Polsi una volta. Memorie
- Francesco Nirta
Percepivo nel dormiveglia il tramestio ed il sommesso chiacchierare delle donne affaccendate a riempire sacchi e scatoloni da affidare alla groppa dei muli. Mi svegliavo a fatica, con negli occhi ancora un gran sonno; ma tanta era l’ansia del viaggio e così fresca la brezza della notte, da rendermi presto del tutto sveglio e cosciente.
Di lì a poco, arrivati che fossero i muli a rilevare vettovaglie ed indumenti bastevoli per un breve soggiorno, ci saremmo posti in viaggio. Polsi era la meta, familiare e sconosciuta, per noi che andavamo per la prima volta, come un luogo di cui si sente tanto parlare e che mai si è visto; vicina e lontana, come una leggenda sentita raccontare tante volte, di cui si conosce il contorno fantastico e irreale e che tuttavia si spera e si vuole che in qualche modo divenga realtà.
Erano le primissime ore del mattino e la falce lunare brillava nel cielo più vivida, come ogni elemento che lotta prima di cedere ad un altro. Il paese era ancora immerso nel sonno ed il silenzio della notte si conciliava stranamente coi tanti discreti rumori degli uomini e degli animali che si accingevano al viaggio.
Partivamo, infine, e la strada mi era nota finché si usciva dall’abitato; dopo, costeggiando il fiume, si proseguiva in fila indiana, i più esperti a far da battistrada, gli altri a seguirli, tendendo gli sguardi per indovinare, più che vedere, gli inciampi.
Avevo cinque anni e mi sentivo come chi si avvia a vivere una favola. In effetti, Polsi era una favola…
**********
Il viaggio si svolgeva per stretti sentieri tracciati nei secoli dal passo degli uomini e dalle unghie tenaci delle bestie. Bisognava attraversare più volte il fiume dall’ampio letto, il cui corso era ridotto ormai ad un fresco ruscello ristoratore nella calure che, sotto il sole, cominciava a tormentare uomini e cose. Ci si fermava per rifocillarci presso fontanelle naturali, sgorganti dai fianchi delle montagne, in luoghi consueti ai pellegrini. Le soste erano frequenti e le vettovaglie venivano consumate con tutto comodo: nessuno ci aveva ancora insegnato ad avere fretta con la pretesa di civilizzarci. Nel nostro ritmo di vita, allora, non c’era assolutamente posto per il motore e l’orologio era stato accettato solo come fatto estetico e perché indicasse l’ora dei pasti: l’ora di inizio, beninteso…
Il silenzio della montagna ci portava mille echi di suoni lontani: richiami di pastori, muggiti di bovini, suoni di campanacci. Ciò rivelava una vita segreta, lontana e di versa da quella del paese, che pure di essa si nutriva e per essa esisteva.
Ancora non erano state aperte le strade che oggi conducono al santuario: la lama dei mezzi cingolati non aveva ferito i fianchi delle montagne. Ora, il rumore del motore rompe profanatore quella quiete, come il ronzio di un fastidioso moscone in una stanza sveglia un dormiente.
Il pellegrino non affronta più il viaggio con animo lieto, dedicando la fatica del lungo cammino a piedi alla Madonna: oggi il sacrificio si esaurisce nello spendere per la benzina e nel portare, al ritorno, la macchina all’autolavaggio. In un giorno si va e si torna, dopo una rapida preghiera ed una non rapida e non sobria colazione al sacco. Giunti a casa, si constaterà, magari, che non è il caso di ritornarci: c’è poco da vedere e “non conviene”: troppe salite, troppa polvere, troppo caldo, troppo tutto. L’uomo della civiltà dei consumi è un essere razionale: crede per quel tanto e vede solo con gli occhi e sente solo con le orecchie: non va più in là!
**********
In segno di penitenza, poiché vi andavo per la prima volta, dovetti percorrere una breve salita con in mano un sasso, che poi avrei posato in cima, dove la consuetudine era attestata da mucchi di pietre di varie dimensioni. Ora il luogo non si riconosce più, ma allora Polsi ci appariva dopo un breve tratto giù nella valle, vicino al fiume.
Ricordo di averne riportato un’impressione violenta: da ore ed ore vedevo solo alberi e fiume, mentre percepivo il senso della lontananza dal mondo per il fatto che mi sorprendevo a domandarmi cosa stesse facendo la gente a quell’ora San Luca, come se mi fossi allontanato da anni e non da alcune ore solamente. Ora, improvvisamente, scorgevo Polsi, che era tutto lì, in un campanile alto, dal tetto verde, dalla forma inconsueta; e poi una chiesa, un largo spiazzo ed intorno case vecchie, come legate l’una all’altra, tante capanne e gente, tanta gente che entrava ed usciva dalla chiesa, dalle case, dalle capanne: un muoversi strano in un mondo che sembrava fuori dal tempo.
Sì, dopo trentacinque anni, se potessi esprimere, seppure incompiutamente, quella mia prima sensazione , direi proprio così: ero capitato in un posto che sembrava fuori dal tempo; e più tardi avrei constatato che lo spazio che lo separava dal resto del mondo non poteva misurarsi in chilometri, poiché non era un fatto fisico.
**********
Si andava in chiesa cantando inni dialettali di data immemorabile. Gli uomini, prima di entrare lasciavano fuori gli inseparabili fucili. Anche questo era un particolare che mi suonava strano: il fucile, che in paese vedevo solo in spalla di chi andava a caccia, qui sembrava un accessorio dell’abbigliamento e non aveva nulla di minaccioso e di temibile.
La madonna col bambino, nella nicchia aperta sopra l’altare, mi sembrò diversa che nelle immagini: più solenne, inaccessibile più che protettiva. Il Bambino aveva l’aria di chi avrebbe volentieri giocato con me, pur con l’aria di concedermi un privilegio. Così (avevo cinque anni!) interpretavo, guardando da sotto in su, le espressioni pietrificate in quei due volti.
Familiarizzai di più coi due angioletti che reggono le torce ai lati dell’altare, putti vagamente Donatelliani, con gli occhi, con gli occhi volti in alto in una espressione che l’artista avrebbe voluto estatica e che invece pare di invocazione al Cielo perché li liberi da quel peso portato ormai da secoli.
Le preghiere, i canti, i paramenti dei sacerdoti, tutto era diverso. Ma soprattutto era diversa la gente che pregava. Non avevo mai visto pregare piangendo: le sofferenze venivano offerte alla vergine in modo aperto, crudo, senza remore, senza infingimenti, senza pudori, lì, davanti all’altare e davanti a tutti, e divenivano così comuni a tutti, sofferenze di tutti, e sembrava impossibile che la Madonna non volesse farle proprie. Donne e uomini giungevano all’altare spesso dopo aver percorso per voto lunghi tratti camminando sui ginocchi ridotti ad una piaga. Ricordo una donna che, ottenuta grazia per il figlio, si trascinò dall’entrata della chiesa all’altare con la lingua per terra: gesti terribili, che volevano dire ad un tempo umiliazione, disperazione, esaltata fiducia. Si era capaci anche di questo. Oggi un veloce segno di croce col bacetto sul dito ed un’offerta in danaro dovrebbe indurre la Vergine ad intervenire nelle nostre faccende, come una «persona addentrata» cui si sollecita una raccomandazione se ne va, va; se no, ci si rivolgerà altrove! Di Santuari ce ne sono tanti!
**********
Accentuava quella sensazione di arcano il convento attiguo alla chiesa, cui, si accedeva per una porta che si apriva nel muro comune ai due edifici e per una vecchia scalinata in pietra. Le porte delle celle erano vecchie, come l’edificio e, le più, chiuse. Qualcuna portava in anditi e vani bui, dai quali era faticoso, per chi non fosse esperto, riemergere. Per uno di essi mi avventurai, una volta, nella sede vescovile, attigua al convento e con essa comunicante. La trovai vuota. Entrai in una grande stanza, accolto da papi e vescovi troneggianti su piedistalli che ne reggevano i busti, che sembravano chiedermi conto di quell’intrusione. Mi dilettavo di quelle esplorazioni, fatte col cuore in gola e mi attraeva quanto testimoniava ciò che fu e che sembrava ancora meravigliosamente presente.
**********
I boschi verdi di castagni, il mormorio del fiume e dei ruscelli, delle tante fontane, la selvaggia bellezza dei luoghi, il rinnovarsi di amicizie antiche ed il nascere di amicizie nuove destinate a diventare antiche, lo sbocciare negli adolescenti e nei giovani di sentimenti puliti, la preghiera che tutti accomunava, la sera, in chiesa, faceva di Polsi un luogo di vita meravigliosa ed irripetibile, animata da una Presenza che ognuno sentiva attorno e dentro di sé. Fuori da quel luogo, gli uomini sarebbero tornati quelli di sempre, ma lì, il miracolo avveniva e tutto ciò che di male l’uomo porta con sé veniva come compresso, attenuato, soffocato.
**********
Mons. Giovan Battista Chiappe era, nel 1954, Vescovo di Gerace. Veniva a Polsi, come tutti i pellegrini, a piedi o a dorso di mulo, e vi si tratteneva alquanto. Amava le passeggiate e preferiva quella che, passando davanti ai «Tre canali», porta al Calvario. Quando celebrava in forma solenne, l’afflusso dei fedeli era enorme, mentre in sacrestia si svolgevano furibonde dispute fra i chierici pretendenti al ruolo di diacono e suddiacono. Per me, che frequentavo l’ambiente in virtù della cospicua parentela «pretesca» e per prepararmi alla prima Comunione, quelle dispute riuscivano incomprensibili, come le questioni di precedenza tra nobiluomini. Comunque mi ci divertivo: era il saporito antipasto di un lauto banchetto.
I paramenti luccicanti, i gesti misteriosi e solenni della vestizione del Vescovo, l’uso frequente del turibolo e l’odore dell’incenso, il rito che appariva così diverso, l’immancabile Perosi suonato dall’organo e cantato dal coro del seminario, tutto mi sembrava bello ed eccezionale ed appagava la mia fantasia. L’omelia di mons. Chiappe era il «piatto forte» della cerimonia. Si sapeva già che, quale che ne fosse stato l’argomento, avrebbe trovato modo di introdurci i pianeti, il cielo, le stelle: di niente sembrava più grato a Dio, che di aver creato il firmamento.
Era colto, forse. Io lo ricordo semplice e dignitoso. Si fermava volentieri con tutti, tutti ascoltando e per tutti trovando parole opportune. Schivo di ogni pompa e delle apparenze, si arrabbiò bonariamente con mia madre che lamentava che io non avessi l’abbigliamento per la prima Comunione, che lei avrebbe voluto elegante. Il buon Vescovo osservò che «è l’anima che conta, benedetta figliola!».
Così, a cinque anni, feci a Polsi la prima Comunione, nella maniera più semplice possibile. Quando mi venne offerta la Particola, provai un gran turbamento, che avrei poi provato ogni volta, anche da adulto. Io non ero elegante, ma lido e dignitoso vestito. La prima Comunione era allora un fatto esclusivamente religioso. Ora è un fatto mondano. Il pargolo giunge in chiesa in macchina, con indosso qualcosa che è più una divisa che un vestito, con una illogica farfallina al posto della cravatta ed un fascia al braccio per rendere noto anche a chi non vuol saperlo che sta per comunicarsi per la prima volta. Mamma e papà, coi vestiti comprati per l’occasione e costati un occhio della testa, lo contemplano orgogliosi, preoccupati che il fotografo «colga l’attimo» ed augurandosi che al ristorante tutto vada come deve andare. E così il primo atto religioso che il bambino compie con coscienza e volontà si riduce, per l’imbecillità dei grandi, ad un fatto mondano, di cui resterà il ricordo nelle fotografie che ne eternano l’espressione falsamente compunta, che mal dissimula l’infantile vanità soddisfatta.
**********
Quante volte ci son tornato, da adulto, vi ho sempre cercato il bambino che sono stato: i muri, gli edifici, le piante, gli orti, la chiesa, ogni angolo, ogni tratto di strada, ogni fontana mi hanno parlato di me, mi hanno ricordato com’ero.
Com’è logico, non tutto è come prima, eppure pare che nulla sia cambiato e , tornandoci, ti ritrovi di nuovo fuori dal tempo.
Le macchine che percorrono la pista che conduce ormai fin presso la chiesa tanto sono fuor luogo, che sembrano oggetti strani provenienti da un altro mondo.
Ricavi una sensazione di eternità dalle vecchie case con le date della costruzione, dalle iscrizioni sui muri della chiesa e del convento, dalla Croce che fu adorata circa mille anni fa, dal rudimentale modo di ricavare l’energia elettrica, dal Simulacro che esprime una maestà sovrumana.
È una sensazione che trovi anche in te stesso, quando, seduto su uno dei poggi sovrastanti la valle, ascolti il fruscio degli alberi ed il mormorare delle fiumare e le voci che ti giungono lontane e quelle che parlano dentro di te, dicendoti cose conosciute e dimenticate, dolcemente rimproverandoti.