La nostra storia. Le verità sull’industria della seta in Calabria
- Pino Macrì
L’ultimo periodo di (relativo) splendore per la Calabria fu quello compreso fra il Cinquecento e la prima metà del Seicento. Oltre a motivazioni a carattere strategico, uno degli elementi che maggiormente contribuì, in quel periodo, a far puntare sulla nostra regione lo sguardo (interessato) del resto dell’Italia e di buona parte d’Europa, fu la forte produzione di seta grezza di cui il territorio calabro fu protagonista: si calcola che il 75% del totale prodotto in Italia in quel periodo provenisse dalla Calabria.
Le tracce di quel luminoso passato vanno, oggi, sempre più sbiadendosi, ma sono ancora visibili, tanto a lungo durò il fenomeno, ancorché in costante decadimento, e tanto profondamente esso segnò l’intera cultura, oltre che il territorio stesso. Lo studio dei Catasti (onciario e “murattiano”) consente molto spesso di far riaffiorare testimonianze che sarebbe bene preservare prima che l’inarrestabile rullo compressore dello sviluppo a tutti i costi le cancelli definitivamente anche dalla memoria collettiva.
Bovalino
In quello che fu l’antico territorio dello Stato di Bovalino, pur non annoverato fra i più notabili centri di produzione della seta, si possono riconoscere ancora alcune tracce rimarchevoli dell’ormai non più esistente industria serica: nel più antico dei catasti, l’Onciario – che a Bovalino fu redatto tra il 1742 ed il 1745 (al tempo, lo Stato di Bovalino comprendeva anche i territori di Benestare e Cirella) – si ritrovano due edifici sicuramente adibiti alla lavorazione del pregiato filo, ed altri, di minore importanza, all’allevamento dei bachi. Il primo è quello che per molto tempo sarà noto come “Case del Duca”, e che, unitamente al palazzo di contrada Donna Palumba, la Torre Scinosa, e la chiesetta delle “Anime del Purgatorio”, costituirono a lungo le sole edificazioni nella piana costiera del territorio di competenza (foto 1). Nella scheda relativa all’elenco dei beni del Duca, si legge: “[possiede] Alla Marina di Bovalino, in loco detto Lo Scinoso, una casa [in cui] stanno quattro Manganelli e quattro Conchie per cavar seta in tempo, e s’affittano ann[ualmente]. Su questa struttura, l’Onciario, inoltre, ci informa che [il Duca] esigge [sic!] d’affitto di conche e manganelli nº 4 per cavar seta, siti in una casa alla marina, loco d[ett]o lo Scinoso, [per una] rendita stimata annua di ducati 20:00:0”.
Per avere un’idea della consistenza fisica (e fiscale) dell’edificio, bisogna però ricorrere alle schede del Catasto “murattiano” (che non è datato, ma dovrebbe ascendere al 1812 circa): esso viene iscritto alla Sez. B – Melochéa, con i numeri 2 (con 3 camere di 3ª classe) e 3 (4 bassi di 3ª classe) e corrisponde con certezza all’odierno palazzo Stranges (foto 2) e, forse, a parte del Palazzo Morisciano, compresa la strada che oggi li separa (foto 3).
In giro per le campagne, invece, vi erano alcune case “per comodo di nutricata”, cioè dove avveniva il solo allevamento dei bachi: a Melochea (Malachìa), di proprietà del Magnifico Matteo Montoro; a Porticato, due fabbricati di cui era proprietario il Beneficio della Cappella del Venerabile; a Rodìa (oggi in territorio di Benestare), proprietà del Beneficio di S. Antonio di S. Luca, e ancora a Rodìa, proprietario Domenico Perri. Sempre fra i possessi del Duca di Bovalino, ma anch’essi concessi in affitto, due edifici per la lavorazione del pregiato materiale: il primo, a Benestare (“Possiede detta Corte una casetta contigua al casale di Benestare, loco detto la Fontana, in Fondo Feudale, e s’affitta con due conchie, e due manganelli per estrarre seta, per ogni anno ducati 10:00:0”); l’altro a Cirella (“Più un’altra casetta nel Territorio di Cirella ove si dice Barvatano contigua alle case di Cirella, loco detto La Fontana, in Fondo Feudale, questa s’affitta con una conca e manganello p. cavar seta, ann. ducati 5:00:0”).
L’opificio benestarese è stato da me individuato con certezza (foto 4 e 5), mentre quello di Cirella, se ancora esistente, no. Per quanto riguarda la forza lavoro, però, le indicazioni di entrambi i Catasti sono più scarse, ed attengono unicamente ai trattori (cioè torcitori, apprendisti o subordinati) e Mastri trattori di seta: in realtà il Mastro trattore (torcitore) di seta di Bovalino, Domenico Pricopio, era, nel 1745 (epoca di stesura dell’Onciario) morto da poco, ad appena 23 anni.
Ma la produzione serica dell’Università era attestata dalla presenza di altri tre trattori, censiti a Benestare (al tempo, come detto, casale di Bovalino). Di questi, uno, mastro Domenico Franconeri (40 anni), era piuttosto benestante e risulta possedesse anche una casa alla Guarnaccia (a Bovalino), limitante col M.co Paolo De’ Romeis, estensore del Catasto. Gli altri due erano mastro Antonio Di Lorenzo (45 anni) e Antonio Tallarida (33 anni). Poche, quasi nulle, invece, le indicazioni dell’Onciario sulla consistenza delle colture di gelsi. In questo senso soccorrono però le indicazioni del Catasto “murattiano”, che, al contrario dell’Onciario, non dà notizie sui mestieri esercitati, ma sulle qualità agrarie dei fondi: nel solo territorio di Bovalino (al momento dispongo solo di questo Catasto, poiché, come noto, nel 1806 Benestare si separò, costituendo comune autonomo) le aree con coltura a gelso assommavano a 132 tomolate su 5093 di estensione del territorio comunale (il 2,6%). La parte del leone, ancora una volta, era appannaggio del duca Pescara Diano, che, proprietario di quasi 80 tomolate con coltivazione “a gelzi”, era l’unico in grado di costituire impresa su discreta scala. Seguivano, a grande distanza, la Chiesa ed alcune famiglie di “galantuomini” (la neo-borghesia nata dalle speculazioni sulla grande truffa della Cassa sacra): gli Sculli (10 t.), la Diocesi di Gerace (6 t.), gli Spagnolo (5,5 t.), i Minici-Franzé di Sant’Agata del Bianco (5 t.), i Blefari (quasi 4 t), i Procopio (2,5 t.). Per il resto, in massima parte si trattava di piccoli e piccolissimi appezzamenti, che possono far pensare ad imprese a carattere strettamente familiare, legate più alla tradizione che ad iniziativa economicamente rilevante (da 1/8 di tomolata ad una tomolata intera)
La situazione in Calabria
Da una prima, sommaria, analisi di altri Catasti, riferiti a territori vicini, ma anche a zone del catanzarese e del cosentino, variano i numeri, ma non la sostanza del fenomeno: da un lato, pochi latifondisti del settore, con in mano le grandi proprietà colturali e, quindi, le produzioni ragguardevoli (ma sempre con riferimento e confronto ad una scala locale: il confronto regge poco, a partire dalla seconda metà del ‘600, con altre realtà regionali, sia regnicole che del resto d’Italia), dall’altro i piccoli e piccolissimi coltivatori ed artigiani del settore che, della striminzita produzione serica, si giovavano più per le esigenze familiari e, col pochissimo sovrappiù, a far quadrare i miseri conti della sopravvivenza, che non ad impiantare o rappresentare una vera e propria attività industriale. Non in grado, cioè, di dare un’impronta, come da più parti artificiosamente si vorrebbe, di sviluppo economico. Tanto meno di produzione di ricchezza notevole. Alla prossima puntata, poi, l’illustrazione della vita, in Calabria, degli addetti alla lavorazione del pregiato prodotto serico.
Le condizioni femminili
Era una vera e propri ricchezza, l’industria serica in Calabria? In parte, fino alla metà del Seicento, certamente sì. Successivamente, vari fattori ne decretarono dapprima una condizione produttiva in sottordine, poi, il declino, lento ed inarrestabile, interrotto solo da un breve periodo di pochi decenni fra l’Unità ed il Novecento. A fronte, però, di una, tutto sommato, immeritata fama di ricchezza diffusa, è bene chiarire che non di paradiso si trattava, ma, spesso, di un inferno vero e proprio: condizioni di lavoro disumane, sfruttamento inverecondo del lavoro giovanile e salari spesso da fame costituivano la regola, solo di rado disattesa. Numerose sono le pubblicazioni in merito. Qui si riportano alcuni aspetti di una ricerca di un attento storico calabrese dell’Unical, Giovanni Sole. Intanto, il primo dato che balza agli occhi è relativo al trasferimento dell’attività lavorativa dall’uomo alla donna: già verso la fine del Settecento erano praticamente scomparsi i trattori uomini, e le mansioni maschili erano ridotte alla contabilità ed alla sorveglianza. In molti casi la forza lavoro femminile raggiunse a poco a poco il 95% circa del totale, con ragazze spesso molto giovani, addirittura bambine al di sotto dei sedici anni. Le filandaie, poi, erano oberate da turni di lavoro massacranti. “Nel 1857 molti sindaci, rispondendo a una inchiesta del governo, dichiararono che le operaie «faticavano dal sorgere del sole al tramonto del sole», altri comunicarono che le operaie lavoravano almeno 12-13 ore al giorno e solo qualcuna 10 ore”. Per sovrappiù, gli stessi ritmi di lavoro davano poco spazio a decenti condizioni di vita: “In fabbrica le lavoratrici non dovevano mai distrarsi e “maestri trattori” e proprietari le sorvegliavano per controllare che lavorassero alacremente. Durante la giornata c’era solo una piccola pausa per il pranzo o come spesso si ironizzava, quando passava un morto, poiché si pensava che filare la seta avrebbe allungato il soggiorno in purgatorio”. Ma, almeno, si potrebbe pensare che sul fronte dei salari un tale sfruttamento desse luogo ad un’adeguata remunerazione! Invece, le operaie specializzate “guadagnavano dai due ai quattro carlini al giorno, mentre le altre percepivano una paga che andava da uno a due carlini e le fanciulle guadagnavano un carlino in sotto” (cioè meno di un carlino). Ancor peggio andavano le cose per le apprendiste: esse, “come le 23 fanciulle impiegate nelle filande di Rende, ricevevano solo “regalie”.
La “cova” dei bachi
In alcuni filatoi i proprietari mettevano a disposizione delle donne che arrivavano dalle lontane campagne un dormitorio dove riposare e, a volte, davano loro qualcosa da mangiare. Le filandaie di San Fili, ad esempio, avevano “due libbre di cacio in ogni mese di lavoro e quelle di Lago oltre il salario sei once di carne, due giorni la settimana e della frutta”. In uno struggente componimento di Salvatore Scervini, poeta dialettale di Acri (1874-1925), tutta la disperazione di un lavoro talmente usurante da lasciare poco o punto spazio ad una vita decente. Ma nemmeno sul lato della produzione a livello familiare, poi, le cose andavano migliorando: anzitutto, spesso gli incannucciati su cui si disponevano ed alimentavano i lombrichi erano posti su quattro pali, nel medesimo unico ambiente in cui tutta la famiglia viveva; poi, le rudimentali tecniche di “cova” dei bachi (che, in assenza di stufe atte a mantenere in ambiente chiuso una temperatura costante, venivano surrogate dalla “pettorina” delle donne di casa, fino alla schiusa) e le altrettanto rudimentali metodologie di filatura, fornivano, al più, un prodotto grezzo, solo in minima parte venduto ai grossisti, ed in massima utilizzato per le esigenze (coperte, biancherie, corredi) familiari, ben lungi, però dalla raffinatezza a cui il nome stesso del prodotto indurrebbe a pensare.
‘A MASTRA ‘E SITA
Sona la campanella,
sùsiti vita mia, ch’è fattu juornu
tutta stonata iu tuornu
alla mia concarella;
povara turturella scumpagnata,
‘ngalera cunnannata!
La capumastra è n’orca,
lu patrunu e n’u corsu scatinatu
teni la vucca sporca
‘na vuci de spirdatu.
Cavuci, bastonati, sucuzzuni
su’ la paga chi duna
De sita strilucenti
vanu vestuti tutti li signori,
regnanti, ‘mperaturi,
e quantu intra li genti
ci su’ magnati, ricchi, stravaganti,
li madonni e li santi;
a mia la sciorta ‘grata
nu’ mi duna de stuppa ‘na gunnella!
Puortu ‘na vitranella
stinta ‘ncapu ligata
e ‘nu strazzullo, a zibiettu a zibiettu,
mi cummoglia lu piettu!
Stu cori troppu ardenti
intra lu sangu miu coci e si vulli,
cumu fau li cuculli
dintra st’acqua vullenti.
Coru miu affrittu, coru appassionatu
cumu ti viu chiangiutu
Nisciunu giovaniellu
mi ‘ncatenatti l’arma intra lu piettu,
nun sientu null’affiettu,
sulu ‘nu mungibiellu
fruscia ‘ntenieru la mia vit’affritta
de sdegnu e de minnitta.
Cà nun avia sett’anni
e la vita alla conca cunzumai;
la tinta nun guardai
chi cosa eranu ‘nganni!
Prima ‘e du tiempu mia, senza l’amuru,
piers’’u coru e l’onuru!
Si ccu’ surda mannara
iu spaccari potissi tutti quanti
li cori de l’amanti,
st’anima mia para para
de la furnaci ardenti intra lu fuocu
riposerìa ‘nu pocu!
‘Nu cacchiu vorra fari
de sita chi ‘nu truonu nun rumpissi,
ed iu ci vidissi
‘mpisi ppe l’aria stari
l’uomini de la terra, a milli a milli,
attaccati alli stilli!
De tutti abbannunata
n’odiu tiegnu ferociu chi nun passa
nu’’nfiernu chi ‘u mi lassa.
De nullu fuozi amata!
Errama, affritta, chi’? Ma chi’ mi resta
intra ‘ssa gran timpesta?
Puru ‘mmienzu alli stenti
passu allegra la vita ura ppe d’ura.
Nun tiegnu nulla cura,
nun haiu patri o parienti
nun tiegnu amici e senza gelosia
scurri la vita mia!
E ‘nsiem ‘alli compagne
sparu li mia canzoni appassionati
‘ntronanu li vallati,
li munti e li campagni
e ‘nu difriscu sientu ‘ntra lu piettu
‘nu spuocu, ‘nu rigiettu!