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In Aspromonte
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"U monacu jancu", il terrore di Casa Medici

  •   Domenico Stranieri
I resti del Convento di Contrada Crocefisso I resti del Convento di Contrada Crocefisso

“Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’ebulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina…”.

Inizia così l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, un libro di poesia pubblicato in America nel 1915. In Italia l’opera arrivò solo nel 1943 grazie alla traduzione di Fernanda Pivano che ricorda come da ragazzina chiese a Cesare Pavese, suo insegnante, la differenza tra la letteratura americana e quella inglese ed egli le regalò quattro volumi tra i quali c’era pure l’Antologia di Spoon River. Il libro (che ispirò a Fabrizio De Andrè brani come La collina, Il suonatore Jones e tutto l’album Non al denaro non all’amore né al cielo) è ordinato per epitaffi che narrano la storia di ciascun abitante di Spoon River sepolto nel leggendario cimitero.

Eppure anche l’Aspromonte ha la sua collina e la sua Spoon River con “la consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti”. Solo che nessuno più la ricorda. In contrada Crocefisso, difatti, nel comune di Bianco, un vecchio cimitero abbandonato, contiguo ai ruderi del Convento di S. Maria della Vittoria, è interamente scomparso, coperto dalla vegetazione circostante. Il Convento risale al 1622 e già dal 1678 era rinomato per le due “Fiere della Croce” che si svolgevano a maggio. Da qui passarono i viaggiatori del ‘700 e dell’800, che trovarono ospitalità e si rinfrescarono nel suo pozzo (vedi E. Lear). Sempre in questo luogo partivano ed arrivavano le lettere fra Padre Bonaventura e Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie, la quale, prima di sposare Ferdinando II, aveva scelto di farsi monaca. Maria Cristina fu sempre considerata una “Regina Santa” ed il 25 gennaio del 2014, a Napoli, è stata proclamata beata. Perché predilesse come suo confessore questo monaco calabrese rimane un mistero. Successivamente anche il Convento di Contrada Crocefisso subì le violenze dei soldati piemontesi che, arrivati qui per unificare l’Italia, lo incendiarono e fucilarono i religiosi. Il “cimitero scomparso”, invece, con le sue storie, i suoi personaggi e le sue lapidi fu costruito agli inizi del ‘900 per i paesi di Sant’Agata, Caraffa e Casignana ed iniziò ad espandersi quando le fosse comuni, ove venivano seppelliti quasi tutti (eccetto i nobili), erano oramai sature. Addentrandosi a fatica tra i rovi si riesce ancora a leggere l’epigrafe di un sepolcro ove riposa un ventenne di Sant’Agata del Bianco “assassinato inopinatamente”, il 25 agosto del 1931, dalla sua fidanzata. Un caso unico per i paesi della Vallata Laverde. Oppure si possono scorgere i nomi e le date incise sulla pietra resa nera dall’umidità. E chissà dove si trovano i resti del monaco Giuseppe Lucà, detto “u Jancu” (per il colore chiaro della sua pelle), che si innamorò di una ragazza del luogo e la sera, nel Convento, le offriva un’accoglienza non proprio religiosa. Oltre a ciò, si narra che il monaco, considerato una sorta di stregone, dopo la morte e poco prima di essere seppellito si svegliò. Così un prete di Bianco, per non consentirgli di “resuscitare”, lo colpì con una grossa croce di legno. Tuttavia, adesso, il cimitero quasi non esiste. Si intuisce appena un cipresso che si erge solitario sopra un muretto di pietra. Tutto il resto giace sotto l’ombra, sospesa nel tempo, delle piante e degli arbusti. Eppure se questa collina non si trovasse in Aspromonte forse un Edgar Lee Masters ci avrebbe persino scritto un libro. Invece, alle persone interrate nel cimitero, ed ai loro nomi, pure l’altra vita gli ha reso soltanto il loro destino di affanno e miseria.

U MONACU JANCU 

di Francesco Misitano – Il monaco Jancu era da poco arrivato al Convento del Crocefisso che s’invaghì d’una ragazza della borgata antistante il sacro edificio, Ciccilla Macrì, che lui nella sua parlata di Polistena chiamava Ciccira, e la notte se la portava nel convento. Padre Bernardino e padre Giacomo, scandalizzati, gli imposero o di smetterla con quella tresca o di lasciare il convento. Ma lui non si scompose e continuò imperterrito nella sua relazione. Allora i due monaci si rivolsero al procuratore del convento, ch’era allora un Marchese (cognome) di Bianco, chiedendo l’allontanamento immediato di quell’indegno confratello. Ma il Marchese non si mosse per paura che il monaco Jancu poi, per vendicarsi, lo spedisse all’altro mondo con qualche magia. Così i monaci, per non vivere nello scandalo, abbandonarono il Convento del Crocefisso, lasciando il monaco Jancu padrone e domino dell’edificio. Mancando i padri, il monaco Jancu si assunse tutte le loro funzioni, tranne quella di dir la messa. Quando moriva qualcuno dei paesi vicini e la salma veniva portata al convento per essere calata nella fossa comune, lui andava incontro al corteo, in cotta e stola, benediva la salma e l’accompagnava alla fossa […].

I COMUNI DI CARAFFA, S. Agata, Casignana e Bianco non disponevano a quei tempi di propri cimiteri. Nelle loro chiese parrocchiali c’erano sì delle tombe scavate nel pavimento, ma queste, pochissime, erano riservate ai sacerdoti ed alle famiglie più illustri del paese. Il popolo portava i suoi morti alla fossa comune scavata nell’atrio del Convento del Crocefisso, dentro cui questi venivano calati avvolti in un lenzuolo. Per il trasporto si serviva del catalettu, una specie di barella. Quando la fossa comune si riempiva, venivano da lontano due becchini che, come raccontava mia madre, avevano il viso giallo come il limone. Questi tiravano con carrucole le ossa e le seppellivano in un’altra fossa comune, che di volta in volta scavavano nella pianura antistante il convento. Fino a qualche tempo fa si potevano ancora vedere i crateri che si erano formati in queste fosse con l’assestamento del materiale riportato a copertura delle ossa […].

INTORNO AL 1895 moriva a Bianco il sacerdote Giulio Medici. Nel pomeriggio del giorno dopo la sua salma fu portata nella cappella del Convento del Crocefisso e lì lasciata l’intera notte per essere sepolta l’indomani, dopo i funerali, nella tomba di famiglia all’interno della stessa cappella. Il dì seguente, quando i parenti, gli amici ed i conoscenti arrivarono al convento per partecipare al rito funebre, trovarono il corpo dell’estinto tutto sfregiato in viso e con le braccia e le gambe spezzate. Tutti si domandarono attoniti ed inorriditi che cosa fosse successo durante la notte. Era stato ilmonaco Jancu a ridurre in tale stato il corpo esanime del sacerdote Medici per vendicarsi di un’offesa ricevuta da quegli, anni prima. Era infatti successo questo: ilmonaco Jancu s’era recato un giorno a Bianco, dove per caso incontrò il sacerdote Giulio Medici, il quale, appena lo vide, lo chiamò a sé e, quando gli fu a tiro di bastone, alzò il suo, sul quale si appoggiava nei suoi movimenti, e gliene diede più che poté. Motivo di questa sfuriata del Medici era stato il fatto che alcuni giorni prima un suo colono aveva portato al monaco Jancu, anziché a lui che ne era il proprietario, le primizie di un frutteto quale disobbligo per averlo il monaco Jancu liberato dagli effetti malefici di una magia, ed il sacerdote Medici se n’era risentito. Il monaco Jancu ingoiò per il momento il rospo, cioè incassò le botte senza reagire, in attesa, però, dell’ora della vendetta […].

IL SACERDOTE MEDICI, alcuni anni prima, aveva iniziato la costruzione di un palazzo a Bianco, in quel locale d’angolo tra le odierne vie Garibaldi e Salvadori. Ma quando i muri perimetrali e quelli divisori interni erano pronti – mancavano ancora il tetto, i pavimenti e le imposte -, fu colto da malore e morì. I suoi eredi tentarono a più riprese di continuare i lavori di completamento della casa, ma ogni volta che questi iniziavano, in casa Medici moriva qualcuno. Per cui gli eredi, considerando questi decessi come un monito divino, desistettero dall’impresa, onde evitare che la loro famiglia si sterminasse […]. Il monaco Jancu avrà lasciato il suo regno terreno – il Convento del Crocefisso – per quello dell’aldilà qualche tempo dopo il febbraio del 1908. Con la sua scomparsa il convento fu chiuso al culto divino e trasformato in cimitero, un cimitero monumentale per i paesi di Caraffa, S. Agata e Casignana.

La storia sul monaco “bianco” di Francesco Misitano è stata pubblicata sulla rivista Calabria Sconosciuta (1994) e adesso riproposta nel libro La mia Calabria (ed. Marna). 


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