La storia della resistenza dell’Aspromonte ai Saraceni
- Pino Gangemi
Le lontane radici della formazione di una coscienza nazionale.
Proponendo di costruire una cultura nazionale, che punti a unire gli Stati dell’intera penisola, Vincenzo Gioberti elenca una serie di eventi storici rilevanti e ne valuta le visioni, distinguendole tra miopi e patriottiche.
Come esempi di reazione patriottica all’influenza politica e culturale degli stranieri, egli porta, per il Nord, le varie Leghe di Comuni, a cominciare dalla Lega Lombarda e, per il Sud, i Vespri siciliani, la rivolta di Masaniello e le “ultime guerre della Calabria” (Gioberti 1944, vol. II, p. 389).
Mi vorrei soffermare su queste “ultime guerre” e fare delle osservazioni:
- se ci sono le ultime guerre, ci saranno state pure le prime;
- le ultime non possono essere le battaglie di resistenza ai Francesi del 1806-7 perché Gioberti avrebbe usato il termine al singolare;
- le ultime possono essere, e mi sembra che siano, la guerra del 1799, cioè la vittoriosa avanzata del Cardinale Fabrizio Ruffo, e quella del 1806-7, la guerriglia ai Francesi.
Ma se queste sono le ultime guerre calabresi, quali sono le prime, secondo Gioberti? Dato il contesto, in cui si fa riferimento alle Leghe di Comuni del XII secolo, ai Vespri Siciliani del XIII, etc., le prime guerre calabresi dovrebbero essere quelle di resistenza all’invasione Saracena dall’VIII all’XI secolo, prima della conquista normanna (1059, anno della resa di Reggio Calabria e Squillace).
Dopo la morte dello storico Michele Amari (1806-1889), che è stato il fondatore degli studi orientali in Italia e studioso di fama internazionale, il quale, però, si è interessato soprattutto della sua Sicilia, queste prime guerre di Calabria erano ancora considerate da Croce molto importanti. Quest’ultimo ha identificato nell’azione delle popolazioni calabresi (ma non solo) nel periodo prenormanno una sorta di anticipazione del Risorgimento, in quanto ha contribuito al formarsi di una qualche radice di spirito nazionale. Croce si riferisce “all’Italia prenormanna, con la sua diversa e contrastante composizione, con la necessità in cui le singole popolazioni si trovarono di aiutarsi come potevano e di stringersi attorno ai loro centri, e di costruire dappertutto castelli e rocche, per salvarsi dalle minacce dei vicini e dalle incursioni degli Agareni” (Croce 1965, p. 19).
Ripetendo un giudizio condiviso da Giustino Fortunato, Croce ha ribadito l’estraneità del periodo normanno e svevo alla storia nazionale. Questo, come ha sostenuto Fortunato, “Perché normanni e svevi, la cui politica mirò costantemente più all'Oriente che all'Italia, se diedero al Regno la potenza, non gli assicurarono lustro e floridezza; e il grandioso tentativo della colonizzazione angioina, nella seconda metà del secolo XIII, sparve sul nascere” (Fortunato 1911, p. 1).
Oggi, sul periodo normanno e su quello svevo, le opinioni degli storici sono profondamente cambiate, e già a suo tempo il giudizio dei due meridionalisti non era condiviso nemmeno da altri meridionalisti come Salvemini. “Sotto i Normanni e gli Svevi la nobiltà fu tenuta a freno e talvolta anche oppressa; gli ecclesiastici ebbero ricchezze e poteri molto limitati. Il feudalismo vero e proprio entra nel Mezzogiorno con gli Angioini e ci fu regalato dal Papa. Nella battaglia di Benevento i nobili abbandonarono Manfredi; questo semplice fatto dimostra ciò che la nobiltà aveva da rimproverare agli Svevi e aveva da sperare dagli Angioini” (Salvemini 1898).
È non privo di interesse, per questo scorcio di fine della seconda repubblica, in cui la Questione Settentrionale ha ingloriosamente e prepotentemente sostituito la Questione Meridionale, considerare che, secondo Gioberti, le guerre calabresi prima e i Vespri Siciliani dopo hanno oggettivamente aiutato i Comuni del Nord a mantenere la loro indipendenza dall’impero carolingio e tedesco. Anche per questo, continua Gioberti, l’ex Regno delle Due Sicilie è da considerare essenziale al ruolo della nuova nazione italiana perché nessuna nazione Europea si è potuta considerare una grande potenza senza essere stata anche una grande potenza marittima. E decaduta Venezia e sparita persino la memoria militare-marinaresca di Pisa e di Genova (per non parlare di Amalfi), solo la marina militare meridionale, unita a quello che rimaneva della marina veneziana, poteva rappresentare una adeguata garanzia contro le pretese egemoniche di Gran Bretagna e Francia nel Mediterraneo.
Gioberti critica, inoltre, la visione miope che avrebbero avuto le varie Leghe Lombarde che non sono riuscite a lungo nel loro scopo di difendersi dal dominio straniero perché non hanno elaborato una strategia tendente a unire l’intera Italia, ma si sono limitate a immaginare una strategia di alleanza tra i soli Comuni del Settentrione. Lo stesso si può dire, dal punto di vista giobertiano, per l’impresa di Gian Galeazzo Visconti alla fine del XIV secolo. L’impresa è stata fermata dalla sua morte (1402), ma non avrebbe avuto un duraturo successo se si fosse fermata, come era stata progettata e quasi realizzata, all’unificazione sotto un solo principe del Nord e del Centro Italia fino alla Toscana.
Si può dire che la storia si ripeta perché è alla corte dei Visconti, signori di Milano, che all’inizio del XIV secolo, con Galeazzo I Visconti, che Galvano Fiamma inventa la figura di Alberto da Giussano, per giustificare miticamente le aspirazioni di Milano alla conquista del Nord d’Italia. Come è noto, la figura di Alberto da Giussano è stata recuperata nel Risorgimento come un mito di unità nazionale (in questo senso lo hanno inteso Garibaldi, Verdi, Carducci, etc.) mentre, nel corso della seconda repubblica, è stata recuperata nel suo significato originario e assunta a simbolo da una forza politica, la Lega Nord, che si propone di riunificare le Regioni del Nord fino alla Toscana e, a volte, minaccia di staccarle dal resto della penisola.
Diversa da quella viscontea è stata, invece, l’aspirazione della Serenissima, la quale ha cercato, all’inizio del XVI secolo, con la terza ondata di dedizioni nella Romagna (la prima la ha portata a conquistare il Veneto fino al Mincio e la seconda un pezzo di Lombardia fino all’Adda), di unire, in un unico Stato, l’intera penisola.
Un decennio dopo la calata in Italia di re Carlo VIII di Francia, con i suoi micidiali cannoni che hanno finito con il travolgere tutte le velleitarie resistenze e hanno dissuaso dal resistere i più prudenti, Venezia comincia la terza ondata di dedizioni, nelle terre della Romagna, controllate dal Papa che è, al tempo, Giulio II (quello che ha fatto affrescare a Michelangelo la Cappella Sistina). Sia Machiavelli che Guicciardini concordano nel ritenere che la terza ondata di dedizioni accolte da Venezia indichi una chiara scelta politica nella direzione dell’obiettivo di realizzare l’unità d’Italia. Indifferente a questo problema, il Papa Giulio II organizza contro Venezia la Lega di Cambrai. Venezia gioca esplicitamente la carta dell’indipendenza d’Italia portando le proprie truppe, ad Agnadello, a combattere contro la Lega dei tre Imperatori, nel nome di “Italia e Libertà”. Ma i mercenari arruolati non sentono l’importanza del compito e non si battono, provocando a Venezia una sconfitta che le fa perdere quasi tutto lo stato di terraferma.
Mancando i mercenari, Venezia viene posta sulla difensiva e con i soli contadini, come si vide nell’assedio di Padova, qualche mese dopo, Venezia riesce a superare la crisi e recuperare quasi per intero i propri territori. Questi contadini, che hanno combattuto ad Agnadello (arrivando anche vicino a vincere), nel corso dell’avanzata delle truppe straniere, si sono fatti uccidere a centinaia per non rinnegare il loro legame alla Serenissima. Molti vengono giustiziati e muoiono al grido di “Viva San Marco”, mentre le truppe dei tre Imperatori vanno dilagando nei territori della Serenissima, da Bergamo e Brescia fino alla laguna. Sempre i contadini, mesi dopo, riprendono a combattere con determinazione, nell’assedio di Padova, dove, tuttavia, vengono adottate parole d’ordine diverse da quella di “Italia e Libertà”. I contadini, dopo l’invasione delle loro terre da Brescia alla laguna di Venezia, mostrano, nella difesa del Bastione della Gatta di Padova, di privilegiare, data la situazione, parole d’ordine come “Pace e Famiglia”, date le pratiche in atto, al tempo, da tutte le soldatesche che occupano un territorio nemico, di trasformare in schiave del sesso per la truppa le donne dei territori sconfitti (madri, sorelle e figlie dei contadini combattenti).
Significativa la canzone popolare che tramanda l’episodio della resistenza al Bastione della Gatta di Padova. Sul Bastione ci sono ancora due diverse statue raffiguranti ciascuna una gatta (la più piccola e più rovinata dalla pioggia, tiene un topo tra le dita, a segno di vittoria). Come ha spiegato Sigmund Freud, che ha dedicato uno studio al mito della gatta di Padova e ad altri miti analoghi presenti in altre culture, la gatta viene spesso assunta, nelle culture contadine, a simbolo del focolare domestico, cioè dell’unità della famiglia.
I contadini si battono, insomma, per uno Stato che garantisca loro la pace e la possibilità di non essere invasi e trovarsi stuprate le mogli e le figlie o trasformate in schiave.
La lezione di Agnadello in negativo e in positivo quella di Padova, dissuadono la Serenissima dal tentare, dopo di allora, l’impresa dell’unificazione della penisola, anche se questa sarebbe potuta essere l’unica politica che potrebbe permettere di mantenere il predominio di Venezia sul Mediterraneo, un mare in cui sempre di più dominano i Turchi. La pace viene garantita da Venezia ai suoi contadini per ben tre secoli.
Mentre Venezia si ferma, dopo la guerra con la Lega di Cambrai, con la pace di Câteau-Cambrésis del 1559, compare nella penisola un nuovo attore, destinato a svolgere un importante ruolo nazionale: la dinastia sabauda che va trasformando i propri possedimenti a cavallo delle Alpi in un nuovo Stato italiano.
Venezia, dicevo, è stata fermata dalla Lega di Cambrai, ma anche, come ha invece preferito sostenere Machiavelli, dalla scarsa volontà dei nobili Veneziani di concedere riforme agrarie e più diritti di cittadinanza ai propri contadini.
A differenza della visione radicale di Machiavelli, che ha attribuito alle classi dirigenti, anche veneziane, la responsabilità della mancata unificazione per non aver voluto concedere diritti e terre ai contadini, Gioberti ha sostenuto l’idea, più moderata, che la crisi degli Stati Italiani alla fine del XV secolo (dall’invasione di Carlo VIII di Francia in poi) sia derivata dalla mancanza di unione e concordia tra i principi Italiani. Era sua oppinione, infatti, che “l’Italia, presidiata, com’è, dalle Alpi e recinta dal mare, può resistere da sé sola, purché sia unita, agli assalti di mezza Europa” (Gioberti 1944, vol. I, p. 2).
Ma in che cosa sono consistite queste “prime guerre calabresi”, quelle importanti guerre di resistenza agli Agareni (o Saraceni) di cui ha parlato Croce? Sono consistite in una eroica resistenza (attribuibile quasi interamente alle azioni di guerriglia dei contadini calabresi che, difendendo la loro terra, difendevano anche le proprie famiglie) aiutandosi, tra loro, come potevano, e costruendo castelli e rocche. Dobbiamo a quei contadini se l’Europa è, oggi, quella che conosciamo e Roma è ancora la sede del Papato, perché la cacciata del Papa da Roma era l’obiettivo strategico principale delle offensive e delle razzie degli Agareni.
Anche in questo caso, come per Venezia, nel raccontare di quelle guerre si dimentica di raccontare che il sistema di produzione agricolo fu ridisegnato, rispetto al latifondo del tempo dei Romani, per fidelizzare i contadini calabresi alla resistenza ai Saraceni. Fondamentale è stato, al tempo, il ruolo dei monaci basiliani, nella organizzazione di un sistema di produzione (vite, grano, olivo, frutta e gelsi) strutturato sul lavoro garantito per i senza terra e il beneficio ecclesiastico, oltre alla costituzione delle fratrie, poi istituzionalizzate nei Parlamenti locali con i Normanni (questi ultimi serviti a lungo a difendere i contadini dagli abusi dei Baroni).
Non è questo, tuttavia, il momento per questo racconto dell’economia e delle istituzioni “di guerra” al tempo delle “prime guerre calabresi”. Soffermiamoci, piuttosto, a descrivere il contesto in cui si manifesta la resistenza calabrese (e in genere bizantina-meridionale) fino a poco dopo l’anno Mille.
Nel 674, gli Islamici arrivano ad assediare Costantinopoli e vengono ricacciati indietro fino ad Antiochia. Nel 711, conquistano la futura Gibilterra, che prende il nome da Tariq ibn Ziyad, e in dieci anni, tutta la penisola iberica viene conquistata. Nel 732 si spingono verso la Francia, ma vengono fermati dal franco Carlo Martello a Poitiers. Seguono le vittorie dei Franchi ad Arles, Avignone e al fiume Berre. Gli Agareni vengono fermati e ricacciati al confine spagnolo nel 738. Nel 717 gli Islamici cominciano il secondo assedio di Costantinopoli che finisce nel 718, con una grande vittoria bizantina che ricaccia gli Islamici dall’Anatolia. Nello stesso tempo, nel 720 e nel 727-731 gli Islamici cominciano i primi sbarchi in Sicilia per costituire delle teste di ponte. Fermate le due offensive “laterali” (da Francia e Anatolia) per la conquista dell’Europa, se ne vedono subito le conseguenze in Sicilia: nel 740 lo sbarco di un intero esercito sulle sue coste; nel 753 c’è lo sbarco di un secondo esercito, sempre in Sicilia.
Ciascuna delle due offensive, a Ovest verso i Franchi e a Est verso Costantinopoli, è stata pericolosa per i Calabresi che hanno rischiato di essere accerchiati dentro territori musulmani e un mare dominato dalle loro flotte. Ma la fermata di queste due offensive sui lati orientale e occidentale del Mare Nostrum è stata ancora più pericolosa per i nostri antenati in quanto gli Islamici non hanno smesso di pensare di sfondare le difese della cristianità e conquistare il cuore dell’Europa. I Calabresi (e i Bizantini, alla cui potestà, formalmente, i Calabresi erano soggetti) hanno cominciato ad aspettarsi l’inizio di offensive Islamiche lungo la penisola, che essi chiamavano la Terra Lunga. “Solo nell’813 gli Arabi, ormai padroni di gran parte della Sicilia, si affacciano sulle nostre [della Calabria] coste con intenti di saccheggio o di conquista” (Nisticò 1999, 55). Da quel momento, comincia una lenta fuga degli abitanti dalle coste e dalle pianure verso le montagne. È un periodo in cui i Calabresi sono lasciati praticamente soli di fronte al pericolo Agareno, fino all’885 quando sbarca in Calabria, con un esercito, il grande generale Niceforo Foca che riconquista Amantea, Tropea e Santa Severina. Tenta, poi, l’impresa dello sbarco in Sicilia per prendere Palermo, ma viene richiamato a Costantinopoli “a combattere il peggior nemico che abbia l’Impero, i Bulgari” (Nisticò 1999, 58). Il generale lascia in Calabria un accorto stratega, di nome Flagizio. Questi lancia la parola d’ordine ascendant ad montes. Più che di un ordine, si è trattato di assecondare qualcosa che i calabresi spontaneamente hanno fatto per quasi tutto il IX secolo.
“L’intervento imperiale nell’organizzazione amministrativa e militare del territorio calabrese, secondo questa nostra ipotesi, non è infatti un ordine di evacuazione immediata delle coste, impossibile da eseguire se non in un arco di molti decenni, ma la definizione amministrativa, civile, militare, ecclesiastica di quanto già era accaduto per il lento abbandono delle coste, e poi disordinatamente al primo impeto saraceno, il trasferimento di massa verso l’interno” (Nisticò 1999, 90). L’intento di Flagizio e di Foca è quello di radunare i dispersi nelle varie parti delle montagne attorno a un sistema di castra et castellia, cioè di fortezze maggiori o minori, esattamente quei castelli e rocche di cui ha detto Benedetto Croce.
La storia della resistenza dell’Aspromonte ai Saraceni
Il generale Flagizio si stanzia lungo la costa a difenderla dagli Islamici e decide la costruzione di una città fortificata sui monti nell’istmo di Squillace. La città viene inizialmente chiamata Rocca di Niceforo e poi, secondo una diceria popolare, prende, dal nome dei suoi mitici organizzatori dei lavori di costruzione sul posto, gli ufficiali Cataro e Zaro, il nome di Catanzaro. Nello stesso periodo, a difesa dell’Aspromonte, nei confronti dei pericoli provenienti dalla Piana di Gioia Tauro (al tempo chiamata Planitiae Sancti Martini), viene costruito un altro castello, oggi dimenticato, che è il Castello di Santa Cristina.
In Puglia, vengono costruiti altri importanti castelli secondo una logica adeguata alla difesa di un territorio pianeggiante, con al massimo un altipiano. In Calabria, si segue una strategia più adatta alla guerriglia a partire dalla montagna per disturbare gli invasori nelle coste o nelle pianure. Il castello di Santa Cristina è a protezione della strada che attraversa la Calabria dal Tirreno allo Ionio, girando a ridosso dall’Aspromonte. Una fonte storica di poco successiva alla costruzione del castello ci permette di comprendere la sua funzione strategica.
La fonte in questione è la biografia scritta, trenta anni dopo la morte, avvenuta nel 903, di Sant’Elia il Giovane, su dettatura del suo discepolo più caro, il monaco Daniele. Sant’Elia è andato al Castello di Santa Cristina ed ha elogiato i cristinoti che lo hanno costruito per prepararsi a resistere alle offensive islamiche, a differenza dei reggini che non si erano preparati a resistere.
Cosa significa questo paragone tra Reggio e Santa Cristina a tutto vantaggio di quest’ultima? Significa che, una volta lanciato l’ordine o preso atto dell’ascendant ad montes, l’obiettivo strategico principale diventa quello della difesa ad oltranza dell’Aspromonte, la zona montuosa più direttamente esposta e fondamentale per impedire che si costituisca, nella Terra Lunga, a ridosso della Sicilia sotto il controllo dei Saraceni (e quindi in condizione di ricevere continui rifornimenti), una testa di ponte per una vasta invasione. E siccome la montagna si deve difendere da Sud, oltre che dal Nord, la scelta dei reggini di non difendersi adeguatamente, non solo mostra la disponibilità a vivere in territori islamici, al solo costo di un pagamento di un riscatto iniziale e di meno tasse, rispetto alle pretese del fisco bizantino, ma anche scarsa disponibilità a difendere le popolazioni più determinate a non arrendersi e a vivere con libertà la propria fede.
Per questo, il santo, dopo aver cercato a lungo di convincere i reggini di cambiare atteggiamento, lascia la città profetizzando loro che avrebbero fatto una brutta fine, finendo per essere uccisi o trasformati in schiavi da vendere in Sicilia o in Africa. E quando arriva a Santa Cristina, che si sta attrezzando a resistere per impedire che l’intera montagna sia accerchiata e che siano impediti gli aiuti militari che sarebbero dovuti arrivare da Nord, elogia i cristinoti per questa loro determinata scelta di resistenza ad oltranza.
La profezia di Sant’Elia si avvera quello stesso anno. Infatti, la città di Reggio viene presa il 10 giugno 901, senza che venga opposta quasi alcuna resistenza (a parte le deboli truppe bizantine che vengono sconfitte in campo aperto mentre cercano di contrastare la marcia degli invasori). Malgrado non si siano difesi, molti reggini sono trucidati e circa 17.000 vengono presi come schiavi. Le città intorno portano tributi e doni per non fare la stessa fine. L’offensiva contro Reggio si è rivelata così facile che il condottiero Ibrahim-ibn-Ahmed pensa di organizzare, per l’anno successivo, un’ambiziosa invasione che avrebbe dovuto portarlo da Reggio Calabria a Roma e al Papa. Viene però fermato a Cosenza in quanto muore durante l’assedio di quella città. La morte del capo degli invasori, durante l’assedio di Cosenza, ferma gli Islamici che vengono, poi, decimati nella strada del ritorno dai calabresi che li attaccano con azioni di guerriglia fin quando, i superstiti, non si imbarcano per ritornare in Sicilia.
I due castelli, di Catanzaro e di Santa Cristina, sono uniti da una strada che, lungo le creste dell’Appennino, li collega in un’unica struttura strategica: se attaccata, Santa Cristina, attraverso quella strada può ricevere rinforzi e truppe fresche. Se attaccata, Catanzaro può ricevere da Nord (Cosenza) e da Sud (Santa Cristina, San Martino, Locri, Reggio) rinforzi e truppe fresche.
La strada delle creste tra Santa Cristina e Catanzaro è talmente importante che è proprio su questa strada che, alla fine dell’XI secolo, viene collocata, in territorio interamente spopolato, ma ben servito da vie di comunicazione, la Certosa di San Bruno. Contrariamente a quanto pensano molti storici locali, per i quali è stato il monastero certosino di San Bruno a produrre come risultato le strade che, nei secoli successivi, hanno portato alla Certosa migliaia di pellegrini, è il monastero che viene fondato in un luogo in cui esistono già tante strade che vengono via montagna o dal mare.
Ma torniamo alla funzione dei castra et castellia. “Nel 918 subisce ancora il sacco Reggio, ma i Calabresi battono Olbecco spintosi in Val di Crati. Nel 924, per contenere l’invasione di un Mesud, il governo greco si rassegna a pagare un tributo in denaro. Cessano i tentativi di conquista, ma non le incursioni dei predoni: nel 933 cadono Petelia, Taverna, Belcastro. I Calabresi battono i Saraceni a Simeri e Squillace. In quelle circostanze avviene forse la distruzione di Bristacia e la fondazione di Umbriatico. Nel 935 i Calabresi respingono Musad; nel 944 Pasquale (o Pascasio), inviato da Costantino VII Porfirogenito, riconquista Petelia. Si combatte a Squillace, Sambatello, Mileto, Tropea, Nicotera: il siciliano Haran viene respinto da Reggio; si giunge ad una tregua, e gli Arabi ottengono di edificare nella città una loro moschea. Il catepano Mariano Argiro inizia la riconquista dei territori perduti; nel 957 un Basilio distrugge la moschea di Reggio e minaccia la Sicilia” (Nisticò 1999, 59). Sei anni dopo il grande Niceforo II comincia la grande riconquista della Siria fino a Damasco e distrugge il regno dei Bulgari.
E l’Aspromonte? Non ne parla nessuno in queste storie. Perché? Per un equivoco che sarà chiarito solo dalla ricerca storiografica recente. E siccome sarà chiarito da uno storico tedesco, P. Schreiner, ha fatto fatica a immettersi nel dibattito storiografico calabrese. Il problema nasce dal fatto che, fino a circa metà del secolo XI, esistono, nella Calabria Ultra, due città che si chiamano Sant’Agata: la prima e più nota si trova vicino a Reggio Calabria e fa parte del sistema di difese della città (ed è tra quelle città che, nel 901, hanno pagato tributi e portato doni a Ibrahim per essere risparmiate); la seconda si trova sulle prime balze dell’Aspromonte settentrionale e, appunto alla metà dell’XI secolo, cambia nome, per diventare un’importante sede vescovile con i Normanni. Ogniqualvolta si parla di Sant’Agata, in un qualche documento antico risalente al periodo dei Bizantini in Italia, si pensa che si tratti della città fortificata vicino a Reggio. Invece, qualche volta, si tratta di un piccolo borgo, non ancora importante, nell’Aspromonte settentrionale.
Ho incontrato questa scoperta molto tardi, esattamente nel 2004, dopo averla cercata, inutilmente, per trenta anni. All’origine di questa ricerca c’erano alcuni racconti di mio padre, Saverio Gangemi (1910-1973). Egli mi ha parlato, a volte, del nome di una nostra proprietà, quella che io ero destinato ad ereditare in quanto primogenito. A suo parere, il nome era di origine araba: Barillà. Suoni simili a questa parola, egli che non conosceva l’arabo, gli era capitato di sentirli più di una volta, quando si trovava in Libia, negli anni Trenta. C’era, però, anche il ricordo di uno strano monaco incontrato, a fine agosto, inizio settembre del 1973, all’ospedale di Oppido, dove era ricoverato mio padre.
Il monaco, di cui non ricordo il nome, o forse non lo ho mai saputo perché si era presentato prima che io arrivassi, se ne stava seduto accanto al letto di mio padre, e, saputo che ero all’inizio di una carriera universitaria, mi aveva invitato, con frasi intervallate da lunghe pause, a studiare la storia della Calabria. “Caro giovane, studiate il beneficio ecclesiastico se volete capire la Calabria! ... Continuate voi giovani che avete cultura! … Per troppo tempo siamo stati senza Università in Calabria. … È ora di costruire una storiografia calabrese…. Cominciate dal beneficio ecclesiastico!”. Poi, sapendo che, io e mio padre, eravamo di Santa Cristina, si era messo a raccontare di un lungo assedio del castello di Santa Cristina che, dopo molto tempo e per l’eroica resistenza degli abitanti, i Saraceni avevano dovuto interrompere, sconfitti. Si fermò, prima di andare, curvo sul suo bastone, sulla porta. “Forse, di assedi ce ne è stato più di uno. … Ma uno è certo!”. Disse e andò!
Non ho mai capito perché e come, qualche anno dopo, ho cominciato ad appassionarmi alla storia bizantina della Calabria. Ho cercato inutilmente notizie storiche di questo assedio di Santa Cristina, di cui mi ha detto quel monaco. Forse non sono un buon storico. Forse il fatto di non lavorare in Calabria, di venirci solo in agosto, mi ha impedito di avere successo in questa ricerca. Ricordo, però, come un’illuminazione improvvisa il momento in cui ho pensato che, se avessi capito quale era il significato arabo del termine Barillà, tutto mi sarebbe stato più chiaro. E ho cominciato a chiedere a illustri storici della mia Università e a scrivere ad altri storici di altre Università.
Solo che eravamo già negli anni Ottanta e, nel 1979, Gerhald Rohlfs aveva già pubblicato il Dizionario dei cognomi e soprannomi di Calabria. Appena aprivo bocca, il mio interlocutore andava a prendere il dizionario e cercava Barillà (il cognome). Leggeva che era un nome di origine greca e significata “bottaio”, fabbricante di botti o barili. All’obiezione che si trattava di un luogo e non di un cognome, mi si rispondeva: vuol dire che lì abitava un bottaio. E la collaborazione si chiudeva lì.
Racconterò, però, in altra occasione la storia completa di quella lunga e curiosa ricerca sul nome Barillà e di come l’opinione, autorevole e contraria, di Rohlfs mi abbia impedito per decenni di farmi prendere sul serio quando cercavo aiuto per decifrare il significato arabo di quel nome. Poi …
Poi, un giorno d’autunno del 2004, insegnavo ormai da 13 anni all’Università di Padova, appena entrato nella libreria Feltrinelli di Padova, vedo esposto in bella evidenza un piccolo libro dal titolo I bizantini in Italia. Rimango stupito del fatto che un libro così specialistico sia messo in evidenza in una libreria e comincio a sfogliarlo. È scritto molto bene, in modo leggero. Non ha il taglio dell’opera rivolta a un pubblico accademico. È, piuttosto, un’opera di divulgazione scientifica, dedicata a un pubblico di studenti, ma con l’aspirazione di rivolgersi a un pubblico più vasto.
Dopo aver dedicato qualche minuto alla lettura delle prime pagine, comincio a sfogliarlo rapidamente facendo scivolare le pagine sotto il pollice. Per un attimo, lo scorrere delle pagine si ferma e appare ai miei occhi, su una pagina sulla sinistra, una con numero pari, per intendersi, un accostamento di due nomi “Sant’Agata (Oppido Mamertina)”.
Mi blocco d’istinto e cerco di osservare con più attenzione. Ma un minimo movimento del pollice fa scorrere velocemente un numero imprecisato di pagine che si frappongono tra le parole intraviste e il mio sguardo.
Cerco ancora di far tornare indietro le pagine senza riuscire a trovare quello che cerco. Mi fermo un attimo. Trattengo il respiro, mi calmo e comincio a spogliare le pagine una per una. Finché non ritrovo, a pag. 166, quei due nomi ravvicinati tra loro.
Apro bene il libro e comincio a leggere tutto il periodo: “Siamo informati al contrario su una ripresa in grande stile delle incursioni arabe che verso il 922 portarono all’occupazione di Sant’Agata (Oppido Mamertina) e …”.
Quello che segue, nel libro, non mi interessa più. Leggo e rileggo la frase per essere sicuro del suo significato. Poi, mi accorgo che lo stile colloquiale del libro ha fatto sì che l’autore abbia evitato di citare le fonti e, quindi, questa affermazione non è riferita a nessun precedente testo o a nessun precedente documento.
Guardo, allora, il nome dell’autore: Giorgio Ravegnani, docente di storia bizantina alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Torno nel mio ufficio e cerco l’e-mail dell’autore. Gli scrivo per chiedergli quale sia la fonte storiografica da cui ha ricavato l’informazione che Oppido si chiamasse, nel periodo bizantino, Sant’Agata. Il collega veneziano mi risponde quasi subito e mi segnala la sua fonte: Vera von Falkenhausen. Cerco scritti di questa studiosa nel sistema informatizzato delle biblioteche dell’Università di Padova. Mi accorgo che un suo contributo a un volume collettaneo si trova nella biblioteca di storia medioevale del centro interdipartimentale Tito Livio, che si trova al terzo piano del Liviano.
Il giorno dopo sono già in quella sala della biblioteca, circondato da libri sui bizantini in Italia, a sfogliare rapidamente il volume collettaneo, pubblicato nel 1982, che raccoglie i contributi di cinque studiosi italiani e della studiosa tedesca. Quello che cerco è alla pagina 56 del volume I bizantini in Italia: “Le fonti del periodo parlano di continue invasioni arabe; particolarmente interessanti sono le indicazioni fornite, per il X secolo, da una cronaca locale scritta in ambiente calabro-siciliano, il cosiddetto Chronicon siculo-saraceno”.
Da questo punto in poi, la studiosa tedesca cita un lungo passo di un precedente scritto su una rivista tedesca, di P. Schreiner, del 1975: “Il 10 giugno del 901 Reggio si arrese. Nell’anno 914/915 la flotta africana giunse in Calabria e si fecero prigionieri. Nell’anno 921/922 si arrese la città di S. Agata (si tratta, verosimilmente, della cittadina di Oppido Mamertino che in epoca bizantina aveva il nome di S. Agata). Nell’anno 923/924 si arrese Bruzzano (nella Calabria meridionale). Nell’anno 925/926 si arrese Oria. Nell’anno 927/928 si arrese Taranto. Nell’anno 929/930 si arrese Tiriolo (a ovest di Catanzaro). Nell’anno 951/952 Abû ‘l-Qāsim passò in Calabria e inflisse una sconfitta a Malakinos. [...] Nello stesso mese dello stesso anno (965) Niceforo magistros fu sconfitto con la flotta [...] Nell’anno 975/976 i Saraceni vennero in Calabria e devastarono Pizzino. Nell’anno 976/977 si arrese S. Agata per la seconda volta. Nell’anno 978/979 si arrese S. Nicone. Nell’anno 982 Abû ‘l-Qāsim, emiro di Sicilia, venne sconfitto e ucciso dall’imperatore dei Franchi (Ottone II), e si verificò una generale disfatta dei Saraceni in tutto il territorio calabrese. Nell’anno 985 si arresero Gerace e Bovalino, nel mese di settembre. Nell’anno 987/988 si arrese Cosenza ...”.
Con i Saraceni nella Planitiae Sancti Martini e, per ben due volte, insediati a Sant’Agata, a non più di 10 km di strada da Santa Cristina, ci deve essere stato almeno un assedio del castello, indispensabile per addentarsi nell’Aspromonte. Il monaco aveva ragione. Rimane di capire quale sia stata la sua fonte.
È in occasione della strenua resistenza nel X secolo (in cui gran parte della Planitiae Sancti Martini cade più volte in mano saracena) che Santa Cristina si è acquistata la reputazione di castello inespugnabile. Lo sarà sempre, fino alla distruzione, per opera del terremoto del 1783 e del successivo abbandono. In una sola occasione il Castello è stato “espugnato”, nel 1289, quando re Giacomo d’Aragona, detto il Giusto, con un’armata di 40 navi e con un esercito di 400 cavalli e 10.000 fanti, invade la Calabria ed espugna tutti i castelli. E vi è chi sostiene che, in quell’occasione, i cristinoti abbiano spontaneamente aperto le porte al re cattolico, perché, se avessero voluto resistere, il castello era tale che mai sarebbe stato conquistato (e, del resto, nemmeno il nonno di Re Giacomo, Manfredi, era riuscito ad espugnarlo per catturare, dopo aver conquistato tutta la Calabria, Fulcone Ruffo, ivi rifugiatosi nel 1255).
Perché lo avrebbero fatto? Come sostiene Salvemini, perché i nobili, a cominciare dai Ruffo, erano contrari agli Svevi, e quindi a Manfredi, ma non più a quel suo nipote Giacomo, aragonese, che sta portando il feudalesimo in Meridione. Semplicemente, i Ruffo, feudatari e proprietari del Castello, danno l’ordine di aprire le porte al re Giacomo d’Aragona che promette potere e vantaggi ai nobili della Calabria.
Santa Cristina, ovviamente, è solo uno dei castelli che hanno contribuito alla difesa dell’Europa, poi, alla riconquista della Sicilia, e, infine, ad alcune delle crociate per la riconquista di Gerusalemme e della Terra Santa. La Calabria, con la sua storica solitaria resistenza ha permesso ai Comuni del Nord Italia di prosperare e di rendersi autonomi dall’impero tedesco, ma ha anche permesso al Papa di continuare a restare relativamente sicuro a Roma.
Con il ciclo della Chanson de geste dei Franchi, questi ultimi cercheranno di impadronirsi per intero del mito della resistenza agli Arabi e della salvezza dell’Europa. Con la fine dell’impero bizantino, nessuno in Italia ha sentito il bisogno di portare avanti un’altra versione della storia della salvezza dell’Europa dagli Arabi. Tranne i Normanni che hanno cercato di reagire a questa appropriazione indebita, contribuendo alla produzione di un’opera letteraria che rientra anch’essa nel ciclo della Chanson de geste: la Chanson d’Aspremont. Ma questa è un’altra storia, che merita di essere raccontata a parte, e forse da altri, perché io ho appreso da poco, da Gioacchino Criaco, dell’esistenza della Chanson d’Aspremont.
*Giuseppe Gangemi, Prof. di Scienza dell’Amministrazione all'Università di Padova
Nota:
Le figg. 9 e 11 sono state ricavate da:
Carrara, Gianfranco (Prof. Ing.) e Dott. Ing. Antonino Italiano, Santa Cristina d’Aspromonte – Progetto di massima per il recupero del castello e del borgo, Realizzato con la collaborazione di: Dott. Ing. Laura Angeletti, Dott. Ing. Polo Quattrucci, Dott. Ing. Antonio Bruno, Dott. Lorenzo Marchesini, Geom. Vincenzo Macrì.
La fig. 10 è uno sviluppo tridimensionale, visto da tre lati, del rilievo nella fig. 9 ed è stato realizzato dal Dott. Francesco Gangemi.
Bibliografia
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