Menu
In Aspromonte
Cinema: Il docufilm “Terra mia” da San Luca ad Altamura

Cinema: Il docufilm “Terra mia…

di Cosimo Sframeli - ...

Recovery: UeCoop, per 80% imprese Calabria aiuti solo fra un anno

Recovery: UeCoop, per 80% impr…

C’è un clima di sfiduc...

Bovalino: La Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, dott.ssa Racco, scrive alle autorità competenti in merito alla situazione scuola, al fine di evitare un sacrificio ingiusto ai bambini calabresi

Bovalino: La Garante per l’Inf…

La Garante per l’infan...

Coldiretti, nubifragio nel crotonese: «dopo la grande paura il bilancio dei danni sarà pesante»

Coldiretti, nubifragio nel cro…

I violento nubifragio ...

Coldiretti, in vigore l’etichetta Made in Italy per i salumi. La trasparenza che tonifica l’economia calabrese ed è valore aggiunto per i suinicoltori

Coldiretti, in vigore l’etiche…

Adesso non conviene ba...

Bovalino, conclusi i lavori di ampliamento della Scuola dell’Infanzia di Borgo e di riqualificazione con messa in sicurezza del plesso scolastico

Bovalino, conclusi i lavori di…

L’Amministrazione Comu...

Federaccia e AA.VV. Calabria sulla VINCA al Calendario Venatorio 2020-2021

Federaccia e AA.VV. Calabria s…

Reggio Calabria 2 nove...

Coldiretti Calabria, i cinghiali sono troppi: la Regione intervenga con piani di abbattimento selettivi

Coldiretti Calabria, i cinghia…

Ci sono troppi cinghia...

Artigiani e produttori insieme al Parco dell’Aspromonte ad Artigiano in Fiera

Artigiani e produttori insieme…

Oltre un milione di vi...

Nel Parco dell’Aspromonte vive una delle querce più vecchie del mondo

Nel Parco dell’Aspromonte vive…

Una Quercia di oltre 5...

Prev Next

Lettere dal fronte

  •   Maurizio Malaspina
Lettere dal fronte

Una testimonianza dalla spedizione di Russia sulla barbarie della guerra.

Approfittando di qualche giorno di riposo in Abruzzo, ai piedi del Gran Sasso d’Italia, tra una celebrazione alpina del 25 Aprile e un arrosticino (spiedini di carne di pecora cotta alla brace), ho avuto modo di riprendere un libricino senza grandi pretese, tra le cui pagine si trova tuttavia la testimonianza più vicina, forte e drammatica di quanto assurda e bestiale sia la guerra, in tutte le sue forme e rappresentazioni. Sono passati quasi settant’anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale, con oltre cinquanta milioni di morti, vittime della barbarie nazi-fascista, delle leggi razziali, dei genocidi, dei campi di concentramento, della fame e della distruzione. Una delle pagine più tristi del secondo conflitto mondiale è la tragica spedizione dell’ARMIR in Russia, la guerra di aggressione nazi-fascista all’allora Unione Sovietica, il cui esito segnò il passaggio decisivo per la capitolazione delle forze dell’asse italo-germanico. In Russia furono mandati a combattere oltre duecentoventimila soldati italiani, di cui oltre settantamila mai tornati nelle loro case, molti uccisi dallo scontro bellico, moltissimi dal freddo e dagli stenti, tutti dalla guerra. Su quella spedizione, raccontata con estremo realismo da Mario Rigoni Stern nel “Sergente sulla neve”, e soprattutto sulla sorte toccata alle decine di migliaia di dispersi (oltre cinquantamila), ha contribuito a fare chiarezza la fine della guerra fredda. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, l’apertura degli archivi sovietici e il clima di collaborazione tra URSS e Italia, ha riportato alla luce testimonianze che sembravano definitivamente perse, e con esse la voce di uomini inghiottiti dall’atrocità della guerra. Una di queste l’ho ritrovata tra le pagine de “A Lapa rigina”, una raccolta di poesie, riflessioni e spunti di Antonino Catalano,  dove l’autore pubblica la documentazione restituita alla sua famiglia nel giugno del 1994 relativa alle sorti del soldato Francesco Catalano, fratello dell’autore, rese pubbliche “a ricordo e monito per coloro che gli capita la lettura di questo opuscolo sulla stupidità della guerra”. L’incartamento comprende due lettere, mai spedite, scritte entrambe il 12/12/1942, in una notte gelida, quando il contingente italiano era schierato lungo le rive del fiume DON, a fronteggiare la controffensiva dell’esercito sovietico. Francesco Catalano era nato il 4/2/1922 a Villa San Giuseppe e qui aveva trascorso gli anni della giovinezza fino a quando, meno che ventenne, era stato chiamato a prestare servizio militare presso il Corpo dei Bersaglieri, nella 141 compagnia, divisione Pasubio. Scoppiata la guerra, ne restò in una prima fase coinvolto marginalmente, per entrarci a pieno nel settembre del 1942, quando la sorte lo portò sul fronte russo. In una lettera spedita dal Brennero, alla frontiera con la Germania, il 14/09/1942, anche questa pubblicata dal fratello Antonino insieme all’incartamento recuperato postumo, Francesco informa la famiglia di essere partito il 9 settembre da Roma con destinazione Russia. Nelle sue parole la rassegnazione di chi sente la propria esistenza segnata da qualcosa di assurdamente tragico che non può essere mutato: “io sto tranquillo, non penso proprio a niente, (…) sono ormai certo che ognuno ha nella vita un destino, perciò nulla c’è da fare. Facciamo solo la volontà di Dio, che lui solo ci potrà guardare …”. Scrive di notte Francesco (“..ormai non ho più cosa dirvi, tanto che sono le 12 di mezzanotte e mi faccio qualche ora di sonno”), nella carrozza buia del treno che lo porta verso un destino che sente beffardo. Chiude la lettera con poche parole di commiato, e l’accompagna con una penna del suo cappello da Bersagliere, raccomandandosi al padre di conservarla con la speranza di “poterla un giorno ritrovare”. La spedizione cui fa parte Francesco, ha lo scopo di potenziare il fronte di una guerra che inizia a prendere una piega sorprendentemente difficile per l’alleanza nazi-fascista, con i tedeschi e gli italiani bloccati dall’agosto del 1942 rispettivamente a Stalingrado e sulle rive del Don, con l’inverno che avanza e che da li a poco sarà causa di un disastro umanitario di dimensioni enormi. Racconta Mario Rigoni Stern che “all’inizio di quell’inverno lo schieramento dell’ARMIR andava da nord a sud lungo la riva destra del Don (…). Il XXXV Corpo d’armata aveva in linea la 298a divisione fanteria tedesca, la Divisione Pasubio e il raggruppamento camicie nere “3 gennaio””. Con la Pasubio c’era Francesco, un ragazzo di Villa San Giuseppe, nella Vallata del Gallico, un ragazzo come i tanti che oggi vediamo ai bordi di una piazzetta, ma costretto a crescere in fretta dall’esigenza di dover sopravvivere a tanto orrore. Il 19 novembre 2002 era iniziata la controffensiva russa che avrebbe portato l’accerchiamento dell’armata tedesca a Stalingrado. Sul fronte italiano, lungo il DON, la controffensiva russa ebbe inizio all’alba dell’11 Dicembre 1942, con una prima fase di logoramento durata due giorni. All’alba del 13, e poi ancora tutto il 14 e il 15, i russi continuarono ad attaccare con maggiore insistenza, con azioni che interessarono tra le altre proprio la divisione Pasubio. Nell’ambito di questa azione, Rigoni Stern descrive l’accerchiamento di alcuni capisaldi italiani, che fecero poi da testa di ponte per la vera fase di rottura del fronte, iniziata all’alba del 16 per consumarsi nelle giornate del 17 e del 18 dicembre con scontri durissimi che portarono alla capitolazione e al conseguente inizio del ritiro “più disastroso che la storia ricordi”. Francesco Catalano, come confermano i documenti consegnati alla famiglia, fu ferito e fatto prigioniero dai russi proprio nel corso della primissima fase della Battaglia del DON, il 13 Dicembre 2002, e proprio all’alba della vigilia del giorno che avrebbe determinato la sua fine, scrisse le sue due ultime lettere, al padre e al fratello Domenico, due lettere arrivate cinquanta anni dopo la sua morte, avvenuta nel campo di prigionia di GUBAKA, nella Regione PERM, il 25 Maggio 1943. “Carissimo Padre son tre giorni solo che non scrivo e perciò per non lasciarvi assai senza vi scrivo questa cartolina così vi posso assicurare che grazie a Dio sto bene di salute (…)”, scrive Francesco nella prima lettera inviata al padre. E’ rassicurante, come lo sarebbe qualsiasi figlio che vuole trasmettere serenità ai propri cari, e questo lo spinge a non entrare troppo nei dettagli sul luogo e sul momento, su cosa si prova a stare al fronte, davanti ad un nemico che proprio in quelle ore sta per sferrare l’attacco finale. “Io qui sto bene, non manca da mangiare, anzi facciamo tutti i giorni pastasciutta, per cui state tranquilli” si prodiga di raccomandare alla famiglia, augurando loro “di fare un buon Natale”. Molte differenze invece nella lettera che scrive subito dopo al fratello Domenico. Col fratello, Francesco si apre e viene fuori la rassegnazione di chi sente di non potere cambiare l’esito della storia. “Mi trovo circa da un mese dove il destino e la sorte mi conduce (…)”, afferma in un brano della lettera, e quando cerca di rassicurare il fratello (“però fin’oggi ti posso assicurare che sto bene”) non può fare a meno di aggiungere “(qui) non si fa altro che nulla, soltanto la guardia, come fai pure tu (anche se). Certo qui cambia troppo dalla tua, tanto sai (qui) fa un pò di freddo, ma non per il freddo, ma per qualche po’ di grandine che soffia di sopra e di fianco!” Francesco si riferisce naturalmente ai proiettili, che mentre fa la guardia gli passano vicino, e continua: “io però sto sempre tranquillo, non penso proprio a nulla (….) non ho di cosa lagnarmi, certo si stava meglio dove stavo prima indietro, ma pazienza, speriamo al più presto che potrà finire questa guerra sempre con la più fervida vittoria e poter tornare ognuno alle nostre case salvi e vittoriosi”. Non c’è retorica fascista nelle parole di Francesco, la lettera dovrà superare la censura militare, e poi sa che da vittoriosi è l’unico modo per tornare salvi a casa, e la speranza si fa largo tra tanta sfiducia e rassegnazione. “Dunque (non fosse) per il freddo (non starei male) (…) non ti posso precisare i gradi (…) (visto che) al punto in cui mi trovo il termometro chi te lo da, però immagino circa 25 o trenta (si riferisce a gradi sottozero), tanto che sono proprio al fiume Don e ti dico che è tutto ghiacciato”. Francesco vede il fiume ghiacciato davanti a se, nella notte tra il 12 e il 13 Dicembre (“non ho altro da dirti, tanto finisco che son già le 3 del mattino e ancora voglio scrivere”), un fiume che da li a poche ore lo lascerà ferito e prigioniero e lo condurrà verso la morte. Le sue ultime frasi danno la misura dell’emozione che avvolge Francesco nel momento stesso in cui saluta il fratello: “ti abbraccio e col cuore palpitante ti do baci infiniti e mi dico sempre tuo amatissimo fratello Francesco, sperando al più presto di rivederti. Spero che farai un buon natale. Ciao”. Sono le tre del mattino, Francesco chiude la lettera che non riuscirà mai a spedire, perché dopo poche ore sarà ferito e catturato dai russi. Porterà con se le lettere nel campo di Gubaka, nella regione Perm (Siberia), che terrà fino alla fine, il 25 maggio 1943, giorno della sua morte. La versione ufficiale sulle cause del decesso parla di “conseguenze delle ferite riportate in battaglia”, ma le condizioni di prigionia spesso disumane che denunciarono molti superstiti tornati in patria dopo la guerra (circa diecimila), lascia purtroppo intravedere un esito ben più tragico. Francesco Catalano era un ragazzo di Villa San Giuseppe, uno dei tanti partiti a combattere una guerra assurda, a migliaia di chilometri dalla propria casa, lontano dalla sua famiglia, in una terra straniera e fredda, e come tanti mai tornato. La sua memoria sia manifesto di quanto è importante che la parola pace non resti un valore di pochi, che non sia soltanto una bandiera o uno slogan urlato in un corteo, ma diventi il fondamento della nostra esistenza. 


  • fb iconLog in with Facebook