Stato e 'ndrangheta. Un sacro, cruciale confino
- Cosimo Sframeli
Quando il consigliere comunale Nicola D’Agostino, già sindaco di Canolo, subì la condanna a 3 anni e 6 mesi di confino, i senatori Musolino (Pci) e Minasi (Psi) energicamente protestarono, affermando che l’ex sindaco di Canolo, sottoposto al giudizio della commissione provinciale, era vittima di un’ispirazione settaria e discriminatoria di non giustificata finalità. Altri provvedimenti di confino riguardarono Vincenzo Trimboli, sindaco comunista di Ciminà, e l’assessore comunista Vincenzo Pietropaolo di Sinopoli. Il Partito presto assunse una posizione che si collocava su un piano polemico e, sotto lo stimolo di Mario Alicata, lanciò un’offensiva propagandistica con interpellanze parlamentari, comizi e una serie di articoli su l’Unità.
Fu così messo in discussione l’uso del confino come strumento politico. A questo proposito, Enzo Ciconte riporta documenti d’archivio, a firma del questore Carmelo Marzano che, a proposito delle vicende del D’Agostino, così scriveva al Ministro Tambroni: “Hanno aperto gli occhi i cittadini di Canolo per cui è lecito sperare che, se i fatti emersi saranno opportunamente sfruttati in sede politica, alle prossime elezioni amministrative quel Comune potrà essere strappato agli estremisti di sinistra”. In contemporanea, a Gerace, bellissimo paese all’estremo limite nord dell’Aspromonte orientale, vi era un’alleanza politica tra il partito repubblicano locale e le sinistre, restii a seguire le alleanze nazionali.
I motivi erano da ricercare nelle beghe paesane e nei personalismi che prevalevano nel Meridione d’Italia sulle considerazioni politiche ed ideologiche, così riassunte in un biglietto autografo del prefetto di Reggio Calabria al sottosegretario di Stato: “Caro Mazza, in relazione al colloquio telefonico, invio un rapporto sulla situazione del Comune di Gerace. Ho tenuto quel Comune per un anno e mezzo in quarantena, negando i contributi, assistenza, interventi: mi auguro che il sindaco, il quale ha avvertito la conseguente situazione di disagio, si decida al passo suggeritogli. Cordialmente tuo, Pietro Rizzo”. Fu evidente, le autorità dello Stato non erano imparziali. Coordinavano politicamente i piccoli potentati locali calabresi senza assumersi la responsabilità del conseguente degrado, che veniva addebitato allo strapotere della Democrazia cristiana, seppur a Gerace non vi fosse una sezione politica né persone su cui si potesse rivalere una sorta di disciplina del partito.
Quasi come ad Africo vecchio, abbandonato dopo l’alluvione del 1951, dove la sezione della Dc, come partito, non c’era mai stata. Il sacerdote aveva i suoi accoliti che chiamava democristiani, ma fu nel paese nuovo a essere aperta la sede. Negli anni ‘70 il “collaboratore di giustizia” Giovanni Gullà rilasciò le seguenti dichiarazioni: «Nella zona di Africo coesistevano due tendenze opposte tra loro, e per gli interessi politici e per interessi mafiosi». Nell’operazione anticrimine che portava il suo nome, Marzano dava particolare importanza all’uso delle ammonizioni e del confino. Utilizzare le misure di prevenzione non fu una sua idea, ma una precisa linea imposta da Roma, dal ministro dell’Interno Tambroni.
Così, nella prima riunione della commissione composta dal questore Marzano, dal prefetto Rizzo, dal maggiore dei carabinieri Elia, dal giudice Cento, dal procuratore della Repubblica Madera e dall’avvocato Catalano, furono mandati al confino otto capi mafia. Dopo pochi mesi, i confinati diventarono quarantadue e dieci gli ammoniti. L’avvocato Catalano era, secondo l’Unità, il legale-difensore dei più noti mafiosi della provincia e, nella sua attività di membro della Commissione, mostrò fin dal principio una certa indulgenza nei riguardi di qualcuno. A tal proposito, il prefetto Rizzo si rivolse all’arcivescovo di Reggio Calabria affinché esortasse il Catalano ad assolvere con maggior impegno e senso di responsabilità il suo compito. L’avvocato ubbidì, assumendo un contegno silenzioso e limitandosi a votare i provvedimenti decisi dagli altri, fino al momento dell’esame della proposta di confino per Antonio Macrì. Prima che fosse ammesso al cospetto della Commissione, l’avvocato affermò che anni addietro il vescovo di Locri, monsignor Perantoni, aveva scoperto ammanchi di denaro ad opera di alcuni sacerdoti di Gerace e, avendoli costretti a restituire il maltolto, determinò in costoro un forte risentimento tanto da indurli ad assoldare un sicario affinché lo sopprimesse. Il vescovo, saputa della determinazione delittuosa, si rivolse a Antonio Macrì, ricevendone protezione e difesa.
La posizione dei sacerdoti, pendeva innanzi al Sant’Ufficio, a seguito di denuncia stesa dallo stesso Catalano. La vicenda dell’onorevole Antonio Capua, sottosegretario di Stato al ministero dell’Agricoltura, fu all’origine della stessa operazione Marzano. La sua macchina, con a bordo la moglie, che viaggiava su una strada aspromontana verso la residenza di Cannitello, fu presa di mira con due fucilate. Come accertato, ci fu uno scambio di vetture, i ‘ndranghetisti attendevano un’altra automobile che avrebbe dovuto portare il prezzo di un’estorsione. Ne parlarono tutti, tranne i coniugi Capua, i quali manifestarono “indubbie reticenze”. Fu Capua a intervenire presso il questore Marzano in difesa dell’indipendente sindaco di Condofuri sospettato di favoreggiamento nei riguardi del latitante Vincenzo Romeo (il bandito "romantico" dei Campi di Bova) e, perciò, sottoposto a pressanti interrogatori. Il sindaco, esortato a recedere da posizioni nelle quali era venuto a trovarsi per necessità ambientali, promise di collaborare con gli organi di polizia. Fu simile alle parole del magistrato Lo Schiavo, in Sicilia, che nell’elogio funebre a Calogero Vizzini auspicava al suo successore, Genco Russo, di indirizzare la “consorteria occulta”, la mafia, sulla via del rispetto per le leggi dello Stato e per il miglioramento sociale. Un ordinamento giuridico minore che convergeva con quello maggiore nella logica della convivenza pacifica, della complicità basata sul mutuo interesse, tipico della politica governativa dell’epoca.
La malavita calabrese, non avendo ancora la storia, il blasone e l’investitura statunitense, ebbe bisogno di una più ampia zona grigia di mediatori, il cui ruolo fu all’origine dell’operazione Marzano per colpire il vecchio notabilato reggino e la parte conservatrice del partito in favore del movimento di maggioranza. Uno scontro interno alla Dc che vide la vecchia guardia capitolare, notevolmente indebolita e sostituita dai giovani che assunsero le leve di comando. Fu la tesi di tante testate giornalistiche dell’epoca. La ‘ndrangheta, nel suo complesso, utilizzò il confino per espandere il proprio potere e stringere sempre di più legami con mafiosi siciliani nel continente. Antonio Macrì era amico personale di Angelo e Salvatore La Barbera, di Pietro Torretta, di Luciano Leggio (detto Liggio), dei Greco di Ciaculli. Aveva conosciuto, quando ancora portavano i pantaloni corti, Riina e Provenzano, a servizio del dottor Michele Navarra di Corleone. Negli anni ‘50, Michele Navarra fu confinato a Marina di Gioiosa jonica per parecchi anni, intrattenendo rapporti di affetto, amicizia e rispetto con Antonio Macrì, entrambi membri effettivi di Cosa Nostra. Il pupillo di Antonio Macrì era Domenico Tripodo di Sambatello, compare d’anello di Salvatore Riina. Nel rapporto del 26 giugno 1973, il comandante della Legione carabinieri di Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, ricordava come nel corso dell’amministrazione del governo militare alleato in Sicilia, tra mafiosi siciliani e mafiosi italoamericani, arrivati nell’isola per aiutare lo sbarco alleato, si fossero gettate le basi per il traffico internazionale di sostanze stupefacenti diretto al mercato americano.
La Calabria rappresentava un luogo ideale, per la vicinanza con la Sicilia e per l’utilizzazione di 750 km di coste che la cingevano, come sbarco per partite di sigarette o di droga. Il crimine fu bilanciato dal rinnovato prestigio e peso politico che riacquistò quando, come scrive Arlacchi: “Tra il 1943 e il 1945 i mafiosi furono nominati, dal governo militare alleato, sindaci di buona parte dei Comuni della Sicilia occidentale e della provincia di Reggio Calabria”. Mafiosi siciliani e mafiosi americani avevano interesse a creare in queste terre dei punti di riferimento sicuri e permanenti. Per realizzare ciò, si arrivò a proporre ai mafiosi calabresi di affiliarsi ritualmente a Cosa Nostra, avendo lo scopo di creare un doppio vincolo, più forte di quello derivante da un semplice patto tra mafiosi provenienti da diverse regioni.