Massoni e Carbonari: la mente e il braccio d’Italia
- Vincenzo De Angelis
Numerosi sono i testi pubblicati negli ultimi anni che trattano l’unità d’Italia. La maggior parte degli autori meridionali esprime dei concetti per lo più campanilistici, evidenziando quanto il Nord abbia depredato il Sud, e quanto il Sud abbia subito ogni angheria e malefatta da parte dei piemontesi. Pochi sono i testi che cercano di analizzare con obiettività storica.
Molti raccontano di grandi ricchezze: della fabbrica del ferro a Mongiana, per esempio, o di quelle della seta, o della flotta di navi partenopea; insomma, sembra che la causa principale dei nostri mali sia stata l’unità d’Italia. Altri testi affermano che il potere papale, o i Borboni, governarono il regno come un giardino produttivo, distribuendo il frutto al loro popolo.
Dove sta la verità? (Nel XIX secolo, la visione che avevano gli altri nei confronti del regno delle due Sicilie era molto più chiara). L’Europa, all’epoca, ci guardava diversamente, noi eravamo considerati i selvaggi d’Europa, e la nostra solo una terra da esplorare con grande attenzione. Non a caso molte cose su come eravamo le abbiamo lette dai libri che i vari viaggiatori stranieri (tedeschi, inglesi, francesi) pubblicarono in quel periodo, tra questi Norman Douglas, Edward Lear, Alexander Dumas e molti altri.
Alexander Dumas durante il suo viaggio in Calabria, percependo una scossa di terremoto, si rivolse al suo accompagnatore osservando: «Anche se sono calabresi non meritano di morire!». Per altri eravamo un mero oggetto di studio, come per Cesare Lombroso. Al Sud, senza alcun dubbio, la povertà era ai massimi livelli e altrettanto lo erano l’ignoranza e l’incompetenza, soprattutto in agricoltura. Tutto si faceva secondo le usanze e non secondo studi di settore. I terreni venivano seminati ogni anno con le stesse sementi, e non si sapeva che era necessario alternare sia terreni che sementi. Nei Comuni non esisteva l’anagrafe, quindi non si registrarono nascite, matrimoni e morti. Solo all’inizio del 1800, durante il periodo francese, fu istituita l’anagrafe (in Italia ci furono i meridionalisti e non i settentrionalisti, questo è un elemento che ci dovrebbe fare riflettere).
Anche se vantiamo grandi uomini, come Zaleuco e Tommaso Campanella, quelli che venivano da fuori trovarono spazi immensi d’azione; addirittura il vocabolario sul nostro dialetto lo pubblicò uno straniero, Gerhard Rohlfs. All’inizio del 1800 ci fu l’abolizione della feudalità ma, in Calabria, di fatto continuò. E peggio di prima. Giustino Fortunato, grande meridionalista, fondatore della società antimalaria e attento ai problemi del Meridione, nel 1879 rimase sorpreso quando riscontrò che la mentalità di molti amministratori, proprietari e professionisti, era tesa al profitto personale, alla furbizia, senza avere alcuna considerazione della comunità.
L’Italia venne costituita dopo il 1860, ma la lotta per conquistare l’unità iniziò molto tempo prima. Difatti, ci furono diversi focolai di moti insurrezionali come quello acceso dai fratelli Bandiera e, successivamente, quello più importante dei cinque martiri di Gerace. Michele Bello di Siderno, Rocco Verduci, Pietro Mazzone, Domenico Salvatori e Gaetano Ruffo, quasi tutti ventenni, promotori del moto insurrezionale 1847 nel distretto di Gerace, conobbero il martirio ad opera dei Borbone. I cinque giovani, frequentando la città di Napoli, capirono quanto fosse retrograda e conservatrice la società calabrese, e quanto essa necessitasse di uomini capaci di svegliare le coscienze umane. Con il loro impegno riuscirono a coinvolgere gran parte delle intellettualità locali, convincendole a lottare per la giusta causa. Quel moto insurrezionale fu molto importante, perché il popolo scese nelle strade, combattendo e chiedendo la costituzione al grido di viva l’Italia. È vero che quel moto alla fine fu represso, ma fu esso la vera scintilla che accese la ribellione e che contaminò tutti coloro che credevano nella costituzione e nell’Italia. Quel moto continuò nel cuore e nella mente di molti, fino a quando il giusto fine non fu raggiunto. E il 1860 fu costruito così, su questi primi mattoni.
I cinque martiri meritano, oggi, un posto importante nella storia. Di questi avvenimenti a scuola non se ne parla e in quasi nessun libro di testo sono menzionati. Si menzionano i fratelli Bandiera venuti da fuori e non i cinque martiri calabresi (e la colpa non è certo di Calderoni o di Cavour). La vita per il popolo, ai tempi della dominazione borbonica, non fu per nulla facile. I regnanti processarono i cittadini perché in possesso di libri, furono contro le grandi riforme e, secondo Benedetto Croce, ripugnarono la cultura e la libertà politica, furono superstiziosi e legatissimi alla chiesa. Non videro altro che un popolo che doveva, a qualunque costo, sottostare al loro volere. Vi era, inoltre, un potere economico ben delineato, e tutto a svantaggio del popolo.
Il clero possedeva metà del territorio e i baroni avevano ben 1940 delle 1994 città. Paolo Mattia Doria, genovese di nascita ma di adozione napoletana, scrisse che il contadino del regno era come la bestia. Ad ogni passo si incontravano uomini e donne o nudi o mal coperti da cenci schifosi, col viso marchiato dalla fame. Nella buona stagione, quando si trovava lavoro, essi guadagnavano un carlino al giorno (dal quale bisognava, però, detrarre le tasse), ma quando non si trovava lavoro si avvalevano della rapina o dell’omicidio. Di rado vi era una libera proprietà privata, perché i piccoli proprietari erano stretti in una morsa di tribunali e baronati. Dopo il 1860, l’Italia divenne una nazione. Di solito ad un popolo si da un’identificazione. Ma la parola nazione, nel XIX secolo, indicava un tipo specifico di comunità politica, fondata su tradizioni storiche, lingua e costumi condivisi. Mentre nel Medioevo stava ad indicare gruppi accomunati dalla provenienza geografica.
Il popolo del Mezzogiorno era un popolo diverso dagli altri:discendente dai sanniti, dai campani, dai mamertini, dai bruzi, dai locridei, popoli un tempo divisi e spesso in guerra tra di loro, successivamente fu granaio dei romani e dei greci, mescolatosi più tardi con arabi e saraceni. Ma anche l’altra parte dell’Italia non era omogenea: erano dei popoli che poco si somigliavano, senza tradizioni storico e culturali comuni. Solo la lingua era simile, perché di derivazione latina, in quanto tutto il territorio fu impero romano. Popoli diversi fra di loro, per unirsi, devono trovare un collante molto forte, qualcosa che superi ogni diversità. Valori che, per uomini in possesso di grandi ideologie, devono venire anche prima della vita stessa.
In un documento ufficiale la massoneria così definì se stessa: una libera associazione di uomini indipendenti, i quali non sono soggetti che alla loro coscienza e, si impegnano a praticare un ideale di pace, di amore e di fratellanza. Principi anteposti agli statuti di liberi muratori, pubblicati a Napoli nel 1820. Gli appartenenti a questa associazione furono per lo più intellettuali, che elaboravano il pensiero e parlavano di fratellanza, uguaglianza e libertà. Questa associazione fece paura ai regnanti, perché essi capirono che era in grado di sovvertire e creare disordini, portando nuove idee. Era in grado di aprire gli occhi e la mente a molta gente anche influente, quindi doveva essere combattuta. Dopo il periodo murattiano, a Napoli si fermarono ed entrarono a far parte della società napoletana molti intellettuali francesi che, a loro volta, erano appartenenti alla massoneria. Fu nelle loro tornate che, confrontandosi, portarono nella mente dei giovani studenti locali i processi evolutivi della società francese.
Massoneria e carboneria ebbero un ruolo fondamentale nella nascita dell’Italia. E, anche se esse furono entrambe associazioni iniziatiche, con tre gradi e assolutamente segrete, furono divise da un filo assai sottile. La prima (la massoneria) nacque in Inghilterra con il fine di impegnarsi a realizzare una mutua assistenza e l’elevazione spirituale, morale e intellettuale dei suoi aderenti; fu ispirata a principi razionalisti, progressisti e laicisti, e fu organizzata in logge riservate a soli uomini liberi e di buoni costumi, che curarono l’aspetto esoterico e simbolico. La massoneria si rivolse alle classi elevate, la carboneria riuscì a penetrare direttamente nella massa popolare.
La massoneria elaborò il pensiero, la carboneria lo mise in pratica: come se fossero la mente e il braccio di un unico corpo. La massoneria fu universale ed eterna, mentre la carboneria fu temporanea, in linea con il grande sentimento di patriottismo. La seconda fu figlia della prima, e attecchì su un terreno di coltura massonico. Gli appartenenti alla carboneria spesso furono massoni. Sorta proprio nell’Italia meridionale, per poi diffondersi rapidamente su tutto il territorio, ebbe il fine di opporsi ai governi assoluti per ottenere la costituzione, con il grande sentimento del patriottismo. Quindi, per cospirare contro un regno che adottava sistemi di dure persecuzione da parte degli organi di polizia: per questi motivi si dovette riunire sempre in gran segretezza. La carboneria, attraverso le cosiddette “vendite”, lavorò per portare avanti il pensiero di una nazione libera e democratica.
Gli inglesi FURONO COMPLICI di Cavour e le navi inglesi, presenti a Marsala, non batterono ciglio all’arrivo di Garibaldi. Garibaldi, soprattutto nel Meridione, ebbe strada libera, aperta già dalle due istituzioni che lo attendevano, e ovunque sbarcò il terreno era organizzato per affiancare e rafforzare le sue truppe. In Calabria vi furono numerose logge massoniche e vendite carbonare: da Cosenza a Reggio Calabria erano ben distribuite e pronte ad agire. Tanti illustri calabresi diedero ad esse un importante contributo. Tra questi Carmine Romano di Bagnara, uno dei massimi esponenti della carboneria calabrese, iscritto pure alla Giovane Italia. Carmine Romano aderì ai comitati rivoluzionari che si organizzarono a Reggio Calabria e costituì il quartier generale nella sua casa di campagna, in Aspromonte.
La notte del 8 agosto 1860, una schiera di garibaldini sbarcò per raggiungere Carmine Romano in Aspromonte. La mattina del 13 agosto, garibaldini e rivoluzionari attaccarono le truppe borboniche e, il 24 agosto, Garibaldi festoso entrò a Bagnara per raggiungere la casa di Romano, dove fu accolto. Questa è, quanto meno, una verità. Verità sempre nascosta poiché la chiesa bandì e scomunicò la massoneria. Fu proibito parlare, o dare dei meriti all’istituzione. Nei libri di testo non si fece cenno all’istituzione muratoria. Oggi non ESISTE più la santa inquisizione e non si manda al rogo Giordano Bruno, oggi per fortuna viviamo in un’altra era e in un’altra dimensione. La massoneria si confronta con le esigenze dello stato etico, il quale deve assicurarsi, attraverso la democrazia, tutte le libertà individuali, garantendo il pluralismo e la tolleranza politica e religiosa. L’istituzione massonica opera in tutto il mondo cercando di diffondere la laicità.
Dopo l’unità d’Italia la chiesa perse le decime e gli enti ecclesiastici, fu obbligatorio il matrimonio civile e Pio IX emanò un documento contro tutte le libertà moderne. Camillo Benso, conte di Cavour, fu un massone in stretto collegamento con le logge inglesi, e Garibaldi non fu solo il generale che guidò la spedizione dei Mille, ma fu il primo gran maestro della massoneria italiana, eletto a Palermo. Sull’unità d’Italia e sulle sue conseguenze potremmo discutere a lungo e, nonostante i decreti di Garibaldi a favore dei contadini poveri, emanati in Calabria e in Sicilia, i rapporti sociali nelle campagne non cambiarono, deludendo le aspettative. Ci vorrà del tempo e molti sacrifici per arrivare a dei risultati concreti.
Ogni cambiamento, purtroppo, miete le sue vittime. Per questo, oggi, dobbiamo dare un giudizio storico all’unità d’Italia, non un giudizio campanilistico. Da Nord a Sud ci siamo tutti nutriti del meglio che ognuno di noi possedeva. Su quel tavolo, chi più e chi meno, abbiamo tutti poggiato qualcosa di importante.
Quando, in Somalia, gli americani andarono per la missione di pace, un colonnello afro americano, guardando come i somali vivevano e in che condizioni si trovavano disse: «Mi dispiace tanto per quello che hanno vissuto i miei avi, portati in America come schiavi ma, oggi, guardando loro, vorrei essere quello che sono».