Sant'Eufemia d'Aspromonte. Un'antica storia d'amore
- Giuseppe Pentimalli
In una depressione del terreno, in zona Vecchio Abitato del paese di Sant’Eufemia d’Aspromonte, scorre un ruscello che d’estate è quasi sempre al secco e d’inverno si ingrossa a seconda dell’abbondanza delle piogge.
Sulle sue rive i contadini del luogo costruirono le loro abitazioni, anche perché era comodo in passato, quando non c’erano fogne bianche o nere, scaricare nel ruscello acqua fetida e qualunque altro genere… di rifiuti non utilizzabili sul piano del riciclo economico-sociale.
U hiumi a Pera
Il ruscello in gergo è detto u hiumi a Pera dal nome della contrada sita sulla sua destra nei pressi del paese. Sulle carte topografiche è riportato con la denominazione “Marino”, che deriva dall’espressione dialettale hiumi hiumarinu con cui gli abitanti del luogo lo designavano in occasione di grandi piene invernali. Per mettere in sicurezza le case site sulle sue rive, nel secolo XIX fu decretata la copertura del tratto che attraversava il paese con una volta, in gergo chiamata lamija.
Sulla riva destra del ruscello, nel punto dove iniziava la copertura a volta dall’alto verso il basso del suo corso e c’erano le prime case del paese cosiddetto “vecchio”, c’era una sorgiva d’acqua fresca, che fu debitamente ncatusata, cioè convogliata in tubi d’argilla e fatta confluire in due grandi canali fissati ad una fontana monumentale, preso cui la gente andava a rifornirsi del prezioso liquido. Ovviamente non c’era rete idrica nel paese e in prosieguo di tempo dietro la fontana furono create delle vasche, con scarico nel ruscello, dove le donne andavano a lavare i panni, quando ancora non c’erano le lavatrici elettriche.
Il “palazzo” dei nobili
A circa 100 metri dalla fontana con lavatoio pubblico c’era il cosiddetto “palazzo” di una famiglia nobile del luogo. Le donne delle famiglie nobili del secolo XIX non potevano uscire di casa se non per partecipare a cerimonie solenni, religiose o civili che fossero, e comunque tenute accuratamente sotto controllo dai maschi del casato. Un giorno un giovane contadino, vestito con l’abito delle feste, prese un paniere di ciliegie, che aveva raccolto di prima mattina, e andò al “palazzo” dei nobili, che erano proprietari del terreno che egli coltivava, sicuro che avrebbero accolto con piacere l’offerta.
Bussò al portone ed andò ad aprire Clementina, una ragazza di circa vent’anni. Lo fece accomodare nel salotto ed andò a chiamare la madre, la contessa di famiglia, che, non appena vide le ciliegie, cominciò a mangiarne avidamente. La figlia l’osservava e rideva e poi disse al giovane contadino: «Se non gliele tolgo davanti le mangerà tutte!». «Nessun problema - disse il contadino - domani ne raccoglierò altre».
Clementina guardava quel giovane a suo modo elegante e ad un tratto gli chiese: «Posso venire a vedere come si raccolgono le ciliegie?» «Certo, se vuole venire, domani mattina l’aspetterò nella casa colonica».
Clementina era stufa delle ipocrite convenzioni sociali che imponevano ad una donna del suo rango di guardare con distacco i contadini, come se fossero cittadini di serie C.
Il contadino
Vincendo le resistenze della mamma, gli uomini di casa erano fuori paese per motivi politici, la mattina seguente andò a trovare in campagna il “suo” giovane contadino, non certo interessata alle ciliegie, ma alle fattezze ed alla rude forza di chi era abituato a lavorare sodo e non a campare a sbafo. Scambiatesi alcune frasi di circostanza e di cortesia, Clementina chiese a bruciapelo al giovane: «Vuoi farmi vedere come bacia un contadino?». Egli, sorpreso per la proposta, ma non insensibile al fascino femminile, la baciò sulla bocca con ardore. Ella, soddisfatta e felice, gli disse: «Mica male!».
Andarono poi a raccogliere le ciliegie e, quand’egli voleva cambiar vestito per portargliele a casa, Clementina gli disse sospirando: «Pesano poco, posso portarle io! I tuoi baci sono certo più pesanti!». Si baciarono a lungo, poi ella si avviò al “palazzo”, dopo avergli promesso che si sarebbero rivisti presto.
Sotto l’albero di noci
Qualche giorno dopo Clementina, eludendo qualsivoglia tipo di sorveglianza da parte dei suoi, andò a trovare il suo ragazzo nell’orto ubicato a monte delle vasche della fontana monumentale.
Dopo aver scorazzato un po’ per i prati, egli le propose di sedersi all’ombra di un grande albero di noce, che con i suoi rami lambiva quasi la fontana, per non sentire troppo la calura estiva. La scena era veramente idilliaca e gli innamorati erano contenti di esprimere con effusioni sentimentali la loro gioia di vivere.
Ad un tratto Clementina chiese al contadino: «Siamo sotto un albero di noce, ma in dialetto il noce come si chiama?». Egli rispose «A nucara». Ella, guardando in alto come estasiata, disse: «Ma chista nucara esti beḷḷa!». «Si - disse lui - esti propriu beḷḷa com’a tia!». Andarono poi nella casa colonica e fecero l’amore nel tripudio dei sensi e noncuranti delle possibili chiacchiere della gente. D’allora si videro più spesso vivendo intensamente la loro giovinezza.
Le nozze
Quando Clementina disse alla madre ch’era in dolce attesa, si misero d’accordo per spuntare le ire dei maschi della famiglia. Furono concordate le nozze di Clementina con il “suo” giovane contadino, in barba a qualsivoglia convenzione sociale stereotipata, e nessuno in paese ebbe da ridire, anche perché le famiglie nobili erano ormai in decadenza e i loro sogni di gloria erano svaniti da tempo. A nucara beḷḷa oggi non c’è più, anche se altri alberi di noce crescono floridi nei pressi, ma l’espressione è rimasta come toponimo della zona, della fontana ancora esistente e, in forma italianizzata “nucara bella”, relativamente alla via creata sulla volta, o lamija, del torrente Marino.