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  •   Rocco Palamara
La scuola dei profughi di Africo al seminario di Bova

Dopo i nostri genitori, i primi a frequentare l’aula scolastica immortalata da Tino Petrelli nella celebre foto del 1948, noi fummo la seconda generazione ad andare a scuola e questa la si viveva ancora con molta difficoltà. Le maestre faticavano a inculcarci le nozioni dato il discutibile metodo di insegnamento e i tanti altri disagi e difficoltà, come il fatto che la nuova scuola era – dopo il nostro trasferimento da Casalinovo a Bova marina – in aperta campagna e per raggiungerla dovevamo percorrere una lunga carrettiera celata tra i giardini senza essere accompagnati dagli adulti, tra chi litigava, correva, gridava, tirava pietrate a casaccio o lanciava i libri (che alla fine dell’anno erano ridotti a uno stato pietoso).

Le maestre stentavano a dominarci e buon per loro se erano considerate entità superiori e intoccabili dai nostri genitori, che ci intimavano a ubbidirle senza discutere e nel caso di sorbirci in silenzio le botte delle punizioni. Le rarissime volte che le nostre mamme venivano per informarsi (i padri no, perché non era ritenuto un loro compito) non facevano che ripetergli «Menate, menate!». Come se quelle zitelle (e lo erano davvero quasi tutte, le maestre) avessero bisogno di incitazioni. Usassero almeno le classiche bacchette di legno! E invece no: menavano con le verghe di vimini che a ogni colpo lasciavano senza fiato perché – questo sì – seguivano la prassi di picchiare sulle palme delle mani. Se non le si porgeva per essere picchiati diligentemente perdevano le staffe e tiravano a casaccio così che imparassimo per un’altra volta …. dicevano.

I compiti a casa erano un’altra jattura data la ristrettezza degli alloggi e l’irresistibile richiamo della strada con gli schiamazzi di quelli che giocavano, perché ogni rumore era condiviso nel campo profughi fatto di baracche dove alloggiammo alla male e peggio. Impossibile poi ricevere un minimo aiuto dai grandi che sapevano solo intimare «Prendi il libro!»; ma che non trovavano il tempo (ne erano in grado, poi) di aiutarci a studiare. Sta di fatto che i votacci fioccavano, accompagnati dalle sberle, e alla fine dell’anno le bocciature con il conguaglio delle cinghiate.

L’angoscia di finire respinti e non passare di classe imperava, perché erano davvero molti quelli con una, due, tre, o persino quattro bocciature sul groppone. Pochi gli immacolati e quasi tutte femmine. Dei miei compagni maschi in quarta solo il mio amico Ciccillo Priolo aveva la mia stessa età e non era ripetente: tutti gli altri erano più grandi e taluni -ultraquattordicenni – non vennero in quinta perché già troppo vecchi. Non vennero neanche due delle femmine, che durante le vacanze si erano fidanzate (in famiglia).

Un altro pensiero che ci assillava era come pararsi dalle botte delle maestre, se impreparati: c’era allora chi si caricava di maglie e chi veniva bardato di giacca anche col caldo, per attutire le vergate. Altri ancora ricorrevano a espedienti persino più fantasiosi, ma il metodo più sicuro restava quello di non entrare affatto a scuola in caso di ariaccia. Occorreva allora (ma era molto facile) trovarsi qualche compagno d’avventura per aspettare senza annoiarsi nei dintorni della scuola per poi – finite le lezioni – tornare a casa mischiati ad altri senza dare all’occhio ai genitori. “Giocarsi la scuola” era il nostro modo di definire tutto ciò; e va da sé che capitava anche di giocarcela (la scuola) anche e solo per giocare. Stare alla compagnia era l’altro motivo trascinante per le diserzioni; ma di scuse anche bizzarre ce ne furono di tutti i tipi come quando, in più di venti, ci gettammo alla campagna appresso a un fucile.

Quel giorno uscimmo da casa avviandoci lungo la famigerata carrettera come al solito e senza grilli per la testa fino a che, a scuola già vicina, vedemmo tre nostri compagni saltare la staccionata dei giardini e rientrare nella strada tenendo in mano nientemeno che un fucile. Trionfanti! L’avevano rubato per ripicca a un vecchio che li aveva sgridati e minacciati dopo dei dispetti. Sta di fatto che la sortita strepitosa dei tre coincise con l’arrivo del grosso degli scolari, tra cui io, suscitando grandissimo entusiasmo fra i maschi non troppo piccoli che subitamente accorremmo per toccare con mano quello che quasi i nostri occhi non credevano vero. Si creò una ressa in un clima esilarante e quando i tre eroi del momento (il più grande aveva 11 anni) si divincolarono e presero a camminare, noi tutti li seguimmo aspirando ogni uno di portarlo in mano almeno per un po’ il gran “fucilazzo” – una vecchia scopetta ad avancarica, in realtà, e senza munizioni. Formata una “banda” di non meno di venti scolari, cartelle in spalla e quell’unico schioppo passato di mano in mano, prendemmo a marciare spediti in salita aggirando accuratamente la scuola – che era a mezza collina – e continuando a risalire la rotabile di Bova per poi uscire molto più su, in una radura, e vagare nelle colline completamente dimentichi delle lezioni, delle maestre e anche dei nostri genitori che però poi lo seppero e – triste ritornello! – ci diedero un sacco di legnate.

Le botte faceva da contrappunto (purtroppo) a tante delle nostre azioni anche perché sul loro valore “educativo” allora erano tutti d’accordo: le “civilissime” maestre non meno dei nostri contadinissimi genitori. Quanto a noi, nostro malgrado, accettavamo il “gioco” come naturale col vantaggio però che pagando cash (senza sconti e senza crediti) non ci sentivamo poi in debito di nulla e auto-legittimati a ripeterci… a nostro rischio.

Tra tutti quanti c’era una sola persona che la pensava in modo differente: una supplente che veniva da Reggio e che (sarà pure il caso) non era una zitella come le altre maestre, ma una donna sposata. Era una figura materna e veramente moderna che però ci spiazzava: non ci menava ne minacciava se ci trovava impreparati e pur tuttavia fu proprio lei che (benignamente s’intende) una volta ci mise una gran fifa a tutti quanti. Spiegando la poesia La cavalla storna di Giovanni Pascoli ci disse come questa era ispirata all’uccisione del padre del poeta ad opera di sconosciuti rimasti impuniti. Dato il contesto oggettivamente mafioso di quel fatto accaduto in Romagna, passò poi a parlarci direttamente della mafia in Sicilia e della “terribile” pratica dell’omertà di cui noi (di un paese di ‘ndrangheta per eccellenza) non avevamo allora (1959) percezione alcuna. Per come ce lo diceva, nel modo accorato in cui pronunciava le parole e per come ci guardava, sembrava ella stessa molto spaventata. Un senso stringente di angoscia pervase l’intera scolaresca e nessuno più fiatava.

Quando terminò e riprendemmo finalmente a respirare qualcuno commentò: «Per fortuna che da noi non c’è la maffia!».


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