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Storia della ‘ndrangheta. “Fummo picciotti o briganti”

  •   Cosimo Sframeli
Storia della ‘ndrangheta. “Fummo picciotti o briganti”

La mafia calabrese si è sviluppata subito dopo l’Unità d’Italia. La ricerca sociologica risalente a quel periodo è stata assorbita dall’analisi del fenomeno mafioso siciliano e, quando ha rivolto lo sguardo alla realtà calabrese, lo ha fatto basandosi sul modello mafioso siciliano e usando i medesimi criteri ermeneutici. La situazione politica e sociale della Calabria presentava notevoli differenze da quella siciliana.

Nel territorio reggino la “picciotteria” costituiva una forma di violenza paralegale di difesa personale, evolutasi sino a erodere e corrompere il potere dei rappresentanti del sistema politico-amministrativo. Il terreno culturale di proliferazione degli organismi mafiosi era stato rappresentato dalla “crisi del sistema agrario e dalla nascita di rapporti sociali parassitari che, partendo dalle campagne, avevano il loro reale teatro nelle città, nella prefettura, nel tribunale, negli uffici amministrativi, nelle sedi dei circoli elettorali” . Uno scrittore del tempo riteneva che i braccianti colpiti dalla crisi si fossero premurati a farsi picciotto credendo “che si trattasse di una società di mutuo soccorso”, in assonanza con l’ipotesi proposta da E.J. Hobsbawm, secondo la quale la genesi storica della “Onorata Società” dovesse rinvenirsi nella costituzione di una “associazione di mutuo soccorso fra persone che volevano difendersi dal potere feudale, statale e poliziesco e da private affermazioni di potere”, in epoca pressappoco contemporanea, sullo stesso modello della carboneria, con struttura e rituali propri della massoneria, non come prodotto della borghesia, ma come organizzazione “popolare di autodifesa e di tutela del sistema di vita calabrese”.

In origine, la mafia in Calabria era un’aggregazione primitiva, formata da gente umile come contadini, pastori e piccoli artigiani che, fortemente condizionati dall’arretratezza dell’ambiente in cui vivevano, ricorrevano alla prevaricazione e alla violenza per difendersi dal potere statale e per ottenere rispetto. Le fonti contemporanee segnano il momento della nascita della malavita nel decennio 1880-1890. In quegli anni una grave crisi agraria aveva colpito il Mezzogiorno, creando a Reggio Calabria un profondo malessere nella popolazione. Si era, infatti, concluso un decennio positivo determinato dall’ampliamento delle terre messe a coltura e all’attivismo della nuova borghesia dei massari che, attraverso prestiti presso il Banco di Napoli, era riuscita a trarre buoni profitti. Ma la crisi agraria aveva spazzato via tutto. La povertà dilagante e la disoccupazione avevano causato un aumento dei reati contro il patrimonio e acuito il conflitto tra contadini e borghesia terriera, che si era appropriata delle terre demaniali. Il Procuratore del Re nel Tribunale di Palmi riteneva che “questa forma perniciosissima di delinquenza collettiva sbocciata nei bassifondi di certe grandi città venne improntata in queste contrade tra il 1885 e il 1895 in occasione della costruzione della ferrovia che richiamò molti operai di diversi paesi”; altri sostenevano che “nel periodo che sorse dal 1885 al 1895 […] la malavita, la picciotteria, ché tale fu la sua indigena denominazione, era in tutto il suo rigoglio nella provincia; e quasi nessun mandamento ne era immune”. A metà del decennio, iniziavano i primi accenni alla malavita nei rapporti dei prefetti, nella sezione dedicata alla criminalità e all’ordine pubblico e ciò, oltre che nei paesi aspromontani e nel circondario di Palmi, nella stessa città di Reggio Calabria ove, nella relazione del marzo 1884, il prefetto parlava di un “nucleo di mafiosi e camorristi” e, nella relazione dell’ottobre 1886, evidenziava la difficoltà del Pretore “per timore o per un malinteso sentimento di compassione” di applicare efficacemente le misure amministrative e giudiziarie dell’ammonizione, della sorveglianza e del domicilio coatto, dirette a contrastare “le file delle criminose associazioni della maffia”.

Il rapporto tra la mafia e il brigantaggio apparve per talune manifestazioni criminali coincidenti. La mafia “divenne sinonimo di brigantaggio, di camorra, di malandrinaggio, senza essere nessuna delle tre cose o stato di cose, poiché il brigantaggio è una lotta aperta con le leggi sociali, la camorra guadagno illecito sulle transazioni economiche, il malandrinaggio è specie di gente volgare e comunissima, rotta dal vizio e che agisce sopra gente di poca levatura”. Il bandito si scagliava contro il potere costituito, spesso individuando persone specifiche, animato dallo spirito di vendetta per le ingiustizie subite, in prima persona o dalla comunità di appartenenza; il mafioso, pur infrangendo le regole del diritto codificato, rimaneva uomo d’onore e non soffriva della precarietà propria del bandito, costretto a fuggire e nascondersi, “la sua posizione è legittimata dalla morale popolare ed è particolarmente consolidata dal fatto che la sua attività non mira soltanto a soddisfare i propri bisogni, ma anche – in tutto il sistema subculturale – precise funzioni di protezione e mediazione”. Ciò non toglie che banditi e mafiosi fossero in contatto tra loro e che bande di briganti fossero al servizio dei mafiosi in cambio di ausilio durante la latitanza.

In Calabria, il caso emblematico del quale si trova traccia è rappresentato dalle vicende dell’ultimo c.d. brigante, Giuseppe Musolino. Che l’apparato centrale non conoscesse la realtà calabrese può apprezzarsi in un articolo apparso sulla stampa dell’epoca a riguardo la partenza di taluni funzionari di pubblica sicurezza alla volta di Reggio Calabria “con la missione di reprimere il brigantaggio”. Un corrispondente di Palmi della Gazzetta di Messina si domandava: «Il brigantaggio nella provincia di Reggio?» per poi chiarire come il cronista de Il Mattino di Napoli, che aveva diffuso la notizia sulle intenzioni dei due funzionari, «sia stato male informato, od abbia confuso picciotteria con il brigantaggio, malavita o mafia». Per poi specificare: «Ci vuol altro che un paio di delegati di pubblica sicurezza per la picciotteria, protetta come arma elettorale e di privata prepotenza […] spadroneggia allargandosi con quel crescendo di parecchie migliaia di affiliati”. Musolino aveva trovato sostegno nella rete degli affiliati alla picciotteria reggina come pure scrivevano i giornali dell’epoca: “Questa malavita, scambiata da qualche nostro collega per brigantaggio che non esiste a Reggio Calabria, costituendo Musolino un fenomeno singolo, e non collettivo, è stata quella che finora ha protetto e che tuttavia protegge […] Giuseppe Musolino”. Ma era chiaro che “il brigantaggio è spento, la picciotteria è ben diversa dalla camorra e dalla mafia, e Musolino sta fuori di tutto ciò”.

La picciotteria fu cosa diversa dalla mafia e dalla camorra, che erano già avvertite come entità di natura diversa. Musolino, il brigante dell’Aspromonte, ebbe il consenso e la simpatia di un intero popolo ché sentiva il peso dell’ingiustizia sociale, anche se scambiati per criteri e sentimenti selvaggi. Egli non vide intorno a sé il silenzio, la ripugnanza e l’ostilità, ed osò ad elevare la sua persona all’altezza dell’eroismo. Le attività della malavita venivano riportate in dettagliati e circostanziati Rapporti giudiziari delle forze dell’ordine.

I Carabinieri Reali di San Lorenzo, nel 1921, parlavano di un’associazione per delinquere denominata “Famiglia onorata” o “Società onorata”, composta da una sessantina di associati con una propria gerarchia che dal “capo” discendeva al “sottocapo”, al “camorrista” e al “picciotto”, suddivisa in quattro distinti nuclei, uno per ogni centro abitato: San Lorenzo centro e nelle frazioni di Chorio, San Pantaleone e Grana; ogni abitato era composto da due branche: “camorristi” e “picciotti”. I picciotti erano i nuovi battezzati che, per anzianità o per bravura, potevano essere promossi camorristi, entrando così far parte nella branca “Maggiore” della “Società onorata”. Da quanto emerge dal rapporto dei militari, il “camorrista di giornata” e il “picciotto di giornata” (denominato capo giovane) quotidianamente venivano comandati per di vigilare sui movimenti di carabinieri e polizia, nonché sulla condotta degli aggregati della branca di appartenenza. Le notizie viaggiavano gerarchicamente dal “picciotto di giornata” al “camorrista di giornata” e da quest’ultimo al “contabile” (sottocapo) o al “capo della Famiglia”. Entrambe le branche tenevano periodiche e separate riunioni indette rispettivamente dai “camorristi” e dai “picciotti di giornata”. In quelle “ordinarie”, si discutevano gli affari normali, quali collette fra gli associati in caso di mancanza di mezzi della “Società”, organizzare progetti di vendetta , assistere gli affiliati arrestati o imputati anche fornendo testimoni di favore e falsi alibi. Le adunanze “straordinarie” dei “camorristi” erano riservate all’esame di specifiche richieste dei “picciotti” di diventare “camorrista”; in tal caso il “picciotto” doveva pagare una tangente fissa per la seduta di 50 lire e un compenso per ogni “camorrista” intervenuto, calcolato in base alle possibilità dell’aspirante. In caso di benevolo accoglimento, il “picciotto” veniva promosso “camorrista”, ricevendo una stretta di mano e un bacio in fronte e, dopo esser stato reso edotto dei doveri degli affiliati, era tenuto a pagare un’altra somma da 25 a 100 lire per essere ammesso nell’ “Onorata Società”. (continua)


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