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San Luca. La Rocca di Marantona

  •   Fortunato Nocera
San Luca. La Rocca di Marantona

L’estate era finita da qualche settimana e tuttavia la calura non accennava a diminuire. Era ormai ottobre inoltrato, ma l’aria che alitava nella valle e sull’altipiano era la stessa di quella di fine agosto.

I “massari” avevano aspettato invano la pioggia provvidenziale, che gli altri anni arrivava puntualmente subito dopo la festa della Madonna della montagna; i terreni, aridi e secchi per la lunghissima estate, non erano, perciò, pronti per l’aratura in preparazione della semina del frumento in pianura e del “jermano” in montagna.

Da un mese circa erano terminati i pellegrinaggi e le fiere nei paesi limitrofi: Crocifisso, Bianco, Casignana, Polsi. Ora si aspettava l’ultima fiera prima dell’inverno, quella della festa di San Luca, fra una diecina di giorni. Sarebbero arrivati, dai paesi vicini, i “massari” con le loro bestie: vacche, pecore, maiali, capre ed i torelli infiocchettati per attirare l’attenzione dei rigattieri e dei macellai, e gli zingari con i loro asini e le giumente, i tripodi, le lumiere e le graticole.

Nelle “vinelle” del Borgo molte famiglie consumavano ancora il magro pasto all’aperto, attingendo tutti nello stesso tegame di coccio: nei tuguri, senza finestre, il caldo era insopportabile. I ragazzi, immersi nei giochi, come fosse un in serio impegno di lavoro, saettavano sudati a torso nudo, rincorrendosi e vociando allegramente, alimentando la consueta gazzarra, che teneva allegro il paese, ma infastidiva alcuni vecchi brontoloni che indirizzavano loro ogni sorta di imprecazione.

Da secoli il ritmo di vita del villaggio era sempre lo stesso, scandito dai passaggi climatici e dai tipi di lavoro stagionali. Solo la vita dei pastori era sempre uguale, in montagna dietro il gregge; d’estate all’aperto, d’inverno riparati nella capanna vicino al fuoco.

Da alcuni giorni corse per il villaggio la voce che per le montagne si aggiravano gruppi di militari. Non erano soldati del Re che, d’altronde, da queste parti non si vedevano mai, ma stranieri venuti da lontano che vestivano con giubbe rosse e strani copricapo. Non parlavano napoletano, ma una strana lingua, simile al tubare dei colombi in corteggiamento. Nel paese si diffuse una vigile inquietudine: i “massari “ affilavano le loro accette e preparavano i forconi. Non c’erano altre armi nel paese. L’unico che possedesse armi da fuoco, il marchese feudatario, era assente per molti mesi dell’anno, avendo un palazzo a Napoli ed una villa a Placanica, altro suo feudo. I villani erano vigili, ma non atterriti, giacché mai era successo qualcosa che turbasse la secolare quiete della vallata del Buonamico.

Prassede tornava dalla montagna dove era stata a trovare il marito ed il figlio nel loro ovile sull’altipiano. Per strada non aveva incontrato nessuno. Aveva incrociato solamente il mulattiere del prete del paese che conduceva tre muli, carichi di uva appena vendemmiata, al palmento di Cicerati per la pigiatura, giacché la vendemmia quest’anno era stata precoce a causa della lunga siccità. Prassede portava in testa un fascio di legna secca, una “truscia” con i panni da lavare e, nel grembiule, ravvoltolato a mo’ di tasca, poche castagne raccolte camminando. Procedeva con l’andatura rapida e saltellante delle donne avvezze a percorrere i viottoli di montagna, ed il suo incedere, pur sotto il peso del fardello, era elegante ed altero. Non guardò neppure dalla parte della collinetta di Sanna dove erano accampati i soldati francesi di occupazione; allungò istintivamente il passo. Il vociare gutturale e sinistro della truppa ubriaca l’atterrì. «Arretez vous, femme!» sentì gridare alle sue spalle, con voce imperiosa, senza capire il significato delle parole. Il suo saltellare divenne più spedito e le dita strinsero più fortemente il fascio di legna, per la paura. Uno sparo, più volte replicato dall’eco della valle di Jiha, trafisse il caldo meriggio autunnale. Prassede cadde bocconi. In pochi attimi il suo sangue si sparse tutto intorno divenendo nero al contatto con l’arida terra. Il cadavere fu raccolto solo a notte avanzata. Il luogo del barbaro omicidio è ancora oggi ricordato come “la Rocca di Marantona”. Sulla roccia c’è segnata una croce e una data.

Il prete Piteri annotò nel registro parrocchiale, alla data 8 ottobre 1806: Praxedes Strangio uxor iam Stefani Mammoliti a.32 circiter, a Gallis interfecta.


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