I fichi: alimenti da montanari
- Leo Criaco
A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, lentamente ma inesorabilmente inizia il declino dell’economia agricola, e contemporaneamente incomincia il boom economico. In quel periodo storico, le popolazioni dell’entroterra e delle campagne del nostro massiccio montano hanno “subito” una migrazione epocale (questo triste fenomeno ha interessato tutte le contrade del Meridione) verso le zone costiere e soprattutto, in direzione delle aree industriali delle regioni del nord Italia e del mondo intero. In pochi decenni migliaia e migliaia di contadini, braccianti, carbonai, massari, pastori e artigiani sono stati costretti dalle politiche miopi e scellerate dei nostri governanti, asserviti alle lobby industriali del Nord, a lasciare i loro terreni, le loro case, i loro animali, i loro saperi, il loro mondo (dignitoso) rurale e arcaico, per ritrovarsi catapultati in una dimensione socio-economica completamente diversa.
Questo grave e malinconico esodo ha sradicato dal proprio ambiente quasi l’intero popolo aspromontano che per millenni lì era vissuto con fierezza e in perfetta armonia con la natura; ciò ha causato da una parte l’abbandono del territorio montano e collinare, dall’altra parte l’urbanizzazione selvaggia della fascia costiera e della bassa collina. Con lo spopolamento delle aree rurali e montane, migliaia di ettari di terreno non vennero più messi a coltura (normalmente venivano coltivati con varietà locali, ad ortaggi, cereali e legumi), e gli uliveti e i frutteti vennero abbandonati al loro destino con conseguente e prevedibile scomparsa di numerose varietà autoctone di melo, pero, ciliegio, susino, vite, fico.
Tra tutte le specie frutticole allora coltivate, la più importante era sicuramente quella del fico, essa costituiva una risorsa rilevante per l’alimentazione: infatti i suoi siconi (il sicone o siconio, comunemente detto fico, è la parte commestibile della pianta che, normalmente, noi mangiamo è un’infiorescenza, formata da un ricettacolo a forma di trottola – o di pera – più o meno allungata, carnoso e ricco di zuccheri a maturità, cavo, con le pareti rivestite da fiori piccolissimi e con una apertura, nella parte apicale, detta ostiolo. Tale apertura consente l’ingresso dell’insetto impollinatore Blastophaga psenes. I numerosi semini, detti acheni, presenti nella polpa sono i veri frutti del fico). Freschi ed essiccati, insieme alle castagne, erano una fonte preziosa e indispensabile di calorie per nutrire le popolazioni aspromontane nei lunghi e frequenti periodi di carestia.
Da tempi lontani il fico è coltivato nei nostri territori, e fino a circa 40 anni fa il paesaggio della fascia costiera e collinare (fino ai 700 metri) era caratterizzato dalla presenza di migliaia di piante, isolate, consociate all’ulivo, al pero, alla vite etc., o riunite in piccoli ficheti. I contadini usavano vendere, dopo la perizia fatta dai famosi stimaturi, i fichi sulla pianta. In questi ultimi decenni la sua coltivazione ha perso molto terreno, e il numero di piante è diminuito drasticamente. Una ripresa della sua coltivazione potrebbe rappresentare un’opportunità occupazionale, anche perché in questi ultimi anni la richiesta di questi frutti è in netto aumento, tant’è che l’Italia, per soddisfare il suo fabbisogno, importa dalla Turchia più di 500 tonnellate di fichi. In alcune aree della Calabria la coltivazione di questa antica pianta è molto sviluppata; nella provincia di Cosenza, su una superficie di poco superiore a 600 ettari, si producono circa 70.000 quintali di fichi della varietà “dottato”.
Il “fico di Cosenza”, pochi anni fa (2011) ha ottenuto la denominazione di origine protetta (Dop), e le imprese coinvolte, riunite in un consorzio, sono più di 150. Il fico appartiene alla famiglia delle moraceae, si presenta sotto 2 forme botaniche: il fico domestico (ficus carica sativa) e il fico selvatico (ficus carica caprificus). Il primo è una pianta provvista di fiori femminili (pianta femmina) e produce siconi commestibili, il secondo (nome locale: ficara servaggia) fornisce il polline (pianta maschile), e i siconi non sono commestibili in quanto i ricettacoli non diventano carnosi e sono privi di zuccheri. La pianta di fico ha un apparato radicale molto sviluppato, si eleva fino a 8-10 metri e ha un tronco robusto, corto e ramoso. I rami ricchi di midollo sono provvisti di gemme terminali. Ha foglie lobate (normalmente da tre a cinque lobi a seconda la varietà) e caduche. Le foglie e i piccoli siconi rimasti immaturi, a fine raccolta (metà settembre), venivano utilizzati dai pastori come foraggio per gli ovini e i bovini.
La rottura dei rami, delle foglie, e il distacco dei frutti provoca la fuoriuscita del lattice (latte di fico) che i nostri pastori, fino a pochi anni fa, utilizzavano per cagliare il latte. Il fico domestico produce due tipi di siconi: i fioroni (nome locale: gotti) che maturano a fine giugno, e i fichi veri che giungono a maturazione in agosto settembre, fino a novembre alcune varietà. Le varietà di fico che non producono i fioroni sono dette “unifere”, le altre si dicono “bifere”.
La formazione del frutto può avvenire mediante fecondazione (il polline del fico selvatico viene veicolato nei siconi del fico domestico dall’insetto blastophaga) o per partenocarpia (in questo caso i frutti si formano senza che avvenga la fecondazione e i semini contenuti nella polpa sono vuoti). Quasi tutte le varietà presenti nei nostri territori presentano questo ultimo tipo di fecondazione, nel passato le varietà di questo antico frutto erano molto numerose, con l’abbandono e il taglio di moltissime piante, svariate cultivar (varietà) (rosicara, fontanarosa, etc.) si sono o si stanno perdendo e di alcune ne resta ancora qualche raro esemplare e sarebbe opportuno una appropriata reintroduzione.
La cultivar più diffusa in Italia e nella nostra provincia (circa l’80-90% delle piante presenti) è il dottato. È una pianta di taglia notevole e produce fichi bianchi, dolci e delicati, idonei al consumo fresco e all’essiccazione. I nostri antenati usavano principalmente i fichi di questa cultivar per essiccarla. I siconi destinati all’essiccazione venivano e vengono raccolti asciutti e a completa maturazione, staccandoli con il peduncolo. Una volta raccolti, i fichi interi o tagliati in due metà (che restano unite) venivano disposti sulle ferrazze e posti al sole. A essiccazione avvenuta, normalmente dopo 3-4 giorni di esposizione, i fichi venivano ‘mpizzati in stecche a coppie con una tipica forma a otto, ottenendo così le cosiddette schiocche che subito dopo si infornavano per pochi minuti, circa 10-15, e poi venivano conservati per 7-8 mesi nei tipici casciuni.