La tenacia delle figlie della montagna
- Vincenzo Stranieri
Nel mondo rurale del secolo scorso la donna calabrese lavora nei campi, cucina, bada agli animali domestici, cresce i figli. Così è stato per secoli, le donne d’Aspromonte lavorano senza sosta, sudano copiosamente nel mentre trasportano pietre e calce da utilizzare per la costruzione delle loro piccole case, sfidano le fiumare alle cui rive lavano e fanno asciugare i panni, mettono a bagno la ginestra da cui ricaveranno grezzi vestiti e larghi mantelli da offrire ai propri sposi. Mentre il massaro/pastore, specie quello di lattare (pecore e capre), pascola per un’intera annata il suo gregge, la donna massara lo sostituisce nella cura e custodia dei prodotti (lana, formaggi, cereali etc). Un po’ meno disagiata era la vita della massare, mogli di contadini benestanti, chiamati massari perché possedevano terreni che venivano lavorati con l’aratro tirato da una paricchia di buoi. La minore povertà consentiva loro di condurre una vita meno insicura. Molti dei lavori domestici, però, richiedevano l’aiuto di più donne della ruga, con le quali, nel tempo libero, collaboravano nelle faccende domestiche. Al nome proprio della moglie del massaro, si andava ad aggiungere l’appellativo di “donna”, indicante, per la gente del luogo, il ceto sociale di appartenenza della donna e quindi della famiglia.
Come ci ricorda Emanuela Chiarantano, l’abitazione della massara era sempre aperta a tutti e le donne andavano a farle visita volentieri, in quanto donna saggia e di cuore. Infatti le famiglie bisognose del paese si rivolgevano a lei per avere un lavoro. In determinate periodi dell’anno una delle mansioni svolte dalle massaie era di preparare e poi recapitare u marzegliu, la prima colazione, e u mangiari, il pranzo, al marito e ai suoi uomini che si trovavano a lavorare nei campi. Il marzegliu, indicava la colazione delle otto durante il mese di marzo, in quanto le giornate erano più lunghe. La massaia raggiungeva con a cofina n’testa (cesto in castagno) il marito che si trovava nei campi con un gruppo di altri uomini che lavoravano per lui nel suo podere, in questa cesta portava pani, livi (o vvrivi) e fica sicchi. Alle volte il marzegliu lo portava la figlia maggiore, poiché la moglie rimaneva a casa a preparare il pranzo che successivamente sarebbe andata lei a consegnare. Era tradizione che gli uomini al servizio del massaru mangiassero tre volte a sue spese, così la moglie doveva preparare anche la cena, attendendo e poi servendo i lavoratori. Tutta la ricchezza della famiglia si basava sui frutti che dava la terra, molto spesso gli uomini al servizio del massaru ricevevano, in cambio del lavoro prestato, parte del raccolto. Vi era una sorta di economia del baratto tra il lavoro svolto sia dagli uomini che dalle donne, ed i beni che si producevano. Durante i momenti vuoti della giornata, la donna si sedeva sulmignanu, davanti la porta di casa, insieme con le altre vicine di ruga, a ripezzari trusci i rrobbi, rammendare mucchi di indumenti della famiglia, o ricamare le tele precedentemente tessute. La giornata lavorativa delle massare, come quella delle contadine, iniziava prima di quella degli uomini e terminava sempre dopo. Anche alla sera seppur stanca, con la luce debole della lumera, filava col suo fusu. Ora la lumera si è spenta da un pezzo, a noi il compito di non disperdere la sua preziosa luce.