Le principesse calabresi della seta
- Ruggero Calvano
L’imperatrice Xi Ling Shi stava seduta a sorbire il the sotto una pensilina dei giardini imperiali. Qualcosa cadde dentro la sua tazza e iniziò a espandersi, comparve un filo sottilissimo. L’imperatrice ne affidò il capo a un servitore e glielo fece tirare. Il filo si dipanò per oltre un chilometro. Così, nella leggenda, nacque la seta da un bozzolo di baco caduto accidentalmente nel the di un’imperatrice. E di chilometri il prezioso tessuto poi ne percorse a migliaia, arrivando fino a Costantinopoli e da qui, grazie ai monaci bizantini, in Italia. Una delle zone in cui immediatamente prese piede la coltivazione del baco da seta fu la Calabria. Le piane alluvionali accanto ai letti delle fiumare si riempirono di alberi di gelso e le sue foglie diedero il nutrimento principe ai bachi. A Catanzaro sorse un centro di raccolta di tutta la produzione calabrese e le sete di Catanzaro vestirono i ricchi di mezzo mondo. La seta calabrese, di qualità eccelsa, invase i mercati e la sua industria divenne una risorsa determinante per la Calabria, durando nei secoli fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando le nascenti industrie del nord Italia bisognose di manodopera a prezzo basso, complice la politica centrale, inurbarono centinaia di migliaia di contadini calabresi trasformandoli in proletari da catena di montaggio e un’altra delle grandi ricchezze nostrane svanì in un lampo. Scomparsero i gelsi e sparirono i bachi e le nostre donne maestre nell’arte della seta e fulcro della produzione e trasformazione del filato serico si rinchiusero in casa nei talami orbi di mariti, ad allevare figli per le fabbriche europee. Le nostre donne che il filo di seta lo producevano, lo filavano e con la radice della robbia e la bacca del ricino lo coloravano di rosso scarlatto o con il guado di azzurro cielo, persero quella centralità che rendeva la società calabrese più coesa e moralmente più sana. Iniziò la deriva dei valori, la trasformazione sociale e di una storia durata un millennio restano, in tanti armadi, antichi abiti da sposa e vecchie coperte che le nostre madri e nonne si costruivano con lo scarto della seta. E per chi ci crede, si dice che Dio dia agli uomini una serie di talenti, e all’uomo sta di non sprecarli. Con noi il Supremo è stato magnanimo, di beni alla nostra terra ne ha dati tanti. Ma noi, è noto, siamo figli prodighi e il nostro maggior talento è quello di dissiparli i beni. Così oggi il purgatorio in cui ci troviamo ce lo meritiamo più di un po’. E il rischio è che se non riprendiamo la cura dei beni che la natura ci ha dato, il futuro non si trasformerà in paradiso ma degraderà in inferno. Chi dipinge le donne calabresi come da sempre silenti complici di un mondo maschilista e spesso criminale afferma il falso. Forse la Calabria un paradiso non lo è mai stato, ma vi è stato un tempo in cui la vita si declinava al rosa, si produceva la seta e questa terra seppur povera era meno criminale.