La riflessione. L'infinita nostalgia del Natale
- Antonella Italiano
Mio fratello aspettava con ansia che si facesse sera, quando Alfonsino con il suo gruppo di musicanti passava dalle case a cantare la novena. Correva alla porta e restava a guardarli: erano alti, tutti coperti, con tanti strumenti e tante canzoni.
Erano bravissimi. Ma quando poi si allontanavano, mio fratello restava in silenzio, dietro la finestra, aspettando con le orecchie tese che la musica finisse. E si faceva triste.
Per questo, mio padre, il giorno dopo, invitò Alfonsino ad entrare, e tirò fuori un registratore e una cassetta, e la mia cucina diventò una vera sala d’incisione. «Dai cantami quella in dialetto» «E ora cantami quella del Bambinello».
Mio fratello non era mai stato così felice, e forse anche Alfonsino lo era. Io, invece, non ero nemmeno nata. Perché la vita scorre su un filo d’oro. Tina ci aspettava impaziente, quella sera pioveva. Aveva un caminetto sempre acceso e tanti amici a farle compagnia. Come si sentiva lì con lei il Natale, e con i miei cugini, che correvano per il corridoio insultandosi. E mio zio, anziano e smemorato, ogni volta che mi vedeva in quella casa mi apostrofava severo «Tu cu si?» ed io neanche rispondevo, ché senza accorgersene dopo qualche minuto mi chiamava per nome. E Tina, inguaribile sognatrice, ci insegnava le strofe della novena, decideva chi e quali strumenti, e seguiva con attenzione le nostre prove.
Fu allora che gli odori, i suoni e il freddo di dicembre mi entrarono nel cuore e nelle ossa. Mio fratello, invece, non l’aspettava più la novena. Lui era già grande. Perché la vita è un volo. «Scusa potrei parlare con te?» Alfonsino mi aprì la porta sbalordito. «Vedi questa cassetta? La conservava mio padre, ci sono delle novene che tu cantavi vent’anni fa. Sono strofe bellissime. Te ne ricordi qualcun’altra? Ci piacerebbe recuperare questi testi antichi». Alfonsino sorrise, e mi promise che avrebbe provato a ricordarli, e con destrezza si liberò di me.
Lui non era un gran parlatore, un tipo solitario piuttosto, ma il foglio, se pur incompleto, me lo mandò sul serio e fu mio zio Totò a riscrivere, per quelle meraviglie del passato, gli arrangiamenti musicali. A modo suo naturalmente. E con la chitarra puntualmente scordata. Ma aveva sempre voglia di cantare, e a furia di novene, muttetti e serenate faceva festa tutti i mesi. Compreso dicembre.
Oggi l’allegria di mio zio, la voce di Afonsino, i sogni Tina, tornano come ogni anno a tenermi compagnia. Anni, anni e anni che sembrano legati da un filo d’oro. Il pomeriggio è appena iniziato, ma è già buio il cielo. E l’aria è gelida, di un freddo che brucia la pelle. E il paese profuma di legna e di camino. E si veste di arance.
Cammino, in queste strade un po’ più vuote, ripensando a noi così piccoli e coraggiosi. Ai tempi in cui tutto era possibile, al calore di un ricordo, che si accende a arde nelle sere d’inverno. Mai inutile. Mai sbiadito. Mai malinconico.
Questo mi resta. E resta un albero, su cui appendo dolci e cioccolatini, affinché anche i più piccoli abbiano, domani, qualcosa di familiare con cui scaldarsi il cuore. Ed esso sarà per loro essenza, storia, tradizione. Sarà un freddo che arriverà alle ossa, l’odore di arance e mandarino, il fuoco e il fumo di un caminetto acceso, e dei canti che sopravviveranno per altri cent’anni.
Sarà un volo che saprà di mistero e di preghiera. Di infinita nostalgia. Di Natale.