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Terremoto del 1783. Cosí fummo scacciati dai siciliani

  •   Rocco Palamara
Terremoto del 1783. Cosí fummo scacciati dai siciliani

Per capire cosa significhino i terremoti per la Calabria, basta osservare come delle tante fiorenti città magno-greche non sia rimasto in piedi neanche un muro, e dei tanti templi esistenti sussiste oggi una sola colonna: quella del tempio di Era Lacinia presso Crotone. Crollata pur essa e rimessa al suo posto.

Per i tempi più vicini il primo terremoto che viene in mente è quello che distrusse Reggio e Messina nel 1908; ma il più catastrofico fu quello del 1783 in Calabria Ultra e nel Messinese. Fu di una potenza tale che spaccò montagne, deviò fiumi, spostò colline sovrapponendole su altri siti, e fendette la terra per chilometri abbassandola o sollevandola di decine di metri. In qualche punto il suolo si aprì e si richiuse dopo aver inghiottito interi caseggiati; in altri rimasero a lungo fenditure larghe alcuni metri e di oltre 100 di profondità. Interrotte le falde sotterranee, alcune contrade s’inaridirono mentre in altri posti l’acqua prese a spruzzare da soffioni alti fino a 20 metri; formò laghi dove non c’erano mai stati e divenne imbevibile. Il terremoto si protrasse per quattro lunghissimi anni in un susseguirsi di scosse tra cui almeno altre tre catastrofiche. Ogni opera umana del versante tirrenico da Monteleone (oggi Vibo Valentia) in giù fu devastata: cancellate le strade, caduti tutti i ponti, 100 e più paesi rasi al suolo. La scossa più potente, che fu la prima, durò da 2,5 a 3 minuti e se non sterminò proprio tutti fu grazie al fatto che arrivò a mezzogiorno quando i più erano in campagna per lavoro. Tuttavia i morti censiti ammontarono a 35mila e altrettanti perirono per le conseguenti epidemie, l’acqua infetta, e le altre varie carenze sanitarie ed alimentari – causa i ritardi e l’insufficienza degli aiuti governativi. Allora al disordine geologico si aggiunse quello sociale con l’incentivarsi di furti, rapine, omicidi e col consueto risorgere del brigantaggio. In tale clima persino il santuario di Polsi, già semidistrutto dal terremoto, venne saccheggiato: furono rubati gli armenti in dotazione del convento e la statua stessa della Madonna venne spogliata degli ex-voto per un ammontare di circa un quintale tra argento e oro. L’arciprete Giovanni Palamara, appena insediato a superiore del santuario, dovette rattristarsi non poco anche per quella speciale calamità.

Assalto alla Sicilia

Ma avvenne anche una vicenda tra le più misconosciute della storia; e cioè una sorta di invasione della Sicilia da parte dei calabresi, e che fu forse la prima fatta in senso inverso rispetto alle innumerevoli dei mussulmani insediati nell’isola contro la Calabria. Quella dei terremotati calabresi si manifestò con modalità particolari sotto l’incalzare degli eventi. Nell’immaginario calabrese la Sicilia era la terra dell’abbondanza, per cui sortirono là diverse migliaia di disperati con mogli e figli appresso. Fu perciò all’inizio tutt’altro che una aggressione brigantesca ma un esodo biblico, nella speranza di avere un’occasione di lavoro o di essere almeno aiutati per non morire di fame. I siciliani però non poterono o non vollero (a seconda dei casi) soccorrerli, e ai profughi non restò che gettarsi alla macchia per vivere e sopravvivere di rapina.

Da fonti siciliane si sa che gli sbarchi avvennero in due ondate a distanza di tre o quattro anni e in corrispondenza delle scosse più disastrose. Quella più imponente fu la prima, quando, sbarcando a gruppi nelle coste del Messinese (che però era il luogo meno adatto per ricevere aiuti), i profughi risalirono per i monti Peloritani addentrandosi sempre più nell’isola fino raggiungere tutte le montagne, fin sopra Palermo, dove si arroccarono organizzati in bande. Avvantaggiati dalla posizione, adatta alla difesa, e dall’ampia visione sul territorio, scendevano a fare le razzie per poi ritornare al sicuro sui monti dove, di notte, si facevano notare in lontananza per i grandi fuochi dei bivacchi, che gli isolani guardavano nell’impotenza e nel terrore. Il numero degli emigrati-briganti della prima ondata fu tale che un anno, anticipando di qualche giorno l’inizio della mietitura, scesero nelle pianure a mietere il grano al posto degli isolani. Così toccò anche a questi condividere la fame e i disagi degli incomodi ospiti, ma col tempo ad avere la peggio furono comunque i calabresi che, incominciando nel frattempo a combattersi tra di loro, si trovarono indeboliti e impreparati quando i siciliani passarono alla riscossa.

Questi ultimi, preso coraggio e assoldati dai proprietari terrieri (c’è chi disse che fu così che nacque la mafia), formarono delle squadre di giovani armati di doppiette che poi, aumentando di numero e coordinamento, passarono all’attacco dei calabresi nelle loro basi costringendoli a sloggiare. Si ritirarono man mano verso Messina dove intendevano reimbarcarsi per ritornare in Calabria, ma l’ormai formato esercito siculo – forte di 3mila picciotti ben armati – sbarrava il passaggio. In quella situazione di stallo ed estremamente drammatica per la presenza delle famiglie, che limitavano le strategie e le manovre, si passò allo scontro frontale e a una battaglia feroce dove le più coordinate forze dei siciliani prevalsero e i calabresi vennero massacrati. Che dire, fa male – anche a distanza di tanto tempo – ricordare come furono trattati quei nostri antenati. E fa specie – in epoca di vera invasione mussulmana e dall’Africa – vedere come tra i più forsennati propugnatori dell’accoglienza, e con gran vanto, ci siano proprio politici e intellettuali siciliani. Come altri presuntuosi o furbastri calabresi (per non essere ingiusti); ma su come andò quella volta, bisogna che qualcuno lo ricordi ai vari: Angelino Alfano, Leoluca Orlando, Giusi Nicolini, Andrea Camilleri.


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