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Ente Parco. «La montagna non vuole più guardare…»

  •   Giuseppe Bombino
Ente Parco. «La montagna non vuole più guardare…»

L’onta di una viltà può fare male, soprattutto quando questa arriva a rappresentare una realtà purtroppo tanto amara quanto vera e che per questo lacera lo spirito, dilania l’anima.

La viltà in questione risiede nella continua e pesante assenza di carattere nella struttura sociale e politica del nostro territorio, che non riesce evidentemente a generare quel sano movimento di reazione e di riappropriazione della propria identità culturale.

Troppe cose stanno accadendo sotto questo cielo d’Aspromonte perché la montagna stessa non s’indigni e cerchi l’astrazione da sé e dal molle peso di quegli uomini che dovrebbero ammirarne il disegno, valorizzarne la sostanza, esaltare il racconto di come Ella appare ed è. Allora sarebbe forse meglio per tutti noi non vedere la miseria di certa umanità, non fiutare l’inganno, non sentire l’infamia, non toccare il vittimismo e inghiottire la mediocrità che contrasta con la grandiosità di questa terra. Si assiste ormai da tempo al paradosso secondo il quale la nostra gente avvolta dal torpore e dall’incoscienza ha deciso di mettersi da parte rispetto alla trama delle sua stessa storia, ha deciso cioè di farsi raccontare da altri, di farsi dire cosa essa sia, cosa è giusto, cosa è sbagliato, cosa può esser conveniente persino per i propri figli.

LA MONTAGNA NON VUOLE VEDERE LA NOSTRA ARTE DISSACRATA

L’attenzione e la cura che si richiede di solito agli artisti nell’esercizio del loro “mestiere” e nell’espressione del loro ingegno è l’interpretazione d’una visione che conduca verso l’idea di qualcosa che non s’è ancora veduto o ascoltato, verso un presupposto sociale. Nel nostro paese, poi, dove l’arte e la cultura esistono come ragione vitale e sociale, esse costituiscono il momento creativo per la formazione di opinioni oltre che motivo pregnante e questione fondamentale.

Accade, però, che il numero di coloro che lavorano ad un pensiero originale, che abbia la forza di mostrare una direzione, un merito, si vada sempre più assottigliando, riducendo e ridicolizzando, poiché tende a far passare per arte e artistico il risultato di improvvisazioni del tutto discutibili e per questo non riconducibili al bello e all’universalità del pensiero che da sempre lo sottende e lo connota. E mentre critici ed intellettuali plaudono all’imperante decadentismo, ecco che accorrono i cercatori di fortuna ai quali, sempre nel nostro paese, va sempre bene. Improbabili artisti e comici da palcoscenico diventano fini intellettuali, così da aggiudicarsi persino qualche premio Nobel. Se pensiamo che lo stesso prestigioso premio venne assegnato a Pirandello nel 1934, si capirà lo sconforto della situazione in cui versiamo. Ma è questa la cultura che ci derivò dai molti secoli di storia nostra? Questa l’arte e la letteratura che vogliamo diffondere? Ci pare che ormai ben poco sia ascrivibile al concetto di arte, di creazione unica e di bellezza universale. Pensiamo all’opera di “quell’ispirato” fotografo, annoverato come grandioso artista, che null’altro ha saputo fare se non accostarsi ai maestosi Bronzi con velo bianco e boa; roba da far morire d’invidia le nostre figlie più piccole che ancora giocano con le bambole!

Certo che il contributo all’arte deve esser stato tutto personale, si direbbe “intimo”, e comunque dimostra come tutto si possa piegare al capriccio di questi autorizzati padroni del messaggio culturale. Un inutile gioco malizioso rimasto comunque lontano dagli obiettivi e dai contenuti annunciati, dissacratorio si, ma poco efficace. Altri messaggi in questa operazione, non credo vi siano. Ecco perché la Montagna non vuole vedere!

Resta dunque l’amarezza di non essere riusciti, neanche questa volta, a tutelare i nostri beni ed i nostri interessi, tutte quelle cose che meglio ci rappresentano e che dicono chi siamo. Un’altra volta vediamo offesa e ridicolizzata l’idea della cultura, del territorio e della gente di questa terra. Forse sarebbe meglio non vedere. Già …, e la Montagna che tutto vede e tutto conosce, lo sa bene e per questo ha scelto di non guardare per non vedere ciò che da tempo ha gettato ombre e grettezza nel caparbio carattere che l’aveva animata.

LA NOSTRA CULTURA IN MANO A GIULLARI E SALTIMBANCHI

Si è riusciti, così, nell’impossibile intento di annoverare come arte ciò che universalmente non appare tale; in Italia i manipolatori dell’informazione hanno reso ufficiale l’intellettualismo di un gruppo di irregolari, col rischio di veder finire la cultura come monopolio esclusivo di chi la esercita per diletto e ornamento.

Altri ancora, come il signor Vittorio Sgarbi, non sono che urlatori da palcoscenico e avventurieri, abili solo a costruire teorie aggressive e prepotenti tentativi di estorsione di ciò che ci appartiene per cultura e per diritto, snobbando la nostra terra, sciorinando sciocchi sarcasmi e ipotizzando la “sfiga” dei nostri Bronzi nell’essersi trovati a naufragare lungo le nostre coste. Ebbene un motivo deve pur esserci stato se la rotta di quella nave (ammesso che i due guerrieri non siano stati realizzati proprio da noi; sarebbe interessante, a tal proposito, “staccarsi” dalle facili e più comode conclusioni cui si è giunti per spiegare il ritrovamento delle statue e compiere lo sforzo di una ricostruzione dell’intera vicenda su base filologica) si compiva presso quel tracciato e non teneva conto da allora di Rimini o Riccione. Certo il signor Sgarbi conosce fin troppo bene la storia per non testimoniare che fummo in quei secoli culla e centro del sapere, mentre altrove si cominciava solo a sillabare qualche parola e ci si dedicava a muovere la clava.

Il rischio è che la cultura nelle mani incerte di questi “agitatori” perda la sua universale utilità e diventi arma di combattimento e di cattiva educazione.Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica è in crisi e impegna tutte le forze della società per salvarla da una grave malattia. E noi avremmo chiamato costoro a salvare la nostra cultura? E il dramma della cultura italiana, io penso, cominciò proprio da qui …. per non aver compreso che la cultura è forse un’altra cosa, è quel un segno dei tempi, quell’orientamento dell’intelligenza collettiva che attraverso il genio del singolo universalizza il pensiero di molti. Ecco che comici e cabarettisti possono assurgere a modelli culturali da esportazione. Pensate che equivoco!

A nessuno è mai venuto in mente che questi personaggi, la cui fortuna gli deriva dall’aver stretto in mano il mestolo delle pubbliche emozioni, non sono che parolieri portati dal tempo e dalle stagioni. Il dilettantismo crede di farla franca in un ambiente che non chiede nulla alla cultura se non qualche pausa, un canzonetta e un sorso d’acqua. E se la civile opinione continuerà ad assoggettarsi a tali parlatori da palcoscenico finiremo col credere che la cultura sia uno spettacolo da oratorio o da fiera, con finti scrittori, finti poeti, finti letterati.

L’incultura e il disprezzo della cultura, viene dagli stessi che si pretendono colti.

Dare l’idea d’una cultura asservita e spinta dall’ingranaggio di un palinsesto è un fenomeno che potremmo dire di “culturismo intellettuale”, e cioè il bisogno che hanno certi movimenti d’opinione di contraffare le emozioni per ridurle a qualche cosa di pronto e di immediatamente disponibile per l’uso.

L’INCAPACITÀ DI ESSERE COSCIENZA LIBERA

Non vorremmo assistere alla perdita del senso e della ragione delle cose, perché se ciò avvenisse finirebbe anche il pensiero. L’agonia del pensiero uccide le prospettive e il divenire delle cose. Se niente ha un seguito, niente è consequenziale. La logica vitale del pensiero implica lucidità e azione mirata a sostenere, attraverso solide impalcature culturali, ciò che ammiriamo.

La Montagna preferisce non vedere per alleviare le pene e le piaghe di una società vittima di se stessa, delle proprie limitazioni e della mancata affezione all’unitarietà di quel genio che la compose. La poesia, la grazia, la bellezza sono certo virtù dell’animo umano, ciò che ci unisce ed eleva a Dio, al nostro Redentore. Per questo l’arte si esprime nelle sue diverse forme e per questo è espressione e sostanziazione del pensiero, di quella visione che non s’è ancora realizzata.

Quando una società smetterà di cercare, comporre e realizzare il bello, l’opera d’arte, smetterà anche di vivere, perché non avrà pensieri da esprimere e realizzare attraverso la sua unicità. Ricerchiamo queste doti, promuoviamo l’arte, le nostre opere migliori, esprimiamo quel bello che ci elevò dalla materia all’esser pensiero puro e primordiale. Promuoviamo con azione sistematica i migliori modelli e le migliori prassi educativo-culturali. Sosteniamo il senso civico, prima che una cultura della legalità basata sul virtuosismo idealistico privo di conseguenze, pur se corredato di innumerevoli convegni e simposi. Serve la formazione di coscienze libere, prima che di ideologie, che permetta la crescita di una consapevolezza collettiva. Allora un giorno, forse, sapremo meritare lo sguardo fiero della nostra Montagna.

IL GIOCO AL MASSACRO E IL TEATRO DELLA RETORICA

Certi personaggi, poi, vorrebbero insegnarci, da qualche cattedra, come dovremmo comportarci, come essere retti, onesti, leali. Di qui, poi, l’atroce inganno e la folle e dolorosa teoria secondo la quale saremmo tutti criminali e nessuna salvezza ci spetterebbe; ci dovremmo dunque consegnare nelle mani di chi non ha neanche provato a celare il suo disprezzo per noi. E dovremmo lasciar parlare di noi, far muovere le nostre azioni, guardando a questi tragici avvoltoi e ipocriti saltimbanchi? Verrebbe da pensare che queste siano facili strategie per soggiogare un popolo già represso dal profondo senso di inadeguatezza che l’ha pervaso, senso che, per certi aspetti e certe postume reazioni, potrebbe avere ragion d’essere. Resta però un dubbio: a chi la convenienza di tale feroce gioco? A chi converrebbe mai annientare l’identità di un popolo, dissacrarne lo spirito, deturparne il volto? La risposta è consequenziale. Non è forse più facile sottomettere un popolo stigmatizzandolo, dicendo che nulla di buono gli deriva, privarlo, dunque, della sua cultura o peggio ancora mettendola in ridicolo?Nel tempo ne abbiamo sentite di belle e qualcuno poi ha voluto raggiungere la più alta vetta dell’intelletto, spiegandoci che i nostri beni, opere d’arte d’inestimabile valore, sarebbero giunti a noi per pura casualità.

Guardando alle recenti vicende expo-sitive nazionali, ci siamo fatti anche un’idea di tutto questo zelo e di tanto affanno. La svalutazione rende più facile la predazione e la trasformazione, così si diviene il luogo dove prendere ciò che serve, dove posizionare ciò che altrove non si vuole. Ma noi parlammo una lingua assai antica, vedemmo sorgere civiltà e passare i secoli, fummo centro del mediterraneo e, per questo, preziosi alleati dei grandi popoli della storia. Spandemmo saggezza e poesia, facemmo scuola e filosofia, costruimmo il pensiero, elaborammo teoremi matematici e discutemmo sulle prime forme di democrazia.

E allora per quanto tempo ancora faremo finta di non saper chi siamo e subiremo l’infamia e la calunnia? La montagna che conserva la memoria dei tempi e lo spirito che compose la storia, Ella, non si riconosce in ciò che avviene, non vuole più guardare lo spettacolo orribile dell’indifferenza, dell’ignoranza e il trionfo della retorica, che s’accosta alle cose quando ormai l’irreparabile è accaduto. La svendita di quel genio che fu principio creatore e regolatore, non può essere mortificato dalla contingenza, non possiamo più rinunciare ai nostri simboli, a noi stessi.

La Montagna non vuole più vedere, sentire, ingoiare i facili slogan di protesta, le fiaccolate, i sit-in, per molti solo vetrine smentite da una quotidianità vissuta in un’immobilità avvilente e imbarazzante. La montagna non vuole più vedere, vuole coltivare il suo silenzio, in attesa di ritornare a quel pensiero che il suo talento costruì nei millenni e perfezionò attraverso i suoi giusti figli.


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