Le antiche storie. Donna Candia
- Pino Gangemi
I racconti fantastici del periodo dei Saraceni, quelli che per un millennio hanno alimentato i miti della gente d’Aspromonte, sono spesso stati discorsi con donne protagoniste. Queste ultime, sempre meno viste come vergini o madonne e sempre più viste come donne vere che amano, che negoziano la loro vita o quella dei parenti, che pretendono, che combattono. È in questo contesto che nascono i miti letterari di Galiziella, vergine guerriera, sposa del prode Riccieri, ma anche la favola di Donna Canfora e quella di Donna Candia. Della prima si è già detto tutto il possibile. Della seconda si racconta che fu rapita, nel corso di una razzia saracena e che ha incantato, con la propria bellezza, il comandante della spedizione saracena. Forte di questa posizione, Gyné Kánefora negozia con il suo rapitore: “Sarò tua moglie, se lascerai salvi i miei genitori, i miei parenti e i miei cittadini. Ti seguirò docilmente sulla nave e da questa al tuo serraglio se li lascerai tornare alla città”. Il terribile saraceno, terrore dei mari, incantato della sua bellezza, per averla consenziente, lascia tornare alle loro case i Taureani. La nave salpa con solo Gyné Kánefora la quale, invece di cedere al desiderio del rapitore, una volta vista sparire all’orizzonte il profilo della terra calabra, si getta dalla nave e muore annegata. Secondo un’altra versione, Gyné Kánefora non muore, ma si trasforma in una sirena e lo sciacquio delle onde che si infrangono sulla costa di Taurianum, se si ascolta bene, in certi giorni, rimanda l’eco della sua voce che invoca e prega per tornare alla sua amata terra. Più pratica e volitiva Donna Candia che appartiene a una ricca e nobile famiglia. Viene rapita in una razzia di Saraceni e promette ai rapitori un tesoro maggiore di quello che possono ottenere per lei in un porto saraceno. Basta, dice, che la riportino nella città dove vive suo padre che pagherà per lei. Ma siccome il padre non paga, si fa portare dalla madre, dal fratello e della sorella. E nessuno paga. Pagherà solo il fidanzato lo spropositato prezzo promesso come riscatto. È il trionfo dell’amore, tema presenta anche in Galiziella e, persino, nei Giganti di Palmi. Ma soffermiamoci sul riscatto: tre leoni, tre barconi, tre colonne d’oro. Non si tratta di tre animali, di tre navi e di tre vere colonne. Si tratta di nove preziosissime monete d’oro dell’Antica Roma. L’imperatore Filippo l’Arabo aveva fatto fare un numero enorme di festeggiamenti con gladiatori, animali, feste e cibo per tutti nel 248 d.C. in occasione della celebrazione del Millennio dalla fondazione di Roma, quando si pensava che la città sarebbe stata eterna e che mai nessuno ne avrebbe scalfito la gloria. Si è, da allora, favoleggiato delle monete commemorative che egli ha fatto coniare, alcune delle quali pesavano più libbre, erano d’oro e portavano sul retro l’immagine di animali, come il leone. Ed, infatti, il leone è una delle monete commemorative del Millennio. Barcone veniva invece chiamata la “moneta della prua”, con sul verso i due volti di Giano Bifronte, coniata più volte in pezzo d’oro di 22,80 grammi e persino di 409 grammi. Colonna era detta la moneta con la Colonna Traiana. Coniata più volte in pezzi da 7,33 grammi o di peso diverso. La moneta più importante sembra essere stata il leone. Anche perché nessuno ricorda più il peso del conio e si può favoleggiare che pesasse molto più delle altre due. In altri termini, “tri liuni, tri barcuni, tri culonni d’oru” è il prezzo del riscatto pagato, riportato in ordine decrescente secondo il valore presunto delle monete.