La testimonianza. I fantasmi, il cinema e le notti di primavera
- Mario Alberti
Penso, e ne sono convinto, che i luoghi parlino. Le vecchie case, una strada, una piazza. Non parlano, però, a tutti. Parlano soltanto a chi vuol sentire; a chi è capace di ascoltare, in un refolo di vento, una storia dimenticata. E non parlano sempre, i luoghi. Parlano solo alcune volte all’anno, in periodi particolari, dove i profumi si mescolano ai colori. E lo fanno solo quando la sera si arrende alla notte.
Passate, amici, da una strada strana, che si trova a Melito. La strada inizia con una antica chiesa, ed è circondata dalle benevole luci del vecchio paese, in alto, e finisce dove una volta finiva Melito, all’imbocco per la superstrada. Poi prosegue – ma solo da qualche anno – in una nuova strada che in breve, per umana incuria, divenne già vecchia. Ma voi, amici viaggiatori dei ricordi, con le orecchie tese e l’anima altrettanto, fermatevi alla luce fioca dei lampioni, ma fatelo nelle notti di primavera. E sentirete qualcuno che vi racconterà una storia. Forse un fantasma, sicuramente uno spirito buono che alberga ancora in quei luoghi, e non vuole che vengano dimenticati. Tendete le orecchie proprio appena dietro una grande banca, e lasciate sussurrare il soffio dei ricordi…
C’era una volta, a Melito, un cinema. Anzi, il Cinema. La prima volta che vi andai avevo undici anni, un po’ di ciccia e u malu pilu a simulare degli improbabili baffi. Vidi Il padrino. Si, Il padrino parte prima, con Marlon Brando che impersonava il boss dei boss: don Vito Corleone. Ragazzino spaurito, fui sovrastato da quelle immagini violente e colorate, e quasi quasi don Vito mi sembrò un eroe. Sognai per giorni quella testa di cavallo mozza tra le lenzuola del boss nemico. E pensai altrettanto a lungo alla scena di quell’amplesso, scomodo contro un muro, ad infrangere la pudicizia di quegli anni lontani. Grandi anni Settanta, vissuti a zampa d’elefante in un paese vivace, quando la stazione ferroviaria con i suoi mostri d’acciaio verdi e marrone vomitava centinaia di persone verso il Tiberio Evoli, ospedale dagli antichi fasti e dall’ingloriosa fine. Alberi verdi cingevano il corso e la primavera profumava di limoni e mare, non di benzina. Poi, sempre al cinema, piansi insieme ad Oliver per la prematura morte di Jennifer, seduto con lui nel prato innevato, alle note per solo piano di Love Story. Venne anche Costa Gravas, con i suoi film d’impegno, ad esaltare in noi adolescenti la voglia di libertà. E poi Yuppy Du, Detective Story, Lo squalo. E da brutti adolescenti foruncolosi diventavamo eroi belli, biondi e coraggiosi. Almeno tutte le domeniche pomeriggio.
Non si stava comodi in quelle sedie di legno, ben distanti dalle rosse o azzurre sedie imbottite dei cinema moderni. Erano dure e scure, e se non ci stavi attento finivi incastrato. Furono indimenticabili i gestori, nobili quanto basta, indimenticabili i lavoratori. Fellini vi avrebbe messo le tende e fatto un film, colpito dalla violenta umanità che vi albergava. Persone, mai personaggi. Noi ragazzotti, la domenica pomeriggio, quando la Melitese giocava fuori casa (Brancaleone era fuori dalle colonne d’Ercole), andavamo sempre al cinema. Ed i baffi avevano sostituito il malo pelo. Amavamo i film di “pugni e pistolate”. Bud Spencer, Bruce Lee, eroi degli anni in cui si doveva per forza essere uomini. L’ordine veniva gestito sempre dal nobile proprietario, autorevole e carismatico, che arrivava anche a bloccare le proiezioni quando in sala i giovanotti esageravano con il chiasso. Specie alla prima mezza tetta che appariva enorme dallo schermo, i fischi e le urla a tutti ormoni non avevano eguali. Ancora le sento, se guardo indietro. Poi, piano piano, tutto cambiò. E venne la stagione dei porno a “leva leva”. Ed allora io giovanotto, non per pudore ma per divertimento, piuttosto che andare al cinema rimanevo fuori a guardare chi usciva.
Era divertimento puro. Insospettabili, mariti frustrati, giovanotti bollenti, qualche notabile infagottato. Tutti a prendere vie secondarie per sfuggire alla vista di chi passava da lì. Ma non da chi lì, come sul dirsi, li “postiava” (era appostato). Qualche anno ancora, e poi tutto finì. Le gloriose sedie furono smantellate. I personaggi felliniani trovarono una scena più ampia, altrove, dove tutto è giusto e dove non conta avere una gamba più corta dell’altra o essere piccolo e litigioso. Nessuno, scrisse un grande, d’altronde conosce la statura di Dio. Ma alcuni di essi, che non meritano l’oblio, fanno già parte di un’altra storia, che un giorno, forse, vi racconterò. Sempre se il vento benevolo me la sussurrerà.
I ragazzotti ormonali e spaesati hanno trovato altre strade, altre vite. Tutto finì sovrastato dal tempo, dal cemento e da una veloce quando inadeguata modernità che ha azzerato le storie, represse l’identità, cancellò i ricordi. Ma se passate da lì, dietro la grande banca, nelle notti di primavera, quando domina il silenzio, potrete ancora sentire, portata dalla nostalgia, la voce rafforzata dal megafono e dal lessico particolare ed indimenticato che invita a venire al cinema a vedere l’ultimo film di pugni e pistolate, con il famoso attore “non si seppe mai come si chiamava” . E vedrete con gli occhi dei ricordi scorrere sullo schermo immaginario il fantasma rimpianto di una Melito gentile, in bianco e nero, ma colorata di sincera ed indimenticata umanità.