Il Borgo per l'Infiorata. La storia di un rito che vive da oltre 50 anni
- Antonella Italiano
Mi aspettava all’angolo della strada, laddove piazza Garibaldi si mischia con le stradine del borgo. A qualche decina di metri c’era la sua casa, e fuori - sulla sinistra accanto alla porta - stava la sua sedia. Da lì controllava il mondo, già dal primo mattino.
Nonno, gli dissi, abbracciandolo. Nonno era un omaccione dalla pelle scura, le mani rugose di chi fa l’artigiano, il volto imbronciato e simpatico, con ampie sopracciglia e un grande naso. Portava la barritta, sui pochi capelli rimasti, e camminava con andatura lenta e zoppicante.
Mi aspettava all’angolo della strada per strapparmi il solito saluto, poi lo seguivo giocherellando sui marciapiedi che da piazza Garibaldi portavano al Borgo, e dal Borgo a piazza Garibaldi, in quelle lunghe estati di pantaloncini e piedi scalzi e neri, stesi sui gradini senza mai tornare a casa, melanzane fritte a pranzo, pesci appena pescati a cena, e una fontanella sulla piazza dove l’acqua correva giorno e notte, per bere e per lavarci. Te lo ricordi il nonno, papà? Le sue mani grandi odoravano di tabacco.
Per trovare i membri dell’associazione “Borgo per l’Infiorata” stasera ho un bel da fare. In genere si lavora a casa di Giovanna però arrivo ed è deserto, solo qualche fiore di carta sul tavolo testimonia che qualcuno ci deve essere per forza. Nessuno dimentica fiori di carta sul tavolo, con la fatica che costa tirarli su da un foglio qualsiasi: due corolle colorate, una grande esterna e una più piccola interna, ricavate da giri di carta spillata a conetti, e ancora carta pesta per polline. All’improvviso sento delle voci, mi guardo attorno. Nessuno. Poi ancora voci. Sul marciapiede, che collega il Borgo a piazza Garibaldi, e piazza Garibaldi al Borgo, percorro la strada a ritroso. Le voci si fanno sempre più chiare. Passo davanti alle finestre di mastr’Antonio, un uomo bassino, scuro scuro e meccanico abilissimo, alle cui inferriate ci aggrappavamo da bambini per dondolarci o per spiare dentro la casa, catapultando la nostra curiosità in quelle stanze che apparivano enormi, coi lampadari imponenti e la carta da parati. Ma lì non c’è nessuno. Più avanti, all’angolo di piazza Garibaldi, da una porta che ricordo sempre chiusa, viene fuori della luce. Mi infilo là dentro. E ci trovo le donne dell’associazione “Borgo per l’Infiorata”.
A delle reti, che serviranno per addobbare gli ambienti esterni in occasione della processione del Santo Patrono, attaccano i preziosi fiori di carta, curando di spillare, per ogni fiore, almeno tre foglie. Stanno raccolte in una casa vecchia più dei miei ricordi, tra mobili e pareti sui cui persiste ostinata qualche traccia di colore, che odorano di muffa e di tempi lontanissimi. Indimenticabili. Indimenticati. La mia intervista, che ho così tanta fretta di portare a termine, ora può anche aspettare. Mi salutano un po’ incerte, rispondo distrattamente, e coraggiosamente, per me terrorizzata dalla blatte che nella stagione estiva cercano frescura ovunque, accendo la torcia del telefonino e proseguo oltre, nelle stanze buie di quella casa. Dove siamo? Di chi è? Perché lavorate qui dentro?
Ma non aspetto le risposte ché già sono in un altro ambiente. Una stanza quadrata, stretta, carica di sacchi neri pieni di segatura: è il tesoro di Luciano, che, laborioso come una formica, per tutto l’inverno - a dispetto delle cicale - la recupera e la conserva: la userà al posto dei fiori per la processione di agosto, quella del Santo Patrono, con essa le strade diverranno tappeti colorati a motivi geometrici. Per la processione di giugno, invece, quella tradizionale del Corpus Domini, i disegni a terra verranno realizzati coi fiori . «É la casa vecchia di zia Elvira – mi spiega Carmelina – ci ha dato le chiavi per farci tenere il materiale. Una sorta di piccola sede della nostra associazione».
Ce ne vuole di fantasia, penso sopprimendo l’esclamazione. Dai muri viene fuori odore di umidità e polvere, il soffitto di tegole a vista porta a immaginare una sorta di soppalco, i mattoni in gres colorato, che cambiano di stanza in stanza, anche un tocco di civetteria. Ma il fascino sta in quelle irregolari geometrie, all’epoca in cui la modernità non aveva intaccato i cicli umani, né i rapporti. «In quella stanza – ricorda Giovanna – c’erano due cassepanche piene di vestiti che venivano dall’America. Fu in occasione della farsa di Carnevale di non ricordo quale anno che le svuotammo per mettere su una piccola commedia, e la recitammo nel grande salone che c’è lì accanto».
Le foto. Ricordi quelle foto papà? La mamma le conserva gelosamente in un cassetto, su nell’armadio. Da piccola le scorrevo per indovinare i personaggi nascosti dietro quel trucco. Ma più che i vestiti e gli occhialoni, a nasconderli erano gli anni, troppi perché io riuscissi – bambina - a riconoscerli tutti. La farsa era un foglio che tu conservi ancora gelosamente con tutte le battute di quegli attori improvvisati; la farsa era un rudimentale filmato senza voci che proiettavi orgoglioso sul muro di casa; la farsa era l’eco della tua spensieratezza che in automatico diveniva l’eco della mia. Un salone così grande, aveva la zia Elvira, che pareva contenere il mondo, tanta era la gente assiepata in ogni angolo. Il piccolo grande mondo del Borgo e di piazza Garibaldi.
Mamma mi cercava urlando e malediva il mio nome, trovava sempre qualcosa da farmi fare, soprattutto d’estate nel primo pomeriggio; ed io scappavo dal nonno che, con le sue parole pronunciate a metà, il suo incedere ansimante, la sua presenza costante, era una sorta di rifugio. Nonno mi aggiusti i pattini? E lui, paziente, a trovare il rimedio. Nonno ho bucato la bicicletta. E lui, prontissimo, a riparare la ruota. Nonno ho fame. E lui tirava fuori le mille lire, che odoravano di tabacco, e mi spediva al panificio di Cataldo. Marciapiedi, marciapiedi.
Dai gradini della casa del nonno, chiamavo Lidia che abitava proprio lì davanti. Si affacciava zio Fufù, suo nonno, fratello del mio, pronto come il mio, che aveva rughe profonde simili al mio ma il volto più chiaro e baffuto da cui traspariva un’antica bellezza. Era gioviale, scanzonato, aperto e gentile con tutti; un bicchiere di vino ed era festa: rispolverava il suo vasto repertorio di muttetti e stornelli a doppio senso; mentre zia Maria, una sorta di perpetua, piccola e graziosa con i suoi capelli d’argento, si raccoglieva su se stessa e si metteva la mano davanti al muso. Scandalizzata.
Zio Fufù, così estroso e sorridente, era amato dagli uomini e dalla donne, al contrario del nonno, schivo e riservato. E forse anche un po’ geloso.
Quel giorno avremmo preparato l’Infiorata, come ogni anno nel borgo dal 1963.
C’è odore di muffa nella casa di zia Elvira, e tante porte che mi piacerebbe aprire per sbirciarci dentro «Questa stanza a forma di triangolo cos’è?»
«Quello è un deposito. La casa ha molte stanze e un bel giardino, e alla fine ci sono due vasche enormi in cemento dove le donne lavavano le coperte»
«E chi veniva?»
«La zia Elvira ospitava tutti»
«E cosa ci sta dietro quella porta?»
«Da lì si accede al corridoio»
«E dietro quell’altra?»
«Il salone»
«Ci posso andare?»
«Mi spiace, è tutto chiuso».
Chiuso. Spiace soprattutto a me, papà. Verrebbe da buttarle giù a spintoni quelle porte scricchiolanti. Chiuso, con tutta questa storia che si gonfia, e pressa, e rischia di esplodere e farla a pezzettini, questa casa. Avrà almeno cent’anni, e in essa ancora vivono le foto custodite dalla mamma nell’armadio, i filmati a bobina della tua rudimentale telecamera, i racconti che in ognuno prendono una forma diversa, le pagine di quella farsa buttata giù a macchina da scrivere, e un po’ tutti noi quando fummo bambini, e forse anche adesso, da più o meno grandi. E anche il rito a cui si lavora è molto vecchio.
«Come nasce l’Infiorata?»
«Fu mio nonno – mi spiega Carmelina – a portarlo qua. Era un vigile urbano, si recava spesso in altri paesi, e fu durante uno di questi viaggi che la vide e se ne innamorò. Così in occasione del Corpus Domini del 1963 anche Bovalino ebbe la sua prima Infiorata. Da allora, ogni anno, nonostante lutti anche molto gravi, la processione più sentita del paese ebbe sempre ad accoglierla questo grande cuore, all’entrata del Borgo, fatto di gerani rossi e oleandri. Me lo ricordo, il nonno, chiudere la strada con una sedia. E lui se ne stava impettito, orgoglioso, rigorosamente in divisa, per proteggere i disegni della sua Infiorata dal passaggio delle auto»
«E perché riproporla ad agosto?»
«Da dodici anni a questa parte, oltre alla classica infiorata, lavoriamo per gli addobbi della festa del Santo Patrono. Il nostro è un borgo di pescatori, il nucleo abitativo più antico di Bovalino. Il passaggio del Santo protettore del mare ci emoziona e ci suggestiona quasi quanto il passaggio di Gesù»
«Ma c’è il problema dei fiori…»
«Essendo agosto un mese digiuno di fiori, i disegni a terra vengono fatti con la segatura colorata. Il tema di quest’anno saranno i mosaici della Villa romana di Casignana, di cui riproporremo i rosoni più belli. I lavori resteranno esposti dal giorno prima della processione per tutti i visitatori che vorranno fotografarli».
«Quanto tempo richiedono i preparativi?»
«Tutto l’anno. Gli addobbi che andranno a incorniciare strade, alberi, aiule si preparano con molti mesi di anticipo. Ogni sera, sia essa di primavera o di inverno - si tira fuori un dettaglio, un fiore, un particolare, tutti ricavati da materiali di riciclo e poveri. Naturalmente stabiliamo prima un tema ben preciso, e poi studiamo i disegni a terra in armonia con le decorazioni del contorno»
«Ma tanto lavoro per pochi minuti...»
«L’impegno vale la devozione a Gesù e a San Francesco, e il rapporto simbiotico che ha la gente con il mare. Ad esso si affidavano i nostri padri nelle notti di pesca.
L’impegno vale il ritrovarsi, da oltre di cinquant’anni, ancora insieme sulle stesse strade, e sempre più numerosi con l’incedere dell’estate. Da tutte le parti d’Italia torniamo nel Borgo per l’Infiorata, come quando eravamo bambini».
Zia Maria partiva di buon mattino con una busta attaccata al braccio e un grosso paio di forbici, tornava verso mezzogiorno con la busta piena di rose e di altre rarità floreali che chissà dove aveva procurato. Sorvegliava quel suo pacchetto gelosamente, anche mentre puliva i fiori che avevamo raccolto nel primo pomeriggio. Poi a noi bambini ci vinceva la noia, mollavamo tutto e divoravamo le more rimaste nei contenitori, more bianche e more rosse, rubate ad un albero peccaminoso che sembrava offrircele per distogliendoci dai gerani e dai santi. E, come nella favola di Barbablù, ci lasciavano le mani macchiate dalla colpa e i vestiti inservibili, per l’espiazione di quest’ultimi ci avrebbero pensato le mamme a suon di ciabatte e sgridate. Finite le more, si passava alle mandorle, di cui avevamo piene le tasche. Lidia spiegava che, dentro quel guscio verde che pareva un limone, in realtà si nascondeva un frutto dolcissimo. Bastava trovare una pietra abbastanza grossa per romperla, e il gioco era fatto. Allora la piccola Natalia iniziava a maneggiare pietre, e zio Fufù si disperava. Io non fui molto fortunata, almeno all’inizio: le mandorle finavano stritolate dall’impeto dei colpi, e prima che ci finissero anche le mie dita intervenne il nonno.
A volte provi a spiegarmelo anche tu, papà, che facevate a gara da piccoli per chi, camminando scalzo, rimediava i piedi più neri. Ecco, se dovessi spiegarti il sapore di quei frutti, dovrei partire da questo...
Le zie stavano davanti a me, e ripulivano noiosamente i fiori dai gambi, dividendoli nelle buste per colori. Zio Fufù sorvegliava i lavori e la strada, degno genero del comandante Sofia, mentre qualcuno tracciava con il gesso i contorni del cuore; zia Maria sorvegliava la sua busta di rose e margherite che solo al momento opportuno avrebbe consegnato orgogliosa a mani affidabili; e il nonno da oltre la strada sorvegliava tutti, sbuffando e fumando la pipa. Io e Lidia stavamo con le spalle attaccate al muro, sedute sul marciapiedi che dal Borgo porta a piazza Garibaldi, e da piazza Garibaldi al Borgo. I piedi scalzi e neri.
Coi sassi ormai liberavamo le mandorle con una certa maestria. E le tiravamo che erano ancora impalpabili, soffici, candidi, acerbi frutti, con quelle nostre mani nere, sporche di more e di terra. Quasi fossero un trofeo. Un sapore oggi dolcissimo, papà. Antonella Italiano