Ritratti. Bova, mastro Pasqualino il bottaio
- Franco Borrello
Erano arrivate parecchie bottiglie di vino a casa di Mastro Ciccio Borrello. Come ogni anno, a San Martino. Lo ddhiggnavanu sempre per importellare le botti e poi, a San Martino si cacciavanu la bbligazioni, si disobbligavano. Anche a casa degli altri falegnami era arrivato parecchio vino ma da Mastro Pasqualino no! Lui non aveva importellato nemmeno una botte quell’anno.
Importellare una botte oggi è un’operazione relativamente semplice grazie alla porteddha alla palizzitana. Una volta, invece, bisognava saper lavorare di martello e di scalpello senza taglio, di stoppa e di sivu, ma, soprattutto, bisognava essere abili nell’inserire nel foro della portella la feddhula tagliata in due metà. A suo tempo, una metà sarebbe stata estratta e l’altra spinta all’interno della botte con l’inserimento della spinnozza. Insomma: ci voleva un esperto! E Mastro Pasqualino lo era. Ma era anche un grande comico: una sorta di Angelo Musco locale, un Totò dei poveri. Dotato di travolgente comicità frutto d’improvvisazione, scoppiettante, briosa, sorprendente e, a volte, con qualche uscita dal seminato. Aveva un ricco repertorio di imitazioni e macchiette e prendeva allegramente in giro uomini e donne, amici e parenti, preti, santi, autorità e, quand’era il caso, anche sé stesso. Uno spasso! La gente non si stancava mai di ascoltarlo. E cosi per un lavoro di venti minuti se lo teneva mezza giornata.
Ma Mastro Pasqualino era anche un fine ebanista e col suo lavoro ci doveva campare: non poteva perdere il suo tempo appresso alle botti e alle barzellette. Così, quell’anno, ne aveva pensata una delle sue. Aveva chiamato Giombattista, il banditore, e aveva fatto jettari lu bandu così: Cu havi buuutti di mportedhaaari mi chiama a Masciu Pascalinu Burreeellu a cincu liri l’uuuna!
“Cinque lire? Ma che esagerazione! Ma che è uscito pazzo Mastro Pasqualino?”. E per quell’anno non lo chiamò nessuno. Ma nessuno gli mandò il vino. Così Mastro Pasqualino andò alla Punti, da suo fratello Mastro Ciccio, a trascorre il San Martino in compagnia. C’era tutta la famigliola più alcuni parenti e qualche vicino. Stavano arrostendo salsiccie. L’arrivo di quello sciampagnuni di Pasqualino fu salutato con entusiasmo. Mastro Ciccio era un brillante ed avvincente narratore, dotato di sottile ironia e fine umorismo, ma, quando c‘era il fratello, gli cedeva volentieri la ribalta. Perciò si limitò a raccontare del più bel viale di Messina, il Vale San Martino, ricostruito dopo il terremoto con una colletta fra tutti gli ubriaconi della Sicilia. E raccontò pure di quel suo compagno d’America, di quel Mastro Martino tanto devoto al santo di cui portava il nome che ad ogni bicchiere recitava questa preghiera:
O vinellu, meu benignu,
sia allu vitru chi allu lignu,
pe’ lu Santu chi t’aduru
non ti dassu ma ti sculu!
Per il resto della serata tenne banco Mastro Pasqualino. Raccontò e racconto tanto e tanto pure bevve. Era ormai notte quando si decise a rientrare a casa. Si infilò nel letto piano piano cercando di non svegliare la moglie. Ma Parmuzza se ne accorse lo stesso e non ebbe bisogno di accendere il lume per capire che aveva bevuto. “Pascalinu, scasciu, ma tu hjavuri di vinu!”. E lui: “E ca certu! Ca chi mbivia, petroliu…?!”.