Il racconto. Il fuoco
- Rocco Palamara
L’incendio del campo profughi di Bova Marina
Infine arrivò anche il fuoco! Accadde nella notte del 27 dicembre 1960 a quasi due lustri da quell’altro “castigo” (dell’acqua) per l’alluvione del 1951. A quella data le baracche del campo profughi, fatte di semplici tavole di abete, erano di quanto più incendiario si potesse immaginare avendo per interi 9 anni accumulato sole e il calore domestico di una sovraffollata umanità. Negli ultimi tempi, per giunta, le baracche erano state foderate con carta catramata per una blanda quanto inutile forma di coibentazione.
Per essere fatti di una stanza sola, gli alloggi inoltre erano stipati all’inverosimile di roba, tutta suscettibile al fuoco: casse colme di biancheria per la dote delle figlie, materassi, coperte e quant’alto per dormire, mangiare e conservare le cose e con vestiti appesi e tendaggi svolazzanti per separare i comparti per la notte, mentre le pareti erano abbondantemente tappezzate con fogli di giornale per imbellettarle e tappare gli spifferi.
Su tanto potenziale combustibile incombevano svariati tipi di innesco: fornelli elettrici usati di straforo (la corrente era gratis ma limitata); candele accese nelle frequenti interruzioni dell’elettricità; le micidiali bombole del gas per cucinare e i bracieri per riscaldarsi (con i bambini che scorrazzavano negli angusti spazi), che facevano di ogni baracca una potenziale polveriera. Trecento alloggi bomba pronti ad esplodere o al gran falò!
Negli anni, di principi d’incendio c’e n’erano stati a dozzine, tutti spenti sul nascere grazie alla costante presenza delle persone. Fatta l’esperienza si arrivò a codificare una serie di interventi efficaci a seconda della tipologia dell’incendio. Di fronte a fiammate virulente - come quando pigliava fuoco il tubo del gas - un uomo, se presente doveva levarsi immediatamente la giacca di dosso e soffocarle con quella senza indugiare a altri mezzi o alla perdita dell’indumento stesso.
Con una variabile improvvisata, una volta un capofamiglia, visto il tubo della bombola prender fuoco pensò bene(anzi male!) di staccare la bombola scaraventandola fuori nel mezzo della via. L’ordigno però continuò a spruzzare fuoco e fiamme senza che nessuno più - per paura che scoppiasse – osasse avvicinarsi per spegnerla. E in quel modo continuò per un tempo interminabile fin quando da Bova Marina non giunse il fornitore che con un semplice giro di chiave la stoppò (con grande scorno per i miei paesani per un “marinoto” che li aveva superati in coraggio); ma tant’è, il gas, in quanto diavoleria moderna, era tra le cose che ci spaventavano di più. L’altra “brutta bestia” era per noi l’elettricità.
Anche il grande incendio fu causato dall’elettricità, ma non per un “corto circuito” come ancora qualcuno vorrebbe far credere: a innescarlo fu un ferro da stiro acceso e dimenticato. Tutto iniziò verso le otto e mezza di sera in un determinato alloggio abitato da una famiglia con giovani particolarmente forzuti che però seppur presenti non si accorsero se non troppo tardi che gli aveva preso fuoco la casa. Molto verosimilmente il ferro era celato da una tenda e il puzzo di bruciato confuso con quello emanato dai bracieri di cui era intrisa tutta l’aria intorno. Tentarono allora di spegnerlo ma quando valutarono che non ce l’avrebbero fatta i maschi della famiglia si risolsero a salvare quanta più poterono della loro roba, portandosela fuori non curandosi più delle fiamme che dalle pareti divisorie con i convicini passò agli altri alloggi e all’intera fila di baracche con inaudita rapidità.
La fila di baracche aggredita dal fuoco era la seconda di sei (ogni una di 20 alloggi). nel settore prospiciente al grande palazzo del vecchio seminario che lo sovrastava da sopra un terrapieno a ridosso della collina. Il piano inclinato e forse anche una leggera brezza proveniente dal mare indirizzarono il fuoco in quella direzione. Le fiamme, disdegnando – per così dire - la prima fila che era più in basso, dalla seconda passarono alla terza per proseguire fila dopo fila in salita. La più grande parte della baraccopoli li accanto sembrava invece fuori pericolo per un largo viale di mezzo che la separava dalla parte incendiata .
In breve tutto un lato del “campo” divenne una immensa fornace. Le fiamme si levarono altissime producendo sul cielo una inquietante aureola color ocra sanguigno alta ed estesa ben oltre le fiamme stesse. A quella vista impressionante si aggiunsero sin da subito i boati delle bombole delle cucine che scoppiando al contatto col fuoco si videro volare con parabole di fuoco da una parte e l’altra del campo e per molte decine di metri.
Dopo l’iniziale disorientamento, tutto prese un ordine e ogni persona responsabile si diede da fare in ordine delle proprie priorità. Mia madre, dopo averci bruscamente svegliati e condotti al sicuro nell’attiguo uliveto, corse più giù verso il centro del “campo” nell’alloggio dei miei nonni suoi anziani genitori per assicurarsi sulla loro condizione.
Abituati a prendere di petto ogni sorte di emergenza, i paesani non aspettarono l’arrivo dei pompieri. Si individuò sin da subito quella gran risorsa che erano i recipienti colmi d’acqua accumulata dalle donne fuori delle porte di ogni alloggio e che con un improvvisato passamano venne portata con i secchi e bagnarole fino alla linea del fuoco nel tentativo spegnerlo. Allora, mentre tanti si davano anima e corpo in quella operazione, altri invece si preoccuparono prima di tutto di salvare le loro cose allontanandole il più possibile dalle baracche aiutandosi l’un l’altro tra parenti e vicini. Fatiche anche inutili là dove poi il fuoco non arrivò affatto.
I giovani
Disdegnando il salvataggio della roba, gruppi di giovani si lanciarono da una porta all’altra dei filari battendo sulle porte degli alloggi per allertare le persone esortandoli a uscire con celerità. In alcuni casi abbatterono le porte sottraendo di peso i disabili e i vecchi qualcuno dei quali venne strappato dal letto e portato via contro la sua volontà. Si introdussero nelle case - anche con incursione tra le fiamme- staccando sistematicamente le bombole del gas per ruzzolarle lontano. Una già presa dal fuoco scoppiò scagliando lontano il ragazzo che la stava trascinando e che a sua volta altri giovani corsero a soccorrere portandoselo via con un grosso squarcio nel fianco. Fu l’unico seriamente ferito della tremenda nottata.
I gruppi intenti allo spegnimento si risolsero, in certi casi, a gettare l’acqua non tanto sulle baracche già mezze divorate dal fuoco ma sulle pareti di quelle che
stavano per essere attaccate. A un certo punto – contrariamente quanto sembrava - anche le baracche dell’altro lato del viale iniziarono a prendere fuoco. Per la grande caloria emanata dalla parte opposta queste altre presero a fumare e il catrame che li ricopriva friggeva e si incendiava in continuazione. Anche le chiome di alcuni alberi di olivo dello stesso lato presero fuoco. Fu chiaro allora che solo gettando acqua in continuazione sulle pareti esposte a tanta calura sarebbe stato possibile salvare dal fuoco l’intero campo; e i più ardimentosi dovettero combattersela anche là, lungo il viale, con secchiate d’acqua gettate correndo a entrambe i lati, sotto una calura infernale.
Tra le sagome nere sullo sfondo di luce abbagliante di quelli che smanettavano eroicamente con i secchi si distingueva quella più corpulenta di Don Miotti, uno straordinario prete che nell’ordinario degli altri giorni si poteva vedere con pala piccone e carriola per aggiustare le vie. La sua camicia nera da prete operaio , con le maniche eternamente attorcigliate sopra il gomito era più trasandata che mai ed egli sudava e urlava come gli altri, con la differenza di essere forse il solo a non bestemmiare come un dannato. Quando il fuoco sembrava dovesse superare anche l’ultima fila e sboccare nel piazzale della chiesa si ricordò di essere anche il prete e corse in sacrestia e, prelevato il prezioso ostensorio e avvolto in un panno scuro, lo e consegnò a un ragazzo (“degno”) affinché corresse a nasconderlo il più lontano possibile nella campagna.
Incredibilmente il fuoco non superò quell’ultima fatidica ultima fila, forse perché questa era situata sopra una scarpata maggiormente difendibile oppure per il sopraggiungere dei pompieri, che alla fine arrivarono e fecero qualcosa pure loro. Prima ancora però erano giunti a piedi da Palizzi alcuni amici di un mio vicino di casa, per aiutarlo; e per cui i paesani dovettero vedersela da soli per almeno tre ore contro il fuoco: quando se fosse lasciato a se stesso in un ora sola avrebbe incenerito tutta quanta la baraccopoli . Si salvarono dunque l’ultima fila e la chiesa come tutte le altre baracche oltre il viale, per un totale di circa 200 alloggi, e molto probabilmente anche il grande palazzo del vecchio seminario, a cui sarebbe toccato dopo la chiesa. Ad andare in fumo furono invece quattro intere file di baracche per complessivi 80 abitazioni. Se non ci furono anche i morti fu per un “miracolo” paesano.
Al mattino, nel grande quadrato vuoto di quello che erano state abitazioni brulicanti di vita, restavano distinte strisce nere alternate a quelle giallastre della terra battuta delle vie. Dalla cenere emergevano i resti contorti di brande, macchine per cucire, fornelli e poche altre cose di ferro o di ghisa ancora distinguibili: perché ogni altro metallo si era fuso.
Nelle forme più stravaganti sortite dalla fusione emergevano dalla ceneri grandi quantità di alluminio, rame e stagno che, col ferro assai meno costoso ma più abbondante, parvero come una sorta di miniera per noi bambini che per molti giorni ancora ci dedicammo alla raccolta del metallo per venderlo al rigattiere di Bova Marina. A piangerlo furono i vecchi proprietari di quello che furono quelle cose alcuni dei quali persero proprio tutto
Sistemati sin da subito (da parte delle autorità) in alloggi di fortuna i senza tetto, al “campo” si tornò rapidamente alla normalità. Col relativismo tutto casalinovita nessuno fece una tragedia per la roba perduta. Il ragazzo ferito – tale Fortunato Modafferi - guarì senza conseguenze sulla salute. I giovani - cresciuti nel mito dell’azione – trovarono nell’accaduto motivi di contentezza per avere dato buona prova di sé. Tra quelli che videro il bicchiere mezzo vuoto (o vacante del tutto) le vecchiette timorate di Dio videro nel fatto il disappunto del Padreterno per i troppi comunisti in circolazione. Dello stesso tenore Don Miotti che dal pulpito della sua chiesa, da dove ne aveva dette di cotte e di crude, ebbe motivo di aggiungere altra carne sul fuoco alle già ardimentose prediche sulle storture nella comunità.
La rota
Non di meno anche la Rota ebbe tanti nuovi argomenti da portare in discussione. Il grande cerchio degli uomini detto comunemente “‘rota” si formava tutti i giorni nelle ore fuori dai pasti in un punto o l’altro del viale. Essa era da noi una vera istituzione la cui funzione era riflessa nella forma stessa: un cerchio perfetto di una linea sola di persone. Gli ammessi di fatto erano esclusivamente maschi adulti ai quali si apriva e richiudeva a ogni nuovo arrivato, ricomponendosi sempre allo stesso modo. Quale luogo di intrattenimento - anche ludico - e di conversazione era all’occorrenza anche biblioteca dei ricordi e scuola paesana dove si discuteva di qualunque cosa tranne che di sport. L’attualità era nel caso il pezzo forte e si parlò allora per giorni e giorni delle vicende del fuoco. L’”istituto”, per la sua stessa forma e natura funzionava da punto di mediazione per ricucire attraverso il ragionamento e il confronto le discrepanze nella comunità. Funzionando senza “funzionari” si reggeva equilibrata nel fatto che ognuno poteva dire quello che voleva ma sempre mettendoci la faccia, assumendosi le proprie responsabilità.
“Conservare la faccia” era tutto, e siccome la ragione andava anche con chi sapeva pigliarsela alla Rota in quei giorni andò a comparire anche quel capofamiglia della partenza del fuoco. Egli, che per altro era una brava e stimata persona e tra gli assidui della rota stessa, espose al meglio la sua narrazione dei fatti a scanso di colpe sue e dei suoi famigliari: i colpevoli? la sfortuna che ci perseguitava e una tragica fatalità! A chi allora gli rimproverò di non aversi tolto rapidamente la giacca per soffocare con quella la prima fiammata di fuoco , egli si giustificò col fatto di indossare al momento una giacca nuova di sarto e che sarebbe stato un vero peccato rovinarla! A voler essere pignoli c’era stato anche il poco edificante episodio dell’altra sua roba salvata mentre il fuoco si prendeva quella degli altri ma, per quanto incredibile, la giustificazione venne ritenuta ammissibile: tutto sommato c’è l’eravamo cavata alla grande, la ROTA assolse anche lui e tutto passò in cavalleria.
https://www.inaspromonte.com/artestoria-ia/la-nostra-storia-l-incendio-delle-baracche-al-seminario-di-bova-marina#sigProGalleria7716a1ba4d