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Scoperta archeologica. Il Monastero di San Teodoro

  •   Pino Macrì
Una vista della pianta dell’antico monastero, clicca per ingrandire. Monte Varraro, Benestare Una vista della pianta dell’antico monastero, clicca per ingrandire. Monte Varraro, Benestare

È la mattina dell’8 settembre 1594: la rossa palla di fuoco ha iniziato da poco a far capolino dal placido e silente orizzonte della costa jonica reggina, e, subito, è chiara a tutti gli abitanti dei centri collinari disseminati su quella martoriata fascia costiera l’agghiacciante realtà: quelle decine di puntolini neri, ingrandendosi man mano che si avvicinano alla costa, non possono che essere imbarcazioni di pirati turchi! D’altronde, quel miserabile tratto di costa ormai dai remotissimi tempi magnogreci aveva smesso di avere interesse alcuno per chiunque, se non per la carne umana da macello utilizzabile nelle guerre (mai fatte a loro vantaggio), e, quindi, anche allora era del tutto indifeso.

Agli abitanti di Ardore, Bianco, San Nicola, Montepaone ecc. non rimane che la fuga per sfuggire al sacco o al rapimento, con annessa riduzione in schiavitù. Se ne rendono ben conto, ovviamente, anche gli abitanti di Bovalino, che, senza perdere tempo, approntano l’unica difesa possibile: gli inviolabili contrafforti aspromontani. Inizia, come è facile immaginare, un fuggi-fuggi doloroso quanto frenetico. “Ognun per sé e Dio per tutti”, deve essere stato il più probabile dei proclami. A piccoli gruppi, in cui il collante era magari soltanto rappresentato dai più stretti vincoli di parentela, si dirigono per lo più verso i boschi inaccessibili della montagna, dove attendere in sicurezza di poter far ritorno agli averi (o a quel che ne sarebbe rimasto dopo il provabilissimo, anzi sicuro, sacco) abbandonati in fretta e furia. Alcune famiglie decidono di dare retta ad un carismatico monaco: si chiama Teodoro, ha dedicato la propria vita alla contemplazione ascetica, e conosce un monastero abbandonato in un luogo impervio e praticamente inaccessibile in cima al monte Varraro. Il monte e in realtà una collina di appena 640 metri di altitudine massima, ma interamente ricoperto di querce da ghianda, che nascondono completamente alla vista l’antico asceterio. Qui riparano alla mala sorte, e qui Teodoro si stabilisce definitivamente, fino alla morte, che lo coglie “in odore di santità”. Fin qui una leggenda, che ho personalmente ascoltata sin da bambino nelle lunghe serate invernali attorno al braciere (il televisore era ancora di là da venire, a guastare il dolce sapore di quei fantastici racconti). Poi, qualche settimana fa, l’amico Gianni Pascale mi mette a parte di una segnalazione ricevuta da un abitante di Careri (nel frattempo, il monte Varraro, con il riordino amministrativo murattiano, rientra in parte in territorio comunale di Careri, in parte di Benestare): vi sono dei ruderi, lassù, scovati durante l’esecuzione di lavori di metanizzazione nei paraggi. Arrivarci non è per nulla facile: ad un certo punto i sentieri spariscono ed il fuoristrada che ci trasporta deve procedere a lungo con la ridotta, per riuscire ad inerpicarsi.

QUASI UN’ORA di viaggio per percorrere 4-5 km da Benestare, ma dopo un fittissimo bosco di querce ed una radura che ti apre il cuore per la sua bellezza incontaminata, entriamo nuovamente in un’area boscosa. Fermiamo il mezzo e proseguiamo a piedi per qualche centinaio di metri, e lì, dopo aver attraversato un muraglione, che chiaramente non è un’ “armacera” di recente fattura, arriviamo su un pianoro protetto su tre lati da profondi dirupi, con numerose querce su ogni lato a nasconderne completamente la vista dall’esterno. Lì, vicino ai bordi Sud ed Est, emergono improvvisamente i tanto ricercati ruderi. L’altezza di più di un metro, e la compattezza di quei resti, non pongono alcun problema di lettura: si tratta con ogni evidenza di un edificio cultuale, triabsidato e trinavato. Solo l’angolo sud-ovest è ridotto a poco più di una traccia sul terreno, peraltro ancora leggibile. Tiriamo per prima fuori una bussola e, subito, una importante conferma: l’asse della navata centrale è perfettamente collocato sulla direttrice Est-Ovest, con l’abside perfettamente orientata ad Est. Eseguiamo quindi una localizzazione accurata con il GPS, e, poi, una prima ricognizione tutt’attorno al manufatto. Subito colpiscono due elementi per così dire “fuori luogo”: all’interno della navata settentrionale vi è stata eretta una cisterna (i suoi muri perimetrali sono in maniera evidente distinti da quelli dell’edificio, e la sua profondità va ben oltre il piano di calpestio), con copertura a volta in parte crollata, e le pareti interne rivestite di intonaco impermeabile (qualcosa di simile, in riguardo all’intonaco, è emerso durante i recenti lavori di restauro condotti al Castello di Bovalino Superiore); all’esterno della navata meridionale, invece, proprio all’angolo Sud-Est, due piccoli ambienti, al momento privi di un visibile varco di accesso, di fattura anch’essa diversa da quella dei resti murarii principali, e con i muri non ammorsati in essi, ma palesemente disgiunti. Fra il fronte delle absidi ed il limite del precipizio sul lato Est, a poca distanza, una traccia muraria rettangolare allungata, forse un ambiente ad apparente destinazione abitativa.

TUTTI QUESTI primi, sommari indizi, lascerebbero pensare ad una coerenza con almeno una parte della leggenda, quella riguardante il riutilizzo dell’antica struttura a fini abitativi: sull’esistenza del monaco Teodoro, infatti, niente più della leggenda sopra narrata esiste di documentato. Anzi, dal pochissimo che sull’argomento è stato sinora reperito e pubblicato, le direzioni più probabili da perseguire per identificare almeno con buona approssimazione l’edificio sono da ricercare nella citazione di una Chiesa di S. Teodoro del 1427 (D’Agostino, 2004: il che, tra l’altro indicherebbe la preesistenza dell’intitolazione al Santo in questione già in epoca ben antecedente a quella della leggenda) o nell’ipotesi che possa trattarsi di S. Maria de’ Randalibus (Minuto, 1977, laddove lo stesso Autore sembra concordare col fatto che Randalibus potrebbe essere una sorta di corruzione di Glandaribus, cioè, approssimativamente, luogo di querce da ghianda). Conferme ben più decisive non potranno che venire al termine degli studi di Soprintendenza ed archeologi.

A NOI, COMUNQUE, rimane la consapevolezza di avere ancora una volta confermato che la nostra terra è un po’ come il Kuwait: lì, dovunque buchi trovi petrolio, qui, testimonianze di antichi fermenti culturali che fecero dire al Lascaris nella lettera indirizzata ad Alfonso II per magnificare le qualità della terra da cui quegli aveva ereditato il titolo di Duca: “[…] se io volessi spiegare di quante di queste cose la Calabria abbondi, mi sarebbe necessario scriverne un volume fin troppo grande. […] e così, con l’esempio di tanti saggi che la Calabria generò, io possa spingere te, giovane di grandissime speranze, alle vette delle virtù e al desiderio di cose eccelse”.


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