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Il papavero, un fiore appariscente

  •   Leo Criaco
Il papavero, un fiore appariscente

Fino agli anni ‘70 del secolo scorso, nei nostri territori, la coltivazione del grano era ancora fiorente tant’è che la superficie occupata superava abbondantemente i mille ettari. L’abbandono di questa coltura che in quel tempo segnava il paesaggio, le economie locali e la vita della nostra gente, inizia con lo spopolamento delle aree rurali e con il declino della economia agricola.

In questi anni, non c’era contrada senza la presenza di questo indispensabile cereale, infatti quasi tutti i contadini ogni anno, riservavano nu campu (mai lo stesso) a questa coltivazione, soprattutto, per autoconsumo.

Le varietà di frumento utilizzate per la semina, fino agli anni Trenta del ventesimo secolo, erano principalmente autoctone, in seguito, piano piano, furono soppiantate da una nuova cultivar di grano duro, selezionata dal noto genetista Nazareno Strampelli: la Senatore Cappelli o Cappelli che era più produttiva (circa 12-14 quintali per ettaro), e forniva una semola di ottima qualità. Allora, coltivare il grano era tremendamente faticoso in quanto la meccanizzazione era inesistente e tutte le operazioni colturali venivano fatte a mano (semina, zappettatura, mietitura, e fase iniziale e terminale della trebbiatura) e con l’ausilio degli equini (cavalli, muli) o dei buoi (aratura, erpicatura, fase centrale trebbiatura).

L’operazione più difficile e faticosa era sicuramente la zappettatura che aveva lo scopo principale di eliminare tutte le erbe infestanti presenti nel “seminato”, ed era eseguita con una piccola zappa detta zzappuglia o zzappetta. Le erbe infestanti, dette malerbe, sono tutte le piante indesiderate presenti in una data coltura: quelle più frequenti nel frumento, soprattutto nel versante orientale aspromontano, erano (e sono) la jina (avena fatua) e la paparina (papavero comune). Quest’ultima specie è molto appariscente e in caso di mancato o malriuscito diserbo colora di rosso intenso e brillante il campo di grano.

Il papavero comune (Papaver rhoeas) è una pianta erbacea annuale provvista di una radice gracile e fittonante da cui si dipartono diverse radichette laterali. Ha un fusto peloso, eretto e ramoso, alto 60-80 centimetri. Le foglie basali di forma ovale e dentate sono lunghe circa 15 centimetri, molto più piccole e senza picciolo quelle sul fusto. I fiori sono grandi, vistosi e solitari, composti da 2 sepali precocemente caduchi, e da 4 petali di colore rosso vivo, macchiati di nero nella parte basale. Il frutto è una capsula globosa contenente numerosi e minuscoli semi (ogni pianta può produrre fino a 20.000). Cresce, normalmente, nei campi di cereali, nei seminativi non irrigui e negli incolti della fascia costiera sino a 1000 metri di altezza.

Nei suddetti ambienti vegetano anche il papavero spinoso (Papaver hibrydum) e il papavero a clava, entrambi hanno petali rossi e caratteristiche morfologiche simili al più diffuso rhoeas.

Nei nostri ambienti, oltre ai papaveri summenzionati si rinvengono altre due specie: il papavero setoloso (Papaver setigerum) e il papavero cornuto (Glaucum flavum). Il primo ha una taglia leggermente più grande del comune e si distingue facilmente grazie al suo colore rosa o violaceo, con macchia scura alla base dei 4 petali. È una pianta rara, vive a quote più basse (fino ai 700 metri) e negli stessi ambienti delle specie sopra descritte.

Il secondo si distingue facilmente dagli altri papaveri in quanto ha i 4 petali di colore giallo dorato, e i frutti a capsula allungata (15-30 centimetri di lunghezza) simili ai tondi baccelli di alcune varietà di fagioli. È una pianta robusta e molto ramificata, vegeta nelle spiagge, nelle dune e nei terreni prospicienti il mare. Tutte le specie dei papaveri appartengono alla numerosa famiglia delle papaveracee (fa parte di questa famiglia anche il papavero da oppio “Papaver somniferum” dal quale si ricava la morfina e l’eroina). In erboristeria i petali del papavero comune vengono utilizzati sotto forma di infuso e di sciroppo, per combattere l’insonnia, la tosse e per calmare l’eccitazione nervosa. Fino a qualche decennio fa, alcune popolazioni aspromontane raccoglievano e consumavano le piante giovani e tenere di questa specie.


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