Reportage. Ciminà, «Dalle stalle alle stelle»
- Arturo Rocca
Quanto cammino possa fare il nome di un paese della Calabria, e quanta fatica per riempire lo spazio intercorrente tra la partenza ed il traguardo, non può essere misurato solo con gli strumenti adatti al tempo.
Ricordo l’apprensione, nel risalire i tornanti che precedono l’arrivo a Ciminà, che nutrivo accanto a mia madre che ci andava ogni anno per acquistare il maiale per farne dispensa di tutto l’anno. Già alla partenza la santa donna si segnava, come faceva ad ogni inizio di giornata, per invocare la protezione divina. Il viaggio era tutto un narrare, tra loro adulti, di eventi funesti legati ai luoghi: qui fu ucciso il prete, qui cominciò il macello (la faida), per la costruzione di queste case popolari si sono scannati, qui hanno sparato durante il funerale, in questo bar c’è stata la mattanza! In effetti ritrovarmi ragazzino sui posti che avevo visto in televisione, con la telecronaca di Piero Marrazzo, mi faceva un certo effetto.
Le sette sorgenti
Oggi, rifacendo la stessa strada, lo stato d’animo è completamente differente, sono spariti i fantasmi del passato e mi appresto a giungere in un posto soleggiato dall’alba al tramonto, protetto dai venti da una cornice che va da monte San Pietro (Tre Pizzi) a nord-est, a monte Spuntone a sud-ovest, passando per monte Petrotondo e monte Antoninello, monti che fanno nel contempo da sostegno ai piani di Moleti. Qui la natura si mostra lussureggiante e si fa guardare con occhio attento perché è tutta stesa come una tovaglia imbandita di ogni ben di Dio. A cominciare dall’acqua, di cui se ne possono scegliere da bere tra una consistente offerta: acqua carda, Nessì, acqua da pruppetta, acqua da caserma, u canalellu i Ielasi, acqua du medicu, acqua du Russu! A contarle sono sette e richiamano alla mente la valle delle sette sorgenti che si trova sulla strada che da Kolympia porta al villaggio di Archipolis sull’isola di Rodi. Gli italiani, durante l’occupazione, costruirono una grande cisterna che attraverso un cunicolo praticabile, dove confluiscono le acque delle sette sorgenti, le porta al paese di Kolympia. Oggi vi è un parco attrezzato e vi sono sentieri che conducono all’origine delle sette sorgenti e, attraverso il tunnel di circa 150 metri, si raggiunge la cisterna trasformata in uno splendido laghetto, dove accorrono turisti e locali per godere della frescura. Alle sette sorgenti di Ciminà manca l’inventiva di quello splendido popolo che sono gli Italiani. In verità un laghetto è stato realizzato sui piani di Moleti ma in funzione antincendio, stendendo centinaia di metri quadrati di guaina bitumata. L’idea non è stata certo degli stessi italiani che lo realizzarono a Rodi.
Il villaggio di Moleti
Ma se gli epigoni di quegli italiani volessero ancora realizzare un parco a misura degli amanti della natura potrebbero ancora farlo, anche senza demolire le orrende strutture realizzate a scacchiera su tutto il territorio del villaggio Moleti. Villaggio che i genitori di questi italiani avevano pensato (e voluto) già dotato di un piano di fabbricazione; ed è forse l’unico, tra i villaggi montani in tutta l’area del Parco, ad avere tale strumento. Purtroppo, a seguire, non sempre sono state operate scelte sulla stessa scia. Oggi sono visibili strutture in decadenza e isole pic-nic realizzate a pieno sole ed utilizzabili solo da stakanovisti della tintarella. Ma nulla è perduto perché, nonostante tutto, l’area è sicuramente degna di uno sviluppo con qualche opera di restauro ambientale.
Il torrente Nessì
La fiumara di Gelsi Bianchi e il torrente Nessì cingono elegantemente monte Antoninello, prima di riunirsi, all’altezza del Carruso, intorno ai 500 metri di quota e poi dirigersi verso l’abitato a dar forza ai tanti mulini e frantoi disseminati sul suo corso. Il Nessì, prima di omologarsi alla fiumara, ci regala dei giochi d’acqua che da soli basterebbero ad attrezzare un parco: 6 salti, di cui uno di 18 metri, a coprire un dislivello di circa 120 metri che termina con una gola granitica levigata a sinusoide di grande valore scenico e con un effetto luminoso che la fa apparire di un grigio scuro che vira al blu. Sono le cascate Caccamelle, il nome richiama il pentolone che i pastori usano per fabbricare il formaggio e la ricotta, e sono raggiungibili attraverso un sentiero, oggi in attesa di ripristino, ricco di storia e di rarità botaniche. Percorrendolo, si passa davanti ad uno stazzo dove si possono ammirare le architetture delle terrate ed imponenti muri a secco per il recupero di terrazze da coltivare.
Il Tre Pizzi
Da Ciminà vi sono almeno tre sentieri che portano alla sommità del monte Tre Pizzi (708 metri) di cui uno, il più agevole, attrezzato ma che non ha resistito ai colpi del tempo, dei vandali e delle intemperie. Vale sempre la pena di raggiungerlo per affacciarsi, come da un balcone, sulla costa jonica e, volendo, fermarsi a pregare presso i ruderi di un’antica chiesetta mononavata bizantina. Sulla sommità il vescovo Bregantini ha anche celebrato la messa. É un posto dello spirito e per me vale la pena di rinnovare l’usanza di salirvi il giorno di santo Stefano o la notte del 10 agosto a rimirar le stelle cadenti. Le principali contrade sono Camuti, Fantò, Moleti, Quarantana e sono i luoghi dove principalmente si pratica l’allevamento della mucca podolica e della capra, che vengono lasciate libere al pascolo per la maggior parte dell’anno e dal cui latte viene prodotta la specialità che ha fatto risalire la china a Ciminà: il caciocavallo Pat (Prodotto agroalimentare tradizionale) e Deco (Denominazione comunale). Ciminà è la prova che si possono produrre eccellenze anche in posti etichettati “senza speranza” e che invece, a dispetto delle attese, la speranza si trasforma in genuinità da condividere.
Il caciocavallo
Condivisione che c’è stata nell’ultimo fine settimana di luglio all’Expo di Milano 2015 e che ha fatto registrare, in soli 2 giorni, circa 150.000 visite allo stand calabrese. «Il caciocavallo si produce in questa zona da tempi immemorabili – spiega Slow food – e trova il suo antenato nel kaskaval, una pasta filata prodotta ancora oggi dalla Macedonia alle isole dell’Egeo, la cui origine ci porta direttamente alle popolazioni nomadi della steppa». A Ciminà, ad esempio, il caciocavallo si fa a due testine, è un formaggio piccolo, allungato, caso unico nel panorama caseario, che però non è adatto alla commercializzazione sul lungo periodo in quanto non adatto ad una stagionatura prolungata; si sta cercando di indirizzare i produttori ad un aumento di pezzatura molto più commerciabile. Ma, come abbiamo visto, Ciminà non è solo caciocavallo: è soprattutto natura splendida ed incontaminata, ricca di biodiversità e di antiche vestigia industriali che tentano di emergere con la valorizzazione dell’olio di oliva e attraverso la creazione di un museo dell’olio in contrada Camuti dove è stato restaurato un frantoio acquisito dal Comune. Uno dei più belli e completi di tutto il circondario. Particolare la linea di lavorazione della sansa con dieci vasche a caduta. Accanto campeggia la saitta di un mulino a pietre francesi e ruota persiana, che porta nel fregio la data del 1890 ed è in attesa di restauro e conseguente creazione di un polo museale. L’attuale sindaco, Domenico Polifroni (ma sono Polifroni anche il vice-sindaco e l’assessore), al suo secondo mandato, reca un cognome benaugurale; significa, infatti, “di molti anni”, che speriamo si estenda anche al successo di questo paese. Ciminà e i suoi operosi abitanti meritano di vedere lo stemma comunale ai futuri importanti appuntamenti, non solo alimentari, perché come cantava il grande Fabrizio “dal letame nascono i fior”.