San Luca. Il massacro del 1806 ad opera dei francesi
- Antonio Strangio
La storia di San Luca è piena di titoli e di date che nel corso dei secoli hanno segnato, ora in positivo ora in negativo, le sorti della comunità sanluchese.
L’assalto francese del 1806
Tra le pagine negative, un cenno meritano le date del 16 e del 20 dicembre 1806, allorquando l’esercito francese che da tempo aveva assediato e occupato quasi tutti i paesi della Calabria, di passaggio a San Luca, si macchiò di due omicidi e un eccidio, che l’indifferenza dei media, e soprattutto degli storici, tentò di cancellare definitivamente.
Un comportamento assurdo che rischia di uccidere una seconda volta chi, in quel giorno triste e nefasto, fu invece trafitto dalla furia dei soldati francesi che non si fermarono davanti a niente e a nessuno, innescando una battaglia senza esclusione di colpi che lasciò sul terreno sette cittadini di San Luca. Nessuno ha mai saputo se da parte francese ci siano state delle perdite, anche perché la storia viene scritta quasi sempre dai vincitori…
Una battaglia terribile e ingiustificata, resa ancora più cruenta e “vigliacca” perché, in quell’occasione, i soldati francesi non si limitarono soltanto a uccidere quanti tentarono di ostacolare la loro avanzata, ma addirittura saccheggiarono la piccola chiesa di San Sebastiano, prima di uccidere l’arcivescovo Saverio Calipari, il quale, nel tentativo di difendere il Santissimo dal saccheggio francese, fu decapitato con un colpo di spada da un fantaccino transalpino.
Qualche settimana prima, in località Cabelli, uccisero una donna che stava trasportando sulla testa una fascina di legna, perché non si era fermata ad un loro comando. Un comando ordinato in lingua francese che la donna non poteva capire e che per questo gli costò la vita.
Da allora quella zona è stata ribattezzata “Rocca da mara ‘Ntonia”.
Un’assurda giornata di guerra, sulla quale a distanza di anni ha messo ordine e ristabilito la verità un convegno voluto dalla Fondazione Alvaro e la parrocchia Santa Maria della Pietà, affidato ad esperti di storia locale, i cui atti, pubblicati da poco, contengono l’ultimo contributo di uno dei figli più illustri di San Luca: padre Stefano De Fiores, tornato alla casa del padre il 16 aprile del 2012.
Il convegno della Fondazione Alvaro
Un libro, per diventare tale, deve avere una storia e un autore che si assuma il compito di raccontarla. Può avere anche più autori che, dopo aver indagato un periodo della storia, decidono prima di presentare il loro lavoro sotto forma di convegno, e poi di passare alla seconda fase costituita dalla pubblicazione di quelli che nascono come relazioni o atti.
È il caso di questa nuova pubblicazione curata dalla Fondazione, che ben racconta un periodo particolare della storia di San Luca, inserito nel contesto del Decennio francese che tanti danni e lutti ha portato in Calabria.
Il mio compito non è quello di prendervi per mano e condurvi tra le pieghe delle varie relazioni, affidate ad esperti di storia locale che, prima ancora che esperti, della nostra storia sono profondamente innamorati, altrimenti non avrebbero potuto ricostruire un periodo del nostro tempo che, come sappiamo tutti, richiede anni di lavoro, sacrifici, ricerche, indagini, consulti.
Io devo solo raccontare e registrare la bellezza della giornata, l’importanza che ha per la comunità di San Luca, l’interesse misto a curiosità del pubblico intervenuto, sulla quale nulla ha potuto né il pressappochismo, cioè il disinteresse degli organi d’informazione, né l’intrusione gratuita e illegittima di un assessore provinciale, che ha avuto l’ardire, ma sarebbe più giusto dire sfrontatezza, di affermare che è giunta l’ora di smetterla con i convegni e passare ai fatti, come se questi ultimi spettino a chi ha scelto per studio o per passione di sottolineare la storia, e non a chi invece è stato scelto dal popolo per farsi rappresentare nell’ambito della società politica, e di pari passo affrontare e risolvere gli annosi problemi che attanagliano e gravano sui nostri paesi. Mi azzardo ad andare oltre.
Nel tentativo di fare capire che se è vero che la storia di San Luca si fonda su diversi “eccessi”, attraverso questo lavoro e questa pubblicazione si vuole ricordare a tutti che la comunità di San Luca non può essere legata, per nessuna ragione al mondo, solo ai fenomeni negativi, ma bisogna andare oltre, e facendo prevalere ed eccellere la bellezza e la forza soprattutto della cultura, guardare al vecchio paese di Potamia come a un paese e una comunità dove il bello e il bene superano di gran lunga il brutto e il male, e per questo meritano le prime pagine. E non viceversa.
Il libro che fu il sogno di padre Stefano
Questo libro, stampato presso la tipografia Spataro di Ardore, vuole essere un elogio della memoria, e raccontarci e ricostruire due delle pagine più sanguinose che hanno interessato il nostro piccolo e tanto chiacchierato paese. Pagine nere raccontate e ricostruite tra mille difficoltà, un monito di chi ripudia la guerra come strumento di offesa dei popoli, un tentativo nobile quanto legittimo di fare chiarezza all’interno di un avvenimento che non tutti conoscono e che vale la pena di essere divulgato, perché soltanto se conosciamo il nostro passato possiamo dare vita al nostro futuro, e soltanto raccontando i fatti così come furono, terribili e devastanti, possiamo sperare di non dover mai più registrare episodi che non dovrebbero far parte della storia dei popoli. Di qualsiasi colore o estrazione essi siano.
Questo libro vede la luce a distanza di poco meno di tre anni della morte di padre Stefano De Fiores, il “Cantore di Maria”, il mariologo per eccellenza, che a questo volume ha dato il suo grande e qualificante contributo, forse l’ultimo. Almeno per quanto riguarda la ricerca storica e culturale.
Una settimana prima della sua improvvisa morte, lo incontrai vicino al palazzo municipale dove si era recato per salutare il sindaco e tutti i dipendenti che vi lavoravano. Faceva parte del suo stile di vita e di quel grande amore che lo legava al suo paese e alla sua gente. Lo salutai con deferenza e lui, chiedendomi con garbo tutto paesano chi fosse la persona che stava con me, mi chiese lumi sul libro. Voleva sapere se i relatori avevano consegnato la relazione. Chi doveva ancora farlo. A che punto eravamo.
«Bisogna fare in fretta, non possiamo perdere altro tempo. E mi raccomando – disse, mentre si intratteneva con le persone che si erano avvicinate per salutarlo e per domandargli come stava – controlla bene tutto, pagina per pagina e poi mi mandi la bozza a Roma». Voleva sapere che carta avevamo scelto, che tipo di copertina, quante foto si potevano inserire. Parlava e sembrava avesse fretta, come se non ci fosse altro tempo a disposizione e che i giorni erano pochi «Parla con Bruno e Fortunato, e poi fatemi sapere!».
Una settimana dopo padre Stefano ci lasciò, ma aveva fatto in tempo a consegnarci la sua relazione che, come al solito, era bella e confezionata. Pronta per la stampa. Noi ci siamo riusciti, per tutti una serie di motivi diversi, molto tempo dopo. Ma anche se con ritardo, che poi è il ritardo di chi vuole fare le cose per bene, perché non è mai convinto di quello che fa e perché ha molto rispetto di chi poi leggerà il libro, non potevamo fare altro che dedicarglielo. Inchinandoci alla sua grandezza e alla sua grande umiltà. Che erano e sono valori che soltanto i grandi come Lui potevano possedere. E noi gli siamo grati per tutto quello che ci ha lasciato, per tutto quello che ci ha insegnato e per tutto quello che ha fatto per il nostro paese e il mondo intero.