Panduri 1509: l’eco della morte
- Mimmo Catanzariti
Theràsia osservava la vallata sottostante il paese. Dal punto dove era situata la sua casa, l’orizzonte si allargava nell’ampia conca appoggiata ai primi contrafforti dell’Aspromonte. E proprio da quella casa era possibile ammirare la grande pietra conosciuta come Pietracappa, un masso enorme, dall’aspetto simile ad un pane, circondato da altri monoliti minori: la pietra di Febo e quella di Pietracastello che si distinguevano tra tutte le altre. La bellezza del panorama, in quella tersa giornata di febbraio dell’anno del Signore 1509, era tale da mozzare il fiato; Panduri, per la sua posizione, dominava tutta la valle del torrente Bonamico, da Capo Bruzzano fino a Roccella, e da lì si potevano vedere vari paesi incastonati alle pareti dell’Aspromonte: da Platì a Ciminà, da San Luca a Gerace, da Natile a Casignana fino a Ferruzzano. E poi in alto il monte Varràro con le sue balze, con il suo querceto fittissimo e le rare spianate, che sembrava una sentinella messa a guardia del paese sottostante. Theràsia e il terremoto I montanari e i muletteri che lo attraversavano per recarsi dall’altro lato della valle, verso Gerace, raccontavano storie paurose. Di vecchie pietre abbandonate proprio là, sulla cima della montagna, di ceramìdi e mattoni dalle strane forme di argilla, cotta nei tempi remoti in qualche fornace sconosciuta. Forse anche per questo era poco frequentata, se non dalla moltitudine di maiali selvatici che erravano sotto le sterminate forre di chamaròpe, le piccole querce ricche di ghiande di cui erano ghiotti. L’Aspromonte con i suoi boschi inestricabili era ritenuto in legame simbiotico con la natura, con la fatica di vivere quotidiana, ed era abitato da essere umani che, anche se sofferenti, non erano ancora corrotti dalla povertà e dai mali che attanagliavano i grandi centri urbani. La settimana prima era riapparso in paese il vecchio Teòfilo, uno dei monaci cercatori che frequentavano i paesi della valle facendo tappa per riposarsi nei vari ascetèri e romitòri dei monasteri del circondario. I monaci che giravano per queste vallate abitavano sempre vicini alle fonti d’acqua, coltivavano la vite e l’ulivo, piantavano castagni e querce per l’allevamento dei maiali e gelsi per l’allevamento dei bachi da seta. C’era un connubio tra i monaci e la popolazione locale, che approfittava della loro esperienza per imparare nuovi metodi di coltivazione della terra e di allevamento del bestiame. Il monaco portò notizie sul barone Tommaso Marullo, nobile messinese e nuovo signore del luogo, che aveva acquistato da Re Federico le terre di Bianco, Bovalino, Panduri, Precacore, Potamìa, Motta e Torre Bruzzano e finanche il castello e le terre di Condoianni. Theràsia aveva finito di accudire il vecchio Nicodemo, il pappùa, padre di suo padre che viveva con loro da quando era stato colpito alla schiena da un torello impazzito per la calura estiva non molti anni prima. All’improvviso le giunse l’eco di un tuono lontano, e una leggera vibrazione le avvolse tutto il corpo. Era come se vedesse molte immagini davanti agli occhi che tremolavano velocemente. Ma velocemente come era arrivato questo fenomeno, altrettanto velocemente scomparve, lasciandola inebetita, incapace di capire se avesse o no sognato ad occhi aperti. Il nonno però capì subito cosa stava accadendo, ricordò infatti che, quando era bambino, lo avevano svegliato le urla delle donne del paese, in una nottataccia in cui il mondo intero sembrava non avere né capo e né coda, ricordava soltanto che tremava tutto, e che il campanile della chiesa di San Giovanni era crollato con un frastuono che era rimbombato per tutto Panduri. «Scappa Theràsia, terremoto!» aveva gridato alla nipote, buttandosi per terra dal giaciglio dove stava ed aiutandosi con le braccia per raggiungere l’uscio di casa. Ma non fece in tempo ad attraversare il breve spazio che lo separava dalla speranza di uscirne vivo che il soffitto rovinò addosso a lui e alla nipote, seppellendoli in un vortice di polvere e calcinacci assieme a tutto il paese. L’antica Pandùri fu distrutta da questo terrificante terremoto nel 1509, ed i suoi abitanti, in seguito all’evento catastrofico, si dispersero nelle zone vicine insediandosi principalmente nell’area dove oggi è situato il paese di Careri. La storia della Calabria è stata condizionata da continui eventi alluvionali e da ricorrenti terremoti, i più devastanti furono quelli del 1783 e del 1908. Molti furono i centri montani e collinari semidistrutti e abbandonati dagli abitanti che costruirono spesso più a valle, in zone geomorfologicamente più sicure, i nuovi centri abitati. Il paesaggio calabrese, purtroppo, è rimasto privo delle strutture e dei monumenti architettonici della civiltà greca e bizantina, che furono l’orgoglio della regione nella storia passata. Quel poco che è sopravvissuto dei centri storici, e che rappresenta un patrimonio notevole spesso sconosciuto, ha subito la devastazione e le offese del tempo e delle catastrofi naturali, oltre che quelle provocate dagli uomini. Un patrimonio dimenticato Non è raro per il ricercatore imbattersi in posti “dimenticati”, veri e propri tesori vergognosamente abbandonati. In questi ultimi anni, però, si è registrata un’inversione di tendenza e molti si sono spinti nella ricerca e nella riscoperta dei luoghi del passato, ma, ahimè, in alcuni casi ormai è troppo tardi. La nostra è una regione ricca di storia e di cultura ma, nonostante ne abbia le caratteristiche e i titoli, è una delle poche regioni nell’elenco dei 49 siti italiani considerati dall’Unesco “patrimonio dell’umanità” solo per l’evento della Varia di Palmi, catalogato quale “patrimonio immateriale”. Ci vorrebbe troppo tempo per acquisire la giusta coscienza e sensibilità ambientale, e troppo lunga è stata la decadenza dovuta ad una gestione approssimativa e incompetente delle istituzioni perché si possa conservare quel che ancora rimane del nostro passato.