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Antonella Italiano

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Africo. Intervista a Domenico Fazzari, autore della tela “80 mq di silenzio” esposta a Milano

 “80 metri quadri di silenzio”: una mostra, una tela, un’immagine conservata nel cuore per dieci lunghi anni. A Milano, alla manifestazione che si è tenuta lo scorso 18 ottobre per presentare l’opera di Domenico Fazzari (inaugurata il 6 luglio) sono accorsi visitatori provenienti da ogni parte d’Italia.

10 di altezza e 8 di lunghezza: tanti sono i metri della tela, oggi esposta al Museo “Francesco Messina” di San Sisto, e tanti sono quelli che misura l’abside della chiesa di San Nicola Pontefice, ad Africo, nel cuore dell’Aspromonte «Un dipinto a grandezza naturale – precisa l’artista – una scelta passionale, fatta con lo stomaco». Ma, per comprenderla fino in fondo, è necessario fare qualche passo indietro…

San Sisto è una chiesa sconsacrata, la cui abside è andata distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Oggi la struttura è stata restaurata e adibita a museo: uno spazio originale in cui sono conservate parte delle opere dello scultore Francesco Messina che, anticipando il destino di molti meridionali, fu “siciliano d’origine e milanese d’azione”.

San Nicola è una chiesa sperduta nel cuore dell’Aspromonte, affacciata sulla piazza di Africo antica. Sconsacrata e maledetta assieme alla sua gente e a quel paese montano, di cui l’alluvione del 1951 sancì la morte.

Due chiese, due abbandoni diversi e, attorno, il silenzio di cui parla Domenico Fazzari… «Quando scendevo in Calabria per le vacanze estive, non riuscivo a stare lontano dall’Aspromonte. Colpa di Vito Teti, Corrado Alvaro, Saverio Strati che con le loro opere mi avevano conquistato; colpa della sensibilità e della dedizione di Zanotti Bianco perduto tra la sua “perduta gente”.

Con la mia compagna partivamo a piedi alla ricerca dei posti descritti dai libri e pernottavamo in tenda, lasciandoci rapire dalla montagna. Giravamo molto, anche di notte, a studiare le forme e i giochi della natura: lucertole e vacche erano padrone dei sentieri, le parietarie erano l’unica protezione di mura cadenti, le rocce stavano irte come quelle di Stonehenge, gli alberi secolari vociavano col vento. E mai l’obiettivo delle nostre visite fu l’uomo o le sue opere, ma i giochi di luce, i colori, il modo in cui la natura iniettava vita nei luoghi abbandonati. Poi, ad Africo, accadde qualcosa…».

C’è una curva dopo Campusa che è capace di segnare per sempre un visitatore, un confine geografico che, al contempo, è un confine dell’anima. Africo sta tutta lì, nascosta dietro un puntone di roccia: dalle verdi querce - in fondo alla strada - viene fuori imponente la facciata di San Nicola, attorno, decine di case che sembrano aggrappate ad essa per non scivolare nell’Aposcipo, giù, a valle. E, pur senza vita, ella pare vivere. Fazzari ne resta folgorato «Dieci anni fa, in una di queste escursioni, ci trovammo difronte a tutte quelle rovine. Attraversammo gallerie di vegetazione, arrivammo alla piazzetta lastricata di mattoni, entrammo curiosi nella chiesa: ed eccola la luce del Mediterraneo! La luce del Mediterraneo che scendeva da lucernai naturali creati sul soffitto dal tempo e dall’incuria; e la vacca che ci guardava stupita mentre sostava bonaria dinnanzi all’altare; e la natura che entrava prepotente laddove l’uomo si rifiutava di tornare: un’immagine che conservai a lungo. Per anni. Fino ad oggi. Fino a quando il Museo mi ha dato l’occasione di realizzare la mia tela».

Ed eccoci a Milano, con Maria Fratelli, direttrice del Museo “Francesco Messina”; Alice Dal Borgo, moderatrice della serata; il professore Vito Teti, studioso di etnografia dell’abbandono; Patrizia Giancotti antropologa, giornalista e fotografa; e con i tanti ospiti chiamati ad onorare il tavolo dei lavori: l’Amministrazione di Africo, con il sindaco Francesco Bruzzaniti e i consiglieri Nunzio Zavettieri e Bartolo Morabito; il regista Alberto Gatto e il fotografo Frank Armocida.

«L’installazione site-specific realizzata per il Museo Messina, grazie al supporto dei Laboratori di Scenografia del Teatro della Scala - racconta Fazzari - ha permesso di far dialogare il Nord e il Sud. Ha suscitato un interesse che è andato ben al di là di ogni aspettativa, tanto che la mostra è stata prorogata in via eccezionale per un altro mese, permettendo così di strutturare una serie di eventi e di incontri. Dalle rappresentazioni teatrali dello Studio Novecento di Marco Pernich, che ha messo in scena, davanti alla tela, una parte del suo spettacolo “Genesi” (un’ermeneutica teatrale dei Capitoli 1,11 del Libro della Genesi), proponendo i brani l’Angelo del Racconto e La moglie di Noah - un racconto apocrifo, interpretati magistralmente da Stefania Lo Russo con l’accompagnamento al pianoforte di Diego Petrella. Sempre lo studio Novecento ha fatto dei workshop teatrali con i Tableaux Vivants, proponendo delle scene ispirate alle vicende di Africo. Interessante è stato l’intervento (dello scorso 26 settembre) del professore Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Salerno. Il tema del dibattito è stato “la forza dei luoghi come antidoto all’omologazione”, una riflessione su come oggi, nell’era della globalizzazione o del disordine delle società in cui siamo, sia necessario tutelare lo sgretolamento delle identità ed il rapporto con la “polis” diventa un momento di forte riconoscimento.

Sono sempre più convinto che l’arte abbia la magia e il potere evocativo di permettere il dialogo e la condivisione di pensieri, espressioni, esperienze ed emozioni.

Con il 18 ottobre si è concluso, per il momento, il ciclo di eventi in programma. Abbiamo voluto chiudere proponendo il video “Ordine di Natura” che segna però l’inizio di altre riflessioni.

Il video girato tra Africo nuovo e Africo antica cerca di ricucire il rapporto tra gli abitanti con il proprio luogo di origine, nelle scene si contrappone con forte contrasto l’ambiente anonimo dove gli anziani narrano i loro ricordi e lo spazio naturale di Africo, avvolto dalla calda luce del Mediterraneo, dell’Aspromonte».

È stato Vito Teti, da attento antropologo, a mettere l’accento sul senso dei luoghi segnati dall’abbandono, ben interpretando il sentimento africese ancora integro nella perpetuazione del culto a San Leo e nell’ostinato pellegrinaggio del 5 maggio al piccolo santuario aspromontano «Nonostante questo popolo sia stato costretto ad abbandonare il paese, è rimasto inesorabilmente legato alle sue origini». Conosce bene, il professore, il destino dei tanti pastori che, rifiutandosi di lasciare Africo, costruirono case più sicure a Carrà e scelsero di vivere una nuova forma solitudine. E di silenzio. E conosce gli sforzi, dettati dall’esigenza del ritorno, dei tanti africesi smembrati dopo l’alluvione tra Reggio, Bianco e Bova «La combinazione tra queste due chiese abbandonate di San Sisto e di San Nicola è stata emozionante, perché è la dimostrazione di come, pur partendo da una storia dolente, drammatica, si possano creare delle novità importanti per la comunità. Su quella tela c’era impresso un pezzo di Africo a cui sono molto legato. È stato un motivo di orgoglio e compiacimento partecipare alla manifestazione, oltre al piacere di rivedere i tanti e tanti amici che sono accorsi per non perderla. La partecipazione dei calabresi è stata significativa. L’evento sarà utile non solo ad Africo e a San Sisto, ma ai tanti paesi abbandonati esistenti in Italia, perché l’arte, la cultura, la letteratura possono favorire la rinascita delle aree più interne».

Un legame che, per fortuna, non lascia indifferenti neanche i più giovani: oggi l’amministrazione guidata dal sindaco Francesco Bruzzaniti ha investito sulla valorizzazione del borgo abbandonato, grazie al sostegno del Parco nazionale d’Aspromonte: «É stato emozionante sentire parlare di Africo in un contesto ampio come quello offerto da Milano, soprattutto è stato emozionante sentirne parlare in modo positivo. Africo ha un invidiabile patrimonio culturale e naturalistico che, come abbiamo appurato, è molto apprezzato anche fuori. Per questo ricostruiremo il borgo antico, senza per questo intaccare l’equilibrio che esso ha trovato con la natura circostanza: la nostra sarà una nuova dimensione di “ritorno”».

E la bellezza, che emerge prepotente nel saliscendi naturale di vallate e tornanti dell’Aspromonte, emerge dalle parole dei tanti intervenuti: tra questi il professore Teti e la direttrice Maria Fratelli.

Ed anche la giornalista Patrizia Giancotti, autrice di un libro “Filoxenia”, parlando dell’Area grecanica, delle tradizioni agro-pastorali, dei suoni dei dialetti, non ha potuto fare a meno di evidenziare una forma di bellezza tipica dei paesi dell’entroterra perché di radici antiche: l’accoglienza, l’amore per il forestiero, il valore sacro dell’ospitalità, principio etico fondamentale della cultura greca «Questo pezzo di terra ha un modo di accogliere unico al mondo» ha commentato.

Un confronto che ha lasciato il segno, dunque, e anche un desiderio comune: portare la tela ad Africo per un’esposizione, col suo carico di eventi, interventi, cultori; con le sue tracce di Milano e di San Sisto, e delle storie di abbandono e sentimento popolare che sono uguali da Nord a Sud «Il mio sogno sarebbe realizzare un museo all’aperto nel borgo aspromontano, con vacche e lucertole a fare da spettatori, e il silenzio ad avvolgere tutto. Così, come quell’immagine è stata impressa dentro di me per oltre dieci anni. San Sisto e San Nicola sono due chiese che hanno molto in comune, seppur vittime di violenze diverse» conclude l’autore.

Eventi. Africo vola a Milano, 17 e 18 ottobre: una due giorni tra memorie e cultura

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Ricorre il 66° anniversario dell’alluvione che, nel 1951, colpì i vecchi abitati di Africo e Casalinuovo, dirimpettai nel cuore dell’Aspromonte. Un avvenimento che segnò profondamente la popolazione e che sancì l’inizio di un’immigrazione forzata.

Reggio, Bova, Bianco: queste solo alcune delle tappe che gli africesi furono costretti a percorrere, raccogliendo per ognuna di esse centinaia di storie e di ritratti. Di memorie.

Un patrimonio fatto di musiche, versi, racconti orali a cui nessuno vuole più rinunciare: «Questa Amministrazione – precisa il sindaco Francesco Bruzzaniti - intende adottare delle iniziative per ricordare alle nuove generazioni il dramma che hanno vissuto i nostri concittadini. In tale ottica appare opportuno coinvolgere gli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado dell’istituto comprensivo Brancaleone-Africo».

Si terrà il 17 ottobre, presso il Monumento del Vecchio e del Giovane nella Villa comunale, la celebrazione dell’anniversario in onore delle vittime dell’alluvione. Le scuole parteciperanno con disegni e poesie, e alle classi che avranno realizzato le operi migliori verranno consegnati dei premi, da custodire nella propria aula scolastica.

Seguiranno gli interventi di alcuni poeti locali e la degustazione di prodotti tipici aspromontani patrocinati dall’Ente Parco d’Aspromonte.

Il 18 ottobre, invece, Africo volerà a Milano, al Museo “Francesco Messina”, dove si svolgerà la conferenza dell’artista Domenico Fazzari, dedicata ai luoghi dimenticati del borgo montano. In mostra, la grande tela realizzata dal Fazzari che riproduce l’interno della chiesa di Africo antica, affacciata sulla piazza della cittadina così abilmente descritta da Saverio Strati nel libro “La Teda”.

A moderare il tavolo dei lavori Alice Dal Borgo e Maria Fratelli.

Un incontro dal sapore fortemente mediterraneo, a cui parteciperanno Vito Teti, famoso antropologo, studioso di etnografia dell’abbandono e professore ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria; Patrizia Giancotti antropologa, giornalista e fotografa nota per i suoi programmi su Radio 3 (tra cui WikiRadio e Passioni), promotrice di un interessante libro sui paesi dell’Area grecanica in Calabria a rischio di spopolamento.

A conclusione della giornata verrà proiettato il video/documentario girato tra Africo nuovo e Africo antica (e con la partecipazione dei suoi abitanti), realizzato par la Bird Production dai due giovani professionisti Alberto Gatto e Frank Armocida .

La “grande tela” resterà esposta a Milano fino al 22 ottobre.

L'Editoriale. La Giustizia ci richiede uno sforzo di fede assoluta

La Giustizia richiede una grande fede; una dedizione che attinge allo spirito religioso più che allo Stato di diritto. E se la giustizia punisce, se la giustizia perdona, se la giustizia tradisce… la giustizia trionfa. Prima o poi.

Perché è solo una questione di tempo.

Cos’è il tempo passato sotto un ombrellone a luglio e agosto? Decine di pagine di un buon libro, due o tre cruciverba, il lettino per tenere comoda la schiena e il tepore del sole. Quanto dura una festa di paese, tra bancarelle, sagre, tarantelle e spettacoli pirotecnici? Tre giorni che “volano”, a sentire i turisti, i paesani, i devoti che, per tutto il “tempo” del Santo Patrono, non si perdono un’Avemaria. Né panini con salsiccia.

Due settimane a dicembre, tra Natale, Capodanno ed Epifania, si succhiano la metà delle ferie di un anno, ché tempo di partire si è costretti a rientrare, quasi senza disfare le valigie.

Ore e ore in trepidante attesa dell’inizio di un concerto, tra una birra, una chiacchierata e uno spinello, sembrano una manciata di minuti. E il tempo che scandisce una prova d’esame “vola”, accelera le lancette e il cuore, mette alla prova i nervi. Quasi quanto il tempo che non passa mai.

Starei ore sotto il sole di giugno, proprio senza accorgermene, e per ore ho camminato lungo i sentieri d’Aspromonte, e passo ore dietro un libro, un video, una canzone. Ore sui social. Ore persa nei colori di un centro commerciale. E di tutta questa vita, nella mente, un unico fugace ricordo. Attimi.

Il pomeriggio che andai a Bianco, richiamata dalla Giustizia in cui continuo a credere con fervore mistico, il tempo pareva essersi fermato.

Con angoscia osservavo la tua famiglia, che tentava una stima della situazione da affrontare, che si rifiutava di rinunciare alla tua presenza, e si muoveva in quell’aria greve, tesa, come se a squarciarla arrivasse d’un tratto il tuo vocione. Ma da qualsiasi parte si guardasse quel tutto fatto di nulla, esso si riduceva a una semplice inesorabile “questione di tempo”. Niente più, niente meno che tempo. Mi sentii gravemente tradita. Mi sentii soffocare. La sofferenza di un padre sarebbe stata giudicata - legittima o meno - dai magistrati di turno solo in un secondo momento. Tempo. Che poi quel secondo momento divenne un terzo e perfino un quarto, cosa importò? Il tempo del carcere, dal carcere bisognerebbe pesarlo.

L’estate doveva passare, insomma, era chiaro ma difficile ammetterlo. Per un primo motivo importante: l’impianto accusatorio avrebbe retto, in tutta la sua maestosità. E per un secondo motivo importante: l’avvento dell’estate, e il conseguenze avvicendamento di magistrati nei vari tribunali, era imminente. L’impianto accusatorio avrebbe retto, dunque, soprattutto perché l’estate era imminente. Ci vediamo tra due mesi. E due mesi passarono.

Trionfa la Giustizia, mentre il tempo che ti riporta ai tuoi figli ha ripreso il volo, e tutto nel cuore è un grumo di sangue, un ricordo incredibile.

Due mesi fa, tra queste mura, sarebbero pesate un macigno le parole; ogni pensiero, persino se inespresso, si sarebbe tradotto in grosse lacrime. Amare come la morte. Mentre il tempo, questo tempo benevolo e minaccioso con la vita degli uomini, se ne stava spaventosamente fermo nel vicolo della tua casa. E del diritto di amare, di lavorare, di mangiare o passeggiare o andare al mare o restare steso su un divano senza far nulla, del diritto di abbracciare la famiglia, di parlare, di scherzare, di lottare restavano solo solchi fumanti nella terra, tracce di un bombardamento. Oggi, che tutto è tornato normale, la tua voce rimbomba e tiene allegro il vicinato.

La normalità pare quasi un regalo; un dono della Giustizia, buona e misericordiosa, per chi per lei nutre fede cieca, assoluta. Dio sa quanta ne hai nutrita quanto, contro tutti, denunciasti i soprusi che offendevano la tua terra. Solo, contro un sistema complesso, radicato come il terrorismo jihadista a Molenbeek, con un dolore nel cuore più grande e più buio della galera: e da quello dovevi disperatamente fuggire.

Se imparasti a fidarti di Dio, fidarti della Giustizia ti sarà parso un gioco. Si distinse, mia nonna paterna, per coraggio e intraprendenza quando riuscì - furtiva - a ricavare un calco delle chiavi dei magazzini di un facoltoso magistrato di Bovalino, chiavi che erano custodite dal suo tuttofare: mio nonno, e suo marito. Si era nel dopoguerra, c’era fame e povertà, e la nonna come Robin Hood sottraeva al ricco per distribuire al vicinato bisognoso.

Si distinse anche mio nonno, per lealtà e fede cieca nella Giustizia, quando – accortosi dell’inganno – andò a raccontare tutto al giudice in persona. Vanto, in un unico episodio familiare, due esempi di giustizia significativi: e, in mezzo agli estremi, l’onta che come calabresi ci portiamo addosso.

Nella mia terra, stuprata soprattutto dagli scrittori e dai giornalisti locali, con qualche doverosa eccezione, proliferano come gramigna ignoranza e povertà; ché l’ignoranza fu abbeverata nei tempi, a scapito delle risorse: dei viaggiatori stranieri conserviamo con orgoglio la mappatura della sua bellezza, della sua dolcezza carnale e materna, ma i suoi figli non conobbero altro che sudore, sofferenza, baroni e “don” con le pezze al culo. Poi la partenza.

Magistrale è la descrizione che ne lascia Strati ne Il Selvaggio di Santa Venere, uno spaccato di vita meritevole del Premio Campiello. Strati, con le mani callose dei muratori e i piedi forti degli aspromontani, zoticone e sudicio com’era in quel mondo di “letterati”, non entusiasmò a quel tempo né la critica né i calabresi: i primi si sentirono scalzati dal quel linguaggio denso nella sua umiltà, i secondi - zoticoni e sudici com’erano - si sentirono troppo nudi dinnanzi alle sue verità. E finirono per scambiarle col tradimento. Leggere Strati, oggi, è come leggere il rapporto del procuratore, ma con mezzo secolo di ritardo; e mentre da un lato proliferano le operazioni di polizia, i giornali e la letteratura, dall’altro proliferano gli ignoranti e i loro pidocchi, e qualcuno si fa tagliare la coda ché, a tenerla troppo lunga, rischierebbe di inciampare. Mentre a Polsi scatta lo Stato marziale e si perquisisce Gesù Bambino dinnanzi a migliaia di fedeli. Chi voleva impressionarci ci è riuscito. Dal 4 luglio ho il terrore persino di respirare. Al telefono rispondo col vocabolario in mano, scegliendo con cura le parole da usare e sperando che i militari del nucleo investigativo mi perdonino le stoltezze in cui spesso inciampo. Ché la Giustizia è buona, ma è incredibilmente sensibile ai vocaboli come le piante carnivore lo sono agli insetti, e se prende in mano il Tempo lo accartoccia e lo stritola come fosse una dea.

Il Borgo per l'Infiorata. La storia di un rito che vive da oltre 50 anni

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Mi aspettava all’angolo della strada, laddove piazza Garibaldi si mischia con le stradine del borgo. A qualche decina di metri c’era la sua casa, e fuori - sulla sinistra accanto alla porta - stava la sua sedia. Da lì controllava il mondo, già dal primo mattino.

Nonno, gli dissi, abbracciandolo. Nonno era un omaccione dalla pelle scura, le mani rugose di chi fa l’artigiano, il volto imbronciato e simpatico, con ampie sopracciglia e un grande naso. Portava la barritta, sui pochi capelli rimasti, e camminava con andatura lenta e zoppicante.

Mi aspettava all’angolo della strada per strapparmi il solito saluto, poi lo seguivo giocherellando sui marciapiedi che da piazza Garibaldi portavano al Borgo, e dal Borgo a piazza Garibaldi, in quelle lunghe estati di pantaloncini e piedi scalzi e neri, stesi sui gradini senza mai tornare a casa, melanzane fritte a pranzo, pesci appena pescati a cena, e una fontanella sulla piazza dove l’acqua correva giorno e notte, per bere e per lavarci. Te lo ricordi il nonno, papà? Le sue mani grandi odoravano di tabacco.

Per trovare i membri dell’associazione “Borgo per l’Infiorata” stasera ho un bel da fare. In genere si lavora a casa di Giovanna però arrivo ed è deserto, solo qualche fiore di carta sul tavolo testimonia che qualcuno ci deve essere per forza. Nessuno dimentica fiori di carta sul tavolo, con la fatica che costa tirarli su da un foglio qualsiasi: due corolle colorate, una grande esterna e una più piccola interna, ricavate da giri di carta spillata a conetti, e ancora carta pesta per polline. All’improvviso sento delle voci, mi guardo attorno. Nessuno. Poi ancora voci. Sul marciapiede, che collega il Borgo a piazza Garibaldi, e piazza Garibaldi al Borgo, percorro la strada a ritroso. Le voci si fanno sempre più chiare. Passo davanti alle finestre di mastr’Antonio, un uomo bassino, scuro scuro e meccanico abilissimo, alle cui inferriate ci aggrappavamo da bambini per dondolarci o per spiare dentro la casa, catapultando la nostra curiosità in quelle stanze che apparivano enormi, coi lampadari imponenti e la carta da parati. Ma lì non c’è nessuno. Più avanti, all’angolo di piazza Garibaldi, da una porta che ricordo sempre chiusa, viene fuori della luce. Mi infilo là dentro. E ci trovo le donne dell’associazione “Borgo per l’Infiorata”.

A delle reti, che serviranno per addobbare gli ambienti esterni in occasione della processione del Santo Patrono, attaccano i preziosi fiori di carta, curando di spillare, per ogni fiore, almeno tre foglie. Stanno raccolte in una casa vecchia più dei miei ricordi, tra mobili e pareti sui cui persiste ostinata qualche traccia di colore, che odorano di muffa e di tempi lontanissimi. Indimenticabili. Indimenticati. La mia intervista, che ho così tanta fretta di portare a termine, ora può anche aspettare. Mi salutano un po’ incerte, rispondo distrattamente, e coraggiosamente, per me terrorizzata dalla blatte che nella stagione estiva cercano frescura ovunque, accendo la torcia del telefonino e proseguo oltre, nelle stanze buie di quella casa. Dove siamo? Di chi è? Perché lavorate qui dentro?

Ma non aspetto le risposte ché già sono in un altro ambiente. Una stanza quadrata, stretta, carica di sacchi neri pieni di segatura: è il tesoro di Luciano, che, laborioso come una formica, per tutto l’inverno - a dispetto delle cicale - la recupera e la conserva: la userà al posto dei fiori per la processione di agosto, quella del Santo Patrono, con essa le strade diverranno tappeti colorati a motivi geometrici. Per la processione di giugno, invece, quella tradizionale del Corpus Domini, i disegni a terra verranno realizzati coi fiori . «É la casa vecchia di zia Elvira – mi spiega Carmelina – ci ha dato le chiavi per farci tenere il materiale. Una sorta di piccola sede della nostra associazione».

Ce ne vuole di fantasia, penso sopprimendo l’esclamazione. Dai muri viene fuori odore di umidità e polvere, il soffitto di tegole a vista porta a immaginare una sorta di soppalco, i mattoni in gres colorato, che cambiano di stanza in stanza, anche un tocco di civetteria. Ma il fascino sta in quelle irregolari geometrie, all’epoca in cui la modernità non aveva intaccato i cicli umani, né i rapporti. «In quella stanza – ricorda Giovanna – c’erano due cassepanche piene di vestiti che venivano dall’America. Fu in occasione della farsa di Carnevale di non ricordo quale anno che le svuotammo per mettere su una piccola commedia, e la recitammo nel grande salone che c’è lì accanto».

Le foto. Ricordi quelle foto papà? La mamma le conserva gelosamente in un cassetto, su nell’armadio. Da piccola le scorrevo per indovinare i personaggi nascosti dietro quel trucco. Ma più che i vestiti e gli occhialoni, a nasconderli erano gli anni, troppi perché io riuscissi – bambina - a riconoscerli tutti. La farsa era un foglio che tu conservi ancora gelosamente con tutte le battute di quegli attori improvvisati; la farsa era un rudimentale filmato senza voci che proiettavi orgoglioso sul muro di casa; la farsa era l’eco della tua spensieratezza che in automatico diveniva l’eco della mia. Un salone così grande, aveva la zia Elvira, che pareva contenere il mondo, tanta era la gente assiepata in ogni angolo. Il piccolo grande mondo del Borgo e di piazza Garibaldi.

Mamma mi cercava urlando e malediva il mio nome, trovava sempre qualcosa da farmi fare, soprattutto d’estate nel primo pomeriggio; ed io scappavo dal nonno che, con le sue parole pronunciate a metà, il suo incedere ansimante, la sua presenza costante, era una sorta di rifugio. Nonno mi aggiusti i pattini? E lui, paziente, a trovare il rimedio. Nonno ho bucato la bicicletta. E lui, prontissimo, a riparare la ruota. Nonno ho fame. E lui tirava fuori le mille lire, che odoravano di tabacco, e mi spediva al panificio di Cataldo. Marciapiedi, marciapiedi.

Dai gradini della casa del nonno, chiamavo Lidia che abitava proprio lì davanti. Si affacciava zio Fufù, suo nonno, fratello del mio, pronto come il mio, che aveva rughe profonde simili al mio ma il volto più chiaro e baffuto da cui traspariva un’antica bellezza. Era gioviale, scanzonato, aperto e gentile con tutti; un bicchiere di vino ed era festa: rispolverava il suo vasto repertorio di muttetti e stornelli a doppio senso; mentre zia Maria, una sorta di perpetua, piccola e graziosa con i suoi capelli d’argento, si raccoglieva su se stessa e si metteva la mano davanti al muso. Scandalizzata.

Zio Fufù, così estroso e sorridente, era amato dagli uomini e dalla donne, al contrario del nonno, schivo e riservato. E forse anche un po’ geloso.

Quel giorno avremmo preparato l’Infiorata, come ogni anno nel borgo dal 1963.

C’è odore di muffa nella casa di zia Elvira, e tante porte che mi piacerebbe aprire per sbirciarci dentro «Questa stanza a forma di triangolo cos’è?»

«Quello è un deposito. La casa ha molte stanze e un bel giardino, e alla fine ci sono due vasche enormi in cemento dove le donne lavavano le coperte»

«E chi veniva?»

«La zia Elvira ospitava tutti»

«E cosa ci sta dietro quella porta?»

«Da lì si accede al corridoio»

«E dietro quell’altra?»

«Il salone»

«Ci posso andare?»

«Mi spiace, è tutto chiuso».

Chiuso. Spiace soprattutto a me, papà. Verrebbe da buttarle giù a spintoni quelle porte scricchiolanti. Chiuso, con tutta questa storia che si gonfia, e pressa, e rischia di esplodere e farla a pezzettini, questa casa. Avrà almeno cent’anni, e in essa ancora vivono le foto custodite dalla mamma nell’armadio, i filmati a bobina della tua rudimentale telecamera, i racconti che in ognuno prendono una forma diversa, le pagine di quella farsa buttata giù a macchina da scrivere, e un po’ tutti noi quando fummo bambini, e forse anche adesso, da più o meno grandi. E anche il rito a cui si lavora è molto vecchio.

«Come nasce l’Infiorata?»

«Fu mio nonno – mi spiega Carmelina – a portarlo qua. Era un vigile urbano, si recava spesso in altri paesi, e fu durante uno di questi viaggi che la vide e se ne innamorò. Così in occasione del Corpus Domini del 1963 anche Bovalino ebbe la sua prima Infiorata. Da allora, ogni anno, nonostante lutti anche molto gravi, la processione più sentita del paese ebbe sempre ad accoglierla questo grande cuore, all’entrata del Borgo, fatto di gerani rossi e oleandri. Me lo ricordo, il nonno, chiudere la strada con una sedia. E lui se ne stava impettito, orgoglioso, rigorosamente in divisa, per proteggere i disegni della sua Infiorata dal passaggio delle auto»

«E perché riproporla ad agosto?»

«Da dodici anni a questa parte, oltre alla classica infiorata, lavoriamo per gli addobbi della festa del Santo Patrono. Il nostro è un borgo di pescatori, il nucleo abitativo più antico di Bovalino. Il passaggio del Santo protettore del mare ci emoziona e ci suggestiona quasi quanto il passaggio di Gesù»

«Ma c’è il problema dei fiori…»

«Essendo agosto un mese digiuno di fiori, i disegni a terra vengono fatti con la segatura colorata. Il tema di quest’anno saranno i mosaici della Villa romana di Casignana, di cui riproporremo i rosoni più belli. I lavori resteranno esposti dal giorno prima della processione per tutti i visitatori che vorranno fotografarli».

«Quanto tempo richiedono i preparativi?»

«Tutto l’anno. Gli addobbi che andranno a incorniciare strade, alberi, aiule si preparano con molti mesi di anticipo. Ogni sera, sia essa di primavera o di inverno - si tira fuori un dettaglio, un fiore, un particolare, tutti ricavati da materiali di riciclo e poveri. Naturalmente stabiliamo prima un tema ben preciso, e poi studiamo i disegni a terra in armonia con le decorazioni del contorno»

«Ma tanto lavoro per pochi minuti...»

«L’impegno vale la devozione a Gesù e a San Francesco, e il rapporto simbiotico che ha la gente con il mare. Ad esso si affidavano i nostri padri nelle notti di pesca.

L’impegno vale il ritrovarsi, da oltre di cinquant’anni, ancora insieme sulle stesse strade, e sempre più numerosi con l’incedere dell’estate. Da tutte le parti d’Italia torniamo nel Borgo per l’Infiorata, come quando eravamo bambini».

Zia Maria partiva di buon mattino con una busta attaccata al braccio e un grosso paio di forbici, tornava verso mezzogiorno con la busta piena di rose e di altre rarità floreali che chissà dove aveva procurato. Sorvegliava quel suo pacchetto gelosamente, anche mentre puliva i fiori che avevamo raccolto nel primo pomeriggio. Poi a noi bambini ci vinceva la noia, mollavamo tutto e divoravamo le more rimaste nei contenitori, more bianche e more rosse, rubate ad un albero peccaminoso che sembrava offrircele per distogliendoci dai gerani e dai santi. E, come nella favola di Barbablù, ci lasciavano le mani macchiate dalla colpa e i vestiti inservibili, per l’espiazione di quest’ultimi ci avrebbero pensato le mamme a suon di ciabatte e sgridate. Finite le more, si passava alle mandorle, di cui avevamo piene le tasche. Lidia spiegava che, dentro quel guscio verde che pareva un limone, in realtà si nascondeva un frutto dolcissimo. Bastava trovare una pietra abbastanza grossa per romperla, e il gioco era fatto. Allora la piccola Natalia iniziava a maneggiare pietre, e zio Fufù si disperava. Io non fui molto fortunata, almeno all’inizio: le mandorle finavano stritolate dall’impeto dei colpi, e prima che ci finissero anche le mie dita intervenne il nonno.

A volte provi a spiegarmelo anche tu, papà, che facevate a gara da piccoli per chi, camminando scalzo, rimediava i piedi più neri. Ecco, se dovessi spiegarti il sapore di quei frutti, dovrei partire da questo...

Le zie stavano davanti a me, e ripulivano noiosamente i fiori dai gambi, dividendoli nelle buste per colori. Zio Fufù sorvegliava i lavori e la strada, degno genero del comandante Sofia, mentre qualcuno tracciava con il gesso i contorni del cuore; zia Maria sorvegliava la sua busta di rose e margherite che solo al momento opportuno avrebbe consegnato orgogliosa a mani affidabili; e il nonno da oltre la strada sorvegliava tutti, sbuffando e fumando la pipa. Io e Lidia stavamo con le spalle attaccate al muro, sedute sul marciapiedi che dal Borgo porta a piazza Garibaldi, e da piazza Garibaldi al Borgo. I piedi scalzi e neri.

Coi sassi ormai liberavamo le mandorle con una certa maestria. E le tiravamo che erano ancora impalpabili, soffici, candidi, acerbi frutti, con quelle nostre mani nere, sporche di more e di terra. Quasi fossero un trofeo. Un sapore oggi dolcissimo, papà. Antonella Italiano

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