivavano. Rrusulia con il marito e due figli, senza attendere più di tanto visto il lavoraccio che dovevano fare, disseppellirono i morti e gettarono le ossa alla rinfusa su una carriola. Alla fine del lavoro, con notevole ritardo sull’ora convenuta, arrivò la moglie di uno dei morti e, vedendo tutte quelle ossa sulla carriola, piangendo disse: «Ora come faccio a riconosce le ossa di mio marito?». Rrusulia a mo’ di conforto le disse: «Signora, scartativi i megghju megghju!» (Signora, scegliete quelle che vi sembrano migliori!). La vita grama della povera gente era a volte allietata da un pizzico di buon umore che si contrapponeva con benevola ironia alla dura fatica quotidiana.