Reportage. La leggenda del tango argentino
- Franco Blefari
É molto difficile parlare di tango (e capire il tango) se non si è stati in Argentina, come chi scrive, e frequentati i luoghi di culto più rinomati di questo baile planetario, come le “tangherie” o le milonghe, dove tutte le sere viene ancora rappresentato, fino a tarda notte, anche se da un pubblico adulto, in un’atmosfera di solenne partecipazione emotiva.
É una danza ibrida senza una patria ben definita, anzi una sintesi, come, del resto tutta l’Argentina, nata musicalmente dalla fusione di emigrati di tre continenti: l’America, l’Africa e l’Europa, dove, infine, il ballo si afferma a livello universale.
Una danza aspra e sensuale
Il tango è una danza dal tono aspro e sensuale che racconta “con gesti pieni di malinconia, appena sottolineati da un sorriso di disprezzo, l’odio, l’amicizia, l’amore, la passione e la tragedia”, è scritto da qualche parte. In esso riaffiora, come un eterno tormento, l’ansia dell’oggi, il rimpianto del passato che non torna più, il dramma delle cose perdute per sempre, a proposito del quale Rosalba Campra scrive che «il tango trova nel fallimento umano la sua stazione di eccellenza, poiché il tema maggiore del tango è la sua desolata costatazione della perdita che percorre tutta la tradizione poetica occidentale». E ciò accade quando l’incontro con questo “pensiero triste che si balla” - come diceva Enrique Santos Discepolo, il più grande poeta del tango e paroliere delle canzoni di Carlos Gardel, leggendario interprete della canzone-tango argentina - entra talmente nella vita di chi lo ama fino al punto da condividerne tutti i temi che affronta e sentirlo come un modo di vivere.
Il tango, come scrivono in molti, non è solamente un ballo, ma una filosofia di vita.
Un tanghèro, meglio dire un ballerino di tango, sa che non può barare quando baila, perché il tango è una danza dove ognuno deve rispettare la propria identità, muovendosi interpretando se stesso, il proprio stato d’animo, la propria condizione umana e sociale, essendo il tango figlio del pueblo (popolo) sempre in lotta col destino avverso e dalle cui sofferenze e delusioni non può mai sfuggire.
Non ha copione, è tutto improvvisazione
Il tango non ha copione, è improvvisazione, un stesso brano può essere ballato centinaia di volte, ma sempre con movenze diverse e mai provate, dettate dalla narrazione stessa del tango e da tutto ciò che si prova nel momento in cui si balla; tutto nasce dal proprio stato d’animo, dall’approccio col partner e da ciò che suggerisce la musica, ma, sostanzialmente, è una comunicazione che si esprime con il linguaggio del corpo.
Ogni tango provoca una reazione che stimola i sentimenti dei ballerini, trasformandoli in figure, movenze, intrecci di corpi, abbracci, sguardi, carezze, ribellione, passione, dando luogo ad una miriade di sensazioni che non sono mai codificate.
«Il tango si alimenta di tristezza - scrive Francesca Toti -. Ogni felicità, ci insegnano i poeti del tango, è per definizione effimera, illusoria, beffarda: più che mai quella amorosa».
Il tango è essenzialmente l’incontro tra due persone che vivono le passioni del tango, senza il quale questo dramma della solitudine non può andare in scena: il sipario non si apre, la musica non ha voce, il sangue non pulsa nelle vene. Anche il dolore, raccontato dai tanghi, è talmente profondo e intenso, sublimato, che, da pena, diventa compagnero de tristeza, alimento di vita e di poesia.
Il tango non ha futuro, perché è uno stato d’anima senza speranza: è tutto maledettamente immobile dove «come una carovana i ricordi passano» dice Alfredo Le Pera in Mi Buenos Aires querido, perché, come scrive Omero Manzi nella canzone Malena:
“I tanghi sono creature abbandonate
che attraversano il fango del vicolo
quando tutte le porte sono chiuse
e abbaiano i fantasmi della canzone”.
L’identificazione dei poeti del tango con questo ballo è talmente tangibile, che lo condividono col cuore dei disperati che vivono nelle taverne del porto, dove si balla difendendolo da ogni intrusione di estranei, quali possono essere le persone altolocate, a proposito delle quali scrivono “che ne sanno gli aristocratici, leccati e attillati. Che ne sanno di tango, che ne sanno di ritmo?”.
A queste persone (l’eterna lotta di classe tra ricchi e poveri!) vogliono impartire lezioni di tango, scrivendo che:
“El tango se baila
mescolando l’alito,
sentendo nel viso
il sangue che sale
ad ogni battuta,
mentre il braccio
come un serpente
si attorciglia alla vita”.
Ma questo, ovviamente, è il tango delle origini, non quello di esportazione nel mondo, quello dei teatri e delle sale da ballo europee, e in particolare di Parigi, dove il tango esplode in modo fragoroso, diventando la seconda patria del tango, che viene rappresentato con una rosa in bocca (lei) e lo sguardo torvo e capelli impomatati di brillantina (lui) dopo che è stato accolto e celebrato con tutti gli onori, più tardi, della televisione, ma non del cinema, che è sempre stato fedele alla sua storia, dai tempi del “muto” fino alle ultime rappresentazioni della modernità; perché il cinema è cultura, storia, testimonianza, dove non c’è spazio per il dilettantismo, o le improvvisazioni.
Il popolo d’Argentina
L’Argentina è un popolo che ama la poesia, la musica, la letteratura, il cinema, la pittura, la danza, l’arte in genere, perché tutte queste cose sono elementi che convivono nel tango e di cui si nutrono giornalmente, ben sapendo che la vita, per essere tale, ha bisogno di nutrire prima lo spirito, dopo il corpo. E gli argentini sono persone che non si vergognano se non hanno da mangiare, ma di non lavorare, e, spesso, di non sapere qual è la loro patria, essendo un popolo ibrido nato dalla fusione di tante razze.
Ernesto Sabato, ultimo grande scrittore argentino, calabrese di Fuscaldo (1911-2011) nel suo saggio del 1963 Tango, la discussione e chiave scrive che se «un napoletano balla la tarantella, lo fa per divertimento, un ballerino di tango, che balla il tango, è per considerare la sua sorte (che è di solito disgraziata) o per diluire i cattivi pensieri circa la condizione generale dell’esistenza umana».
Ecco perché il tango, nelle sue evoluzioni musicali, specie nei primi anni di vita, viene ballato con movenze tragiche, facce truci rassegnate al loro destino di emarginati, sempre in lotta con la vita, ai quali solo le melodie di quella musica possono, in parte, lenire i propri dolori, le loro ataviche sofferenze di immigrati in cerca di una patria, lontani dalla propria terra e dalla propria famiglia.
La stessa storia ha, purtroppo, confermato che gli immigrati, in larga parte italiani, sono stati facili profeti in quanto l’Argentina è stata l’El Dorado sognato solo per pochi, mentre gli altri, se non hanno ripreso la via del ritorno, si sono dovuti accontentare di una vita grama e piena di sacrifici per sopravvivere.
Il più grande scrittore argentino di tutti i tempi, Jorge Luis Borges, per il suo intenso potere evocativo, definisce il tango il “ballo della memoria”, in quanto:
“Il tango crea un torbido
passato irreale che in qualche modo è vero,
un ricordo impossibile di essere morto
duellando in un incrocio di sobborgo”.
Dura circa centoventi anni (e non è ancora finita!) la disputa tra Buenos Aires (capitale dell’Argentina) e Montevideo (capitale dell’Uruguay), le due città che si specchiano nel Rio della Plata, dividendo due città dirimpettaie e due nazioni, per accaparrarsi la primogenitura del tango, che, per tagliare la testa al toro, viene ormai definito il ballo rioplatense, anche se nel mondo è conosciuto soltanto come il tango argentino, diventato scuola ovunque, cultura, spettacolo, arte, tempo libero.
Quando nasce il tango?
Quando nasce il tango lasciamolo dire al figlio più illustre della letteratura, attingendo direttamente dalla sua voce grazie ad alcune conferenze registrate in quattro videocassette portate alla luce nel 1965, che sono poi state pubblicate nel 2014: «L’anno è il 1880, - conferma Borges - si suppone che allora nasca clandestinamente il tango. In quanto alla geografia del tango le teorie sono differenti, secondo il quartiere o la nazionalità dell’interlocutore. Ma questo deve importarci poco, su qualsiasi sponda del fiume sia nato. Possiamo optare per Buenos Aires, che è quello che generalmente si accetta, nell’anno 1880».
«La tristezza del tango ha portato la gente ad affermare che “è un pensiero triste che si balla” - continua Borges - come se la musica nascesse dal pensiero e non dalle emozioni, corrisponde ad un momento successivo, non certamente ai primi tanghi, che avevano parole indecenti o senza senso».
Ma la genesi del tango Borges la fissa nelle periferie, nelle zone di confine, «negli stessi luoghi dove sarebbe sorto pochi anni dopo il jazz negli Stati Uniti, nelle casas malas (bordelli, lupanari, bische) sparse per tutta la città. Successivamente Carlos Gardel, che canta alla maniera creola con parole insanguinate e una gran dose di indifferenza» trasforma il tango in scene drammatiche a fosche tinte.
Comunque il gran merito che Borges attribuisce a Gardel è quello di avere fatto diventare drammatico il tango, raccontando storie tristi e strappalacrime, che poi, ogni argentino ha fatto sue vedendo la sua immagine riflessa in quelle storie tristi che erano quasi sempre l’altra faccia della felicità
Il tango è figlio della strada e delle taverne, dunque, che nasce tra uomini soli e si sviluppa nei postriboli di qualche bordello, nonostante certa letteratura - forse per dire qualcosa di nuovo - voglia dimostrare il contrario.
I suoi primi vagiti «li emette nella miseria e nell’emarginazione sociale, nel puzzo nauseabondo delle fogne che costeggiano il Rio della Plata.
Il porto è la sua culla e, per questo motivo, viene definito tango porteňo, in quanto il porto è già un centro di accoglienza per le nuove danze ibride che arrivano da altre razze ed altre culture.
Il tango arriva così nei bordelli del rioplatense insieme ai gauchos (mandriani nomadi delle pampas), alla ricerca di cerveza (birra), asado (arrosto di vitello) e di donne a poco prezzo.
Qua il tango licenzioso della malavita, come viene chiamato, diventa poesia recitata e cantata, diventa motivo di scandalo per una società puritana e non ancora travolta dal diluvio migratorio da quasi tutte le nazioni del mondo in cerca di fortuna. Una volta col termine tangos venivano chiamati i luoghi dove gli schiavi negri celebravano le loro festività al suono di tamburi.
Dal porto alla milonga
Dopo l’abrogazione della schiavitù, la parola tangos si usa ancora per indicare le associazioni di negri liberi, che nella lingua criolla, gli stessi, vengono chiamati tambor. Dunque il termine tango potrebbe essere una deformazione della parola tambor. La comparsa del tango, quindi, nasce come un linguaggio comune dei porteňos, unendo persone che ancora non hanno una lingua comune da parlare, come italiani, spagnoli, tedeschi e russi che abitano fianco a fianco nei conventillos (casette rustiche di legno colorato con la vernice avanzata dalle barche, come si vede in tanta pubblicità dei rioni tipici, come El Caminito, a Buenos Aires, dove si balla il tango per strada per la gioia dei turisti).
Nella periferia si incontra la gente del porto e quella delle campagne. La gente della pampa porta la payada (la poesia popolare) che, unendosi al ballo, forma la habanera (danza simile al tango di origine cubana), che, a sua volta, si trasforma in una camminata in cui l’uomo avanza e la donna indietreggia.
Nasce così la milonga (genere musicale folclorico e anche luogo dove si balla il tango), che dà la possibilità al popolo della notte di cantare e ballare.
Dal porto di Buenos Aires arriva infine il condombe (ballo degli schiavi neri d’America) che, fondendosi con le parole e la musica della payada e della habanera, danno origine al tango. Un’altra tesi sposa la versione del verbo latino tangere (toccare), “coniugato” a piene mani dai ballerini di tango che si toccano in continuazione.
L’Argentina, alla fine dell’Ottocento, ha una popolazione di due milioni di anime che vivono su una superficie di poco meno di tre milioni di chilometri quadrati.
Il governo di Sarmiento
Dopo la dichiarazione d’indipendenza dell’Argentina dalla Spagna, il governo di Domingo Faustino Sarmiento e Juan Bautista Alberdi, per incrementare demograficamente tutte quelle terre fertili, ma desolate, pensa di liberalizzare l’ingresso nel Paese per tutti gli uomini del mondo che vogliano abitare il suolo argentino. Ne nasce un esodo di dimensioni bibliche, come raccontano tante immagini sbiadite dal tempo, la maggior parte maschi e italiani, stimolati dal nostro governo, che intravede una soluzione ottimale alla crisi economica esistente in Italia, prevedendo già l’entrata in Italia di grosse somme di denaro liquido che sarebbe arrivato con le rimesse degli emigrati ai loro parenti rimasti a casa.
La periferia diventa città, il nuovo mondo, anche se formato dal 50% da italiani, il 25% da spagnoli e l’altro 25% da quarantacinque razze diverse, porta alla nostalgia per la patria lontana, che «per renderla più sopportabile - scrive Mari Lao in T come Tango - non resta altro che inscenare la propria vita, ricostruire la propria identità, esorcizzarla, nutrirsi di essa, rappresentandola». E gli argentini lo fanno ascoltando la canzone di Gardel, Volver (tornare) che dice:
“Volver
con la frente marchita:
la nieves del tiempo platearon mi sien”.
(Tornare, con la fronte appassita: le nevi del tempo hanno argentato le mie tempie). Chi scrive ha trascorso un anno in Argentina per motivi di lavoro e ha provato tanta pena nel vedere tanti suoi connazionali immigrati più che ottuagenari, che, non avendo trovato fortuna, dopo una vita di stenti e di enormi sacrifici, aspettano ancora che succeda qualcosa, giocando a bingo tutte le sere, per mettere da parte i soldi del biglietto e risalire sul quel “vapore” che non hanno mai dimenticato, per tornare a casa, dove non li aspetta più nessuno e nessuno li riconoscerebbe più.
Trilussa e il papa Pio X
Tante storie come questa sono i temi preferiti dei tanghi, perché sono testimonianze di emarginazione sociale in cui ogni verso è scritto col cuore di un poeta, quasi sempre italiano, o napoletano, che non riesce a vivere lontano dal suo sole e dal suo mare, dalle sue radici. Nasce, intanto, il lunfardo, un gergo per tutti gli immigrati che abitano i bassifondi delle due città poste sul Rio della Plata e tutte quelle zone malfamate del porto, «dove si può ballare a 10 centesimi il giro compresa la dama» (Borges).
É un misto di tutti i dialetti della penisola italiana, di gitano andaluso, di francese e di spagnolo.
É un gergo protettivo fatto di termini anagrammati per depistare la polizia e non farsi capire dai tutori dell’ordine argentini.
Ancora Borges nella sua opera Evaristo Carrigo afferma, interrogando alcuni suoi informatori fidati, che la nascita del tango è nei lupanari, confermando quanto ebbe a dire anche il poeta Leopoldo Lugones definendolo, addirittura, “rettile da lupanare”.
Nel 1913, addirittura, il Sacro Conciostoro ne chiede la condanna, bollandolo come altamente peccaminoso. Il poeta romano Salvatore Trilussa, a proposito del tango, commentando un fatto per lo meno insolito, che il papa Pio X sia costretto ad esprimersi in merito ad un ballo alla moda, scrive:
“Er Papa nun vò er Tango, perché spesso
er cavajiere spigne e se strufina
sopra la panza de la ballerina
che, su per giù, se regola lo stesso”.
In effetti il Papa, nel corso di un’udienza, dopo avere assistito ad alcuni passi di tango, ad opera di alcuni principi romani, anche se non scandalizzato, chiede che bisogno c’è di ballare il tango, visto che nella sua Venezia si balla la Furlana, una danza molto popolare. E Trilussa conclude così il sonetto dal titolo “Tango e Furlana”:
“Ma un ballo ch’è
der secolo passato
co’ le veste attillate se fa male
e er papa a questo
mica ci ha pensato.
Come vôi che se movino?
Nun resta
che la Curia permette
in via speciale,
che le signore s’arzino la vesta”.
Il protagonista del tango è il compadre, una versione poetica del nostro guappo o del francese gigolò, se non del gaucho, simbolo di pampa, libertà e solitudine, mentre il ruolo della donna è quello di chi segue, la seguidora, che si fa guidare nelle mutevoli e libere espressioni del ballo.
Un ballo peccaminoso
Finché il ballo rimane tra Argentina ed Uruguay viene fatto sempre segno di continui attacchi contro il decoro e la morale, con l’accusa di essere un ballo altamente sensuale. É ancora Borges, in Evaristo Carriego, che insiste sulle origini peccaminose del tango, vedendo che veniva ballato per le strade soltanto da «coppie di uomini, perché le donne del popolo non volevano compromettersi in un ballo da puttane».
A tutte ciò si aggiunge la considerazione del carattere maschilista del tango, non solo perché è sempre l’uomo che avanza e la donna indietreggia, ma anche per una canzone, la conosciutissima El Choclo del 1904, il cui titolo tradotto in italiano è “torsolo della pannocchia del mais”, nasconde un evidente riferimento fallico. Ci vogliono molti anni perché il Barrio Norte (zona del centro) riesca a imporre il tango… con tutto un bagaglio di zavorra e di pregiudizi che non giocano certo a suo favore, anzi: «Prima era un’orgiastica diavoleria; oggi è un modo di camminare», ci ripensa Borges.
Intanto il tango si diffonde fra la gente povera, mentre la borghesia continua a ballare la quadriglia. Si accentua così uno sviluppo clandestino del tango che si diffonde nei bordelli e in tutti i locali malfamati. Il tango viene suonato e ballato per strada, in feste private oppure in feste pubbliche, come il Carnevale.
Gli strumenti tipici del tango, originariamente, sono il flauto, la chitarra e il violino, e, qualche volta, anche il clarinetto.
Più tardi, intorno al 1900, il flauto sarà sostituito dal bandoneon, portato in Argentina dal tedesco Heinrich Band, che imprime al tango - come racconta Elisabetta Muraga - «la caratteristica cadenza struggente che lo fa diventare veicolo per eccellenza di tutte le passioni dell’animo umano», specie quando il conjunto (complesso), intorno al 1910, si stabilizza con bandoneon, violino e pianoforte.
Dall’Argentina all’Europa
Il successo incomincia nei primi anni del secolo, quando finalmente si può ascoltare nei teatri e nei caffè.
Nel 1913 il tango ha l’investitura ufficiale, dopo che Francia ed Europa lo incoronano come ballo del momento.
Il tango viene così adottato come la più grande attrazione artistica d’Argentina, conquistando, di riflesso, tutte le città d’Europa. Comunque, il periodo eroico del Tango viene fatto risalire dalle ultime decadi dell’800 fino al 1917, quando Carlos Gardel canta al teatro Esmeralda di Buenos Aires Mi noche triste, che segna l’esordio del tango cantato con accompagnamento di orchestra tipica. Lo stesso Borges, ora, riconosce definitivamente il valore universale del tango dicendo che «il romanzo di un giovane povero è ormai una verità indiscussa».
In Europa, con lo scoppio della Grande guerra, il tango sembra ormai al tramonto.
Ci pensa Rodolfo Valentino, immigrato italiano di Castellaneta, a rilanciarlo nel cinema col film I quattro cavalieri dell’Apocalisse ed altre pellicole di grande suggestione, dove regna un’atmosfera ricca di sensualità, particolarmente adatta a storie di lussuria e di perdizione, temi preferiti del cinema di allora.
Nel 1916, non solo l’America, ma anche l’Europa, che aveva già adottato questo nuovo ballo con tutti gli onori del caso, sogna al ritmo di una canzone che il cinema aveva reso celebre: la Cumparsita, che in questo miscuglio di razze e di culture, emette il primo vagito diventando una canzone conosciuta in tutto il mondo, che ancora, dopo cento anni, è l’icona del tango per antonomasia.
La Cumparsita
Il re dei tanghi, come sarà sempre chiamato, farà ballare, sognando, intere generazioni in tutto il mondo, con la sua musica malinconica e i suoi violini laceranti, che sono l’anima della musica tanguera.
Nasce per puro caso nel Carnevale di Montevideo del 1915, quando lo studente compositore Gerardo Mastos Rodriguez scrive per la sua Federaciòn de Arquitectura questa marcetta dedicata alla sfilata tradizionale che si fa tutti gli anni. L’anno dopo gli stessi studenti danno al loro compagno Roberto Firpo il compito di trasformare la marcetta in tango.
Il debutto della Cumparsita però avviene nel 1916 nel caffè La Giralda di Montevideo, con un’orchestra diretta dallo stesso arrangiatore. Il nome della canzone sembra che sia d’ispirazione spagnola, ma alcuni studiosi argentini della storia del tango documentano, nel corso degli anni, che il suo nome deriva da “comparsa”, tramutato dagli immigrati siciliani in “cumparsa”(dialettale) da cui “cumparsita”, trattandosi di una giovane ballerina delle sfilate di Carnevale per la quale i suoi compaesani vanno in giro per chiedere qualche monetina.
Maestri, musicisti, poeti
Una menzione d’onore meritano senz’altro i due più grandi maestri di questo ballo che rappresentano due scuole di pensiero del tango argentino. Il primo è Atahualpa Yupanqui, contadino indio-spagnolo, caposcuola del folclore argentino, mentre il secondo è Astor Piazzolla, immigrato italiano, caposcuola di un tango nuovo che esplora ogni risorsa interna alla musica.
Fra i musicisti, interpreti e compositori del tango, che hanno scritto melodie eterne, è giusto ricordare Julio e Francisco de Caro; Francisco Canaro; Juan D’Arienzo; Carlos Di Sarli; Osvaldo Pugliese e lo stesso Carlos Gardel.
Tra i poeti del tango, che hanno scritto storie immortali meritano una doverosa menzione Alfredo Le Pera (Mi Buenos Aires querido, 1933; Volver, 1935; Por una cabeza, 1935); Pasqual Contursi (Mi noche triste, 1917), Enrique Sante Discepolo (Cambalace, 1935; Yra Yra, 1930; Uno, 1941); Angel Volloldo (La Morocha, 1905; El Choclo, 1904); Carlos Cesare Lenzi (A media luz, 1924).
La leggenda del tango argentino
Il 30 settembre del 2009 l’Unesco annuncia a Roma l’inserimento del tango argentino nel patrimonio culturale dell’umanità. Ma il tango argentino, ancora oggi, dopo più di un secolo, è soprattutto lui: Carlos Gardel, l’ultimo mito vivente di un’Argentina che ha ancora nel cuore lui e la leggendaria Evita, moglie dell’ex presidente della Repubblica Juan Domingo Peròn, che sono l’orgoglio (e il rimpianto) di 35 milioni di abitanti, con l’85% di origine europea.
Il presidente Menem, elevando il tango “ad arte nazionale argentina” vuole anche sublimare il nome del compianto Gardel, perito in un incidente d’aereo il 24 giugno del 1935, mentre si trova a Medellin in Colombia su un aereo che esplode in fase di atterraggio. E dopo 45 anni dalla sua scomparsa, la tomba di Carlos Gardel è ancora meta giornaliera di ammiratori e ammiratrici che vanno a rendergli omaggio nel cimitero di Chacarita, a Buenos Aires, dove qualcuno, da 45 anni a questa parte, ogni mattina, va a posare una rosa rossa sulla sua tomba, dove è stata eretta una sua statua, a grandezza naturale, con papillon, sigaretta e sorriso accattivante.
Con la sua morte, avvenuta come in una canzone triste e disperata, incomincia la leggenda del tango argentino.