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Pasqualino Micchia, zio Nino Gatto e Giuseppe Bottai

  •   Francesco Nirta
Antonio Micchia Antonio Micchia

Zio Nino Gatto era fratello della mia bisnonna materna. Gaetano Cingari ne fa ripetuta menzione nella sua Storia del socialismo in Calabria come militante di spicco del movimento socialista della Locride, delegato più volte ai congressi provinciali. In famiglia lo si ricordava come una testa calda e comiziante ardito. Zio Peppino Panuzzo, apolitico marinaio di lungo corso e suo cognato per aver sposato una sua sorella, pur non essendo in buoni rapporti ne seguiva di nascosto gli itinerari di comiziante e una sera, a Bianco, disarmò un fascista che, stanco di sentirgliene dire di tutti i colori contro Mussolini, aveva estratto la pistola e lo stava prendendo di mira. Zio Nino non se ne accorse o, almeno, così disse perché lo avrebbe ringraziato malvolentieri: contravvenendo alla sua convinzione che la proprietà fosse un furto, ne aveva citato in giudizio la moglie e le altre due sorelle per una questione di eredità. Come per tutti i socialisti di casa nostra e non solo, furto era solo la proprietà degli altri.

La seconda contraddizione per lui, mangiapreti, fu il matrimonio religioso. La terza, l’aver tenuto a battesimo Pasqualino Micchia.

Furono anni di polemica aspra e sanguinosa tra M.S.I. e sinistre quelli intorno al 1970 quando, giovane dirigente provinciale di Destra, conobbi il prof. Antonio, per tutti Pasqualino, Micchia (nella foto a destra, archivio Vincenzo Stranieri). Scendeva spesso da Casignana a Bianco e, sbrigate le sue faccende, sedeva davanti al bar vicino alla pretura. Quando, a udienza finita, ne uscivo, ci salutavamo e la polemica politica era inevitabile.

Un giorno mi disse: «Per quello che ho subito dai fascisti dovrei detestarvi e invece, non so perché, mi siete simpatico» «Forse perché sono bisnipote di Nino Gatto». Balzò dalla sedia: «Cosa mi dite?! Cosa mi ricordate!».

Mi raccontò un episodio che non aveva mai raccontato e lo riferisco ora che non c’è più. Tempo dopo la morte violenta di suo padre, zio Nino andò a trovare sua madre solo per dirle: «Comare, ora potete smettere di piangere, perché chi è stato ha avuto quel che si è meritato». Pochi giorni prima qualcuno, destinato a rimanere ignoto, aveva sparato contro un uomo, partecipe dei fatti di Casignana su sponda opposta, ferendolo gravemente. Così, conobbi un altro, insospettato aspetto dell’indole del mio lontano congiunto.

Affermatosi il regime, l’antifascismo di zio Nino si sfogò tra le mura domestiche. Un 16 agosto mia nonna materna e sua nipote, perché figlia di una sua sorella, gli rese visita a Casignana in occasione della festa di San Rocco. Zio Nino volle fare gli onori di casa portando a tavola il miglior vino ed invitò la nipote a seguirlo in cantina. Purtroppo, il rubinetto della botte oppose resistenza ai suoi tentativi di aprirlo fino a che, sfinito: «Scostati – impose alla nipote, che sapeva fascista – ora vedrai se non scorre!». Si piantò impettito davanti alla botte, stese la mano nel saluto romano e gridò: «Eja, eja, eja, alalà». Scoppiò a ridere, riaprì il rubinetto e il riso gli morì in gola: il vino finalmente scorreva nella caraffa che teneva in mano mentre mia nonna si piegava in due dalle risa.

Una sera di quegli anni Settanta mi trovai a cena in un ristorante di Locri avendo come commensali il dr. Careri e l’avv. Cento, che da giovani avevano militato nelle squadre fasciste accorse a Casignana ad eccidio avvenuto. Domandammo dell’attentato a Bottai e Careri scoppiò a ridere: «Ma quale attentato! Peppino Bottai era almeno cinquanta metri avanti rispetto al punto in cui furono esplosi i colpi». A suo dire i fatti andarono così.

Occupata Casignana e distribuite le rituali manganellate agli avversari, gli squadristi si trovarono in un fondo di sacco perché il paese era stato circondato dai carabinieri che avevano intimato loro di sgomberare. Obbedire all’ordine sarebbe stato umiliante, scontrarsi comportava rischi fisici per loro e gravi conseguenze politiche per il partito, impegnato a guadagnarsi le simpatie delle forze dell’ordine. Queste, poiché ne ricambiavano la simpatia, si auguravano di non dover ricorrere alla forza ma avvertirono che, se l’ordine di agire fosse arrivato, avrebbero eseguito. Furono, quindi, intavolate trattative e comunicata ai carabinieri la parola d’ordine – Italia e Mussolini – che consentì ad un loro capitano di entrare a Casignana per incontrare i capi fascisti. Il suo mancato rientro nel tempo stabilito mise in agitazione i militari, che supposero un sequestro e si apprestarono ad intervenire quando furono informati che il capitano aveva apprezzato il vino greco a tal punto da addormentarsi sbronzo su una panca della chiesa.

Nel frattempo da Roma era arrivato Bottai (nella foto a destra) che si rese subito conto che restare ancora a Casignana non aveva senso ma, d’altra parte, non voleva dare l’impressione di sgomberare su intimazione delle forze dell’ordine. Fu raggiunto l’accordo con il capitano, ormai tornato in sé: i carabinieri sarebbero entrati in Casignana e i fascisti, avendo ristabilito l’ordine e non avendo altro motivo per restarvi, avrebbero loro consegnato il paese. Subito dopo le squadre lasciarono Casignana ma, evidentemente, qualcuno non gradì e sparò rischiando di mandare a monte l’accordo. Fu ad un pelo dal riuscirsi perché alcune squadre tornarono a Casignana abbandonandosi a rappresaglie e Bottai dovette usare tutta la sua autorità per ricondurle alla ragione. Benché lo sparo non fosse diretto contro di lui, che era distante cinquanta metri almeno, lasciò che si diffondesse la favola dell’attentato, che ne accrebbe il prestigio di coraggioso comandante di squadre.

Insomma, la commedia dopo la tragedia, come in tante vicende italiane di ieri e di oggi.


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