La riflessione. Ritrovarsi dopo la pioggia tra colori nuovi e storie che si ripetono
- Gianfranco Marino
L’altro giorno scartabellando in soffitta nel tentativo di fare ordine tra vecchie foto e ritagli di giornale me ne è venuto tra le mani uno dei tanti conservati negli anni con cura minuziosa da mio padre. Si tratta di un articolo vecchio più di mezzo secolo, un pezzo di Pietro Borrello scritto in un italiano affascinante che oggi non si sente più se non in quei preziosi filmati dell’Istituto Luce, quelli delle Teche Rai, un pezzo estratto da una copia del“Gazzettino dello Ionio” del 1964, un periodico locale che di certo ormai pochi ricorderanno. L’articolo celebrava un’importante pagina di storia di Bova relativamente recente, accendendo i riflettori su una data importante per la comunità aspromontana e nello specifico per la piccola comunità della frazione Brigha uno dei più popolosi satelliti della Chòra dove in quei giorni arrivava la strada rotabile mettendo la parola fine all’isolamento strizzando l’occhio ad un futuro che invece poi avrebbe disegnato a proprio piacimento il prosieguo della storia. Rileggere quel pezzo e riguardare qualche foto mi ha suscitato alcune considerazioni ed a spingermi a riflettere non è stato solo il fascino dello stile narrativo quanto soprattutto le tante analogie con un presente che proprio in queste settimane ci parla di danni post maltempo, di devastazione e isolamento e di problematiche mai realmente risolte.
Ripensando a tutto questo, rivisitando nelle mente in modo veloce immagini vecchie e nuove, fotogrammi di una storia lunga che sembra ripetersi con colori diversi e contenuti assai simili, mi sono detto che prima o poi, ad un certo punto del cammino ci si debba necessariamente trovare tutti, nostro malgrado nudi ed indifesi davanti ad un bivio, perché sono tanti forse troppi i bivi della storia, quelli che separano i percorsi personali e collettivi. Imbocchi una strada piuttosto che un’altra e il finale cambia e non è più come lo avevi immaginato. A rileggere quel pezzo non è difficile intravedere quale fosse la strada tracciata e non m i riferisco certo solo a quella che portava alle case di Brigha. Poi dando uno sguardo veloce all’ultimo quarantennio di colpo vedo i segni di una brusca sterzata e di una corsa in discesa inarrestabile in direzione opposta verso il mare. Attese, speranze, progetti, tutto svanito, tutto scomparso di colpo caduto preda di un’infatuazione folgorante, poi guardo il mare con quell’azzurro intenso e penso, come si fa a non innamorarsi di fronte ad un azzurro così, cerco di darmi una spiegazione e penso che sicuramente quella gente ha preferito l’azzurro di quel mare al colore duro e meno accogliente del fango che si solidifica dopo ogni pioggia.
Come biasimarli, nel fango ci si sporcano i piedi e le mani, nell’acqua limpida e azzurra dello ionio li si può ripulire, non c’è da prendersela, chi è stato innamorato sa che quando lo si è perdutamente si vede quello che si vuole vedere e l’idea di levarsi di dosso quel fango prima che si solidificasse del tutto è stata evidentemente più forte di tutto il resto, più forte di qualsiasi altra idea perché non c’è stato tempo di spiegare a tutta quella gente innamorata che quell’acqua contiene anche sale, non c’è stato tempo di spiegare che la salsedine corrode e consuma assai più di quel fango che serve a modellare e scolpire, serve a dare forme definite che vanno lette e capite con gli occhi di chi li sa e li vuole capire. A pensarci un po di più, forse ci si sarebbe accorti che il fango lo tocchi, lo prendi tra le mani, lo plasmi e lo modelli mentre l’acqua quella no, lei ti strega, ti ripulisce, ti rinfresca e poi ti sfugge senza che tu riesca mai a fermarla, contenerla o modellarla, che forma ha l’acqua ? Sono certo che linguaggio a parte, la lettura del pezzo di Borrello di analogie con la realtà che stiamo vivendo ne possa suggerire tante, almeno quanti sono gli appelli e le manifestazioni di protesta che si sono ripetuti in queste settimane e che si ripetono puntuali da decenni all’indomani di ogni ondata di maltempo, quando la pioggia lascia un dazio pesante da pagare a chi risorse e forza di pagare ormai non ne ha davvero più. È tragico e curioso allo stesso tempo guardare come la gente della montagna sembra avere trasferito a valle anche i problemi del territorio, quelli di cui pensava di disfarsi con quella corsa veloce verso il mare, e invece niente, inutile correre veloce la musica non cambia, l’acqua corre sempre un po più veloce di te e ferite mai realmente sanate si aprono puntuali e riprendono a sanguinare sotto i colpi del maltempo mettendo a nudo la fragilità di una terra sempre al bivio tra la vita e la morte, sospesa in attesa di una fine che si mostra sempre crudele senza mai affondare il colpo di grazia. Rileggo di nuovo quel pezzo, quello del ‘64, non perché mi sia sfuggito qualcosa solo perché nel rileggerlo mi piace sognare ancora quel sentimento di speranza che lascia trasparire, un sentimento che traccia il profilo di un’epoca andata via ormai da tanto tempo. In attesa dei rigori dell’inverno ormai vicino non rimane che godersi un’estate di San Martino quest’anno particolarmente benevola e poco importa se l’inverno sarà severo, la gente della montagna tanto lo sa che presto o tardi tornerà un’altra primavera.