L'Editoriale. La Giustizia ci richiede uno sforzo di fede assoluta
- Antonella Italiano
La Giustizia richiede una grande fede; una dedizione che attinge allo spirito religioso più che allo Stato di diritto. E se la giustizia punisce, se la giustizia perdona, se la giustizia tradisce… la giustizia trionfa. Prima o poi.
Perché è solo una questione di tempo.
Cos’è il tempo passato sotto un ombrellone a luglio e agosto? Decine di pagine di un buon libro, due o tre cruciverba, il lettino per tenere comoda la schiena e il tepore del sole. Quanto dura una festa di paese, tra bancarelle, sagre, tarantelle e spettacoli pirotecnici? Tre giorni che “volano”, a sentire i turisti, i paesani, i devoti che, per tutto il “tempo” del Santo Patrono, non si perdono un’Avemaria. Né panini con salsiccia.
Due settimane a dicembre, tra Natale, Capodanno ed Epifania, si succhiano la metà delle ferie di un anno, ché tempo di partire si è costretti a rientrare, quasi senza disfare le valigie.
Ore e ore in trepidante attesa dell’inizio di un concerto, tra una birra, una chiacchierata e uno spinello, sembrano una manciata di minuti. E il tempo che scandisce una prova d’esame “vola”, accelera le lancette e il cuore, mette alla prova i nervi. Quasi quanto il tempo che non passa mai.
Starei ore sotto il sole di giugno, proprio senza accorgermene, e per ore ho camminato lungo i sentieri d’Aspromonte, e passo ore dietro un libro, un video, una canzone. Ore sui social. Ore persa nei colori di un centro commerciale. E di tutta questa vita, nella mente, un unico fugace ricordo. Attimi.
Il pomeriggio che andai a Bianco, richiamata dalla Giustizia in cui continuo a credere con fervore mistico, il tempo pareva essersi fermato.
Con angoscia osservavo la tua famiglia, che tentava una stima della situazione da affrontare, che si rifiutava di rinunciare alla tua presenza, e si muoveva in quell’aria greve, tesa, come se a squarciarla arrivasse d’un tratto il tuo vocione. Ma da qualsiasi parte si guardasse quel tutto fatto di nulla, esso si riduceva a una semplice inesorabile “questione di tempo”. Niente più, niente meno che tempo. Mi sentii gravemente tradita. Mi sentii soffocare. La sofferenza di un padre sarebbe stata giudicata - legittima o meno - dai magistrati di turno solo in un secondo momento. Tempo. Che poi quel secondo momento divenne un terzo e perfino un quarto, cosa importò? Il tempo del carcere, dal carcere bisognerebbe pesarlo.
L’estate doveva passare, insomma, era chiaro ma difficile ammetterlo. Per un primo motivo importante: l’impianto accusatorio avrebbe retto, in tutta la sua maestosità. E per un secondo motivo importante: l’avvento dell’estate, e il conseguenze avvicendamento di magistrati nei vari tribunali, era imminente. L’impianto accusatorio avrebbe retto, dunque, soprattutto perché l’estate era imminente. Ci vediamo tra due mesi. E due mesi passarono.
Trionfa la Giustizia, mentre il tempo che ti riporta ai tuoi figli ha ripreso il volo, e tutto nel cuore è un grumo di sangue, un ricordo incredibile.
Due mesi fa, tra queste mura, sarebbero pesate un macigno le parole; ogni pensiero, persino se inespresso, si sarebbe tradotto in grosse lacrime. Amare come la morte. Mentre il tempo, questo tempo benevolo e minaccioso con la vita degli uomini, se ne stava spaventosamente fermo nel vicolo della tua casa. E del diritto di amare, di lavorare, di mangiare o passeggiare o andare al mare o restare steso su un divano senza far nulla, del diritto di abbracciare la famiglia, di parlare, di scherzare, di lottare restavano solo solchi fumanti nella terra, tracce di un bombardamento. Oggi, che tutto è tornato normale, la tua voce rimbomba e tiene allegro il vicinato.
La normalità pare quasi un regalo; un dono della Giustizia, buona e misericordiosa, per chi per lei nutre fede cieca, assoluta. Dio sa quanta ne hai nutrita quanto, contro tutti, denunciasti i soprusi che offendevano la tua terra. Solo, contro un sistema complesso, radicato come il terrorismo jihadista a Molenbeek, con un dolore nel cuore più grande e più buio della galera: e da quello dovevi disperatamente fuggire.
Se imparasti a fidarti di Dio, fidarti della Giustizia ti sarà parso un gioco. Si distinse, mia nonna paterna, per coraggio e intraprendenza quando riuscì - furtiva - a ricavare un calco delle chiavi dei magazzini di un facoltoso magistrato di Bovalino, chiavi che erano custodite dal suo tuttofare: mio nonno, e suo marito. Si era nel dopoguerra, c’era fame e povertà, e la nonna come Robin Hood sottraeva al ricco per distribuire al vicinato bisognoso.
Si distinse anche mio nonno, per lealtà e fede cieca nella Giustizia, quando – accortosi dell’inganno – andò a raccontare tutto al giudice in persona. Vanto, in un unico episodio familiare, due esempi di giustizia significativi: e, in mezzo agli estremi, l’onta che come calabresi ci portiamo addosso.
Nella mia terra, stuprata soprattutto dagli scrittori e dai giornalisti locali, con qualche doverosa eccezione, proliferano come gramigna ignoranza e povertà; ché l’ignoranza fu abbeverata nei tempi, a scapito delle risorse: dei viaggiatori stranieri conserviamo con orgoglio la mappatura della sua bellezza, della sua dolcezza carnale e materna, ma i suoi figli non conobbero altro che sudore, sofferenza, baroni e “don” con le pezze al culo. Poi la partenza.
Magistrale è la descrizione che ne lascia Strati ne Il Selvaggio di Santa Venere, uno spaccato di vita meritevole del Premio Campiello. Strati, con le mani callose dei muratori e i piedi forti degli aspromontani, zoticone e sudicio com’era in quel mondo di “letterati”, non entusiasmò a quel tempo né la critica né i calabresi: i primi si sentirono scalzati dal quel linguaggio denso nella sua umiltà, i secondi - zoticoni e sudici com’erano - si sentirono troppo nudi dinnanzi alle sue verità. E finirono per scambiarle col tradimento. Leggere Strati, oggi, è come leggere il rapporto del procuratore, ma con mezzo secolo di ritardo; e mentre da un lato proliferano le operazioni di polizia, i giornali e la letteratura, dall’altro proliferano gli ignoranti e i loro pidocchi, e qualcuno si fa tagliare la coda ché, a tenerla troppo lunga, rischierebbe di inciampare. Mentre a Polsi scatta lo Stato marziale e si perquisisce Gesù Bambino dinnanzi a migliaia di fedeli. Chi voleva impressionarci ci è riuscito. Dal 4 luglio ho il terrore persino di respirare. Al telefono rispondo col vocabolario in mano, scegliendo con cura le parole da usare e sperando che i militari del nucleo investigativo mi perdonino le stoltezze in cui spesso inciampo. Ché la Giustizia è buona, ma è incredibilmente sensibile ai vocaboli come le piante carnivore lo sono agli insetti, e se prende in mano il Tempo lo accartoccia e lo stritola come fosse una dea.