L’inchiesta. Il progetto della “Grande Reggio”
- Maurizio Malaspina
Saranno stati vivaci e appassionati i giorni di quel febbraio 1927, quando l’ammiraglio Genoese Zerbi denunciando la condizione di una Reggio “compressa nel suo territorio da una rete di piccoli Comuni che si erano formati in tempi lontani, attraverso le varie dominazioni del Medioevo e dell’età moderna, a danno della circoscrizione territoriale stessa della città”, di fatto configurava l’annessione di 14 (in seguito ridotti a 10) piccoli e floridi Comuni.Le cronache li descrivono come giorni intensi di dibattito, confronto, nuovi scenari, speranze di progresso e presagi di disastro, che hanno coinvolto non soltanto la politica o alcune categorie della società del tempo, ma le comunità tutte, animate dalla percezione di vivere un passaggio cruciale per il proprio futuro. Per dare una dimensione al fervore del momento, dal quale è nata la cosiddetta “Grande Reggio”, basta pensare all’esatto contrario di quanto stiamo vivendo oggi con il processo di costituzione della città metropolitana: a fronte di un passaggio straordinariamente importante che richiederebbe dinamicità di ragionamento, entusiasmo, voglia di essere parte di un processo decisivo, l’unico fervore che si registra è la corsa ad accreditarsi come possessori unici della soluzione per costruire la città metropolitana più bella del mondo.
Il progetto della “Grande Reggio”
Ma torniamo a quel febbraio 1927, quando i Comuni di Villa San Giovanni, Cannitello, Campo Calabro, Fiumara, Catona, Salice, Villa San Giuseppe, Rosalì, Sambatello, Gallico, Podargoni, Cataforio, Gallina, Pellaro passarono al territorio di Reggio Calabria, con poche perplessità e grandi aspettative. Solo quattro anni dopo le perplessità, invece, divennero tante e tali da palesare per intero i limiti dell’operazione. Fu talmente chiara l’incapacità di gestire un così vasto ambito territoriale e di governare la straordinaria varietà di territori, comunità, risorse, che nel 1933 l’amministrazione centrale si vide costretta a riconsegnare piena autonomia ai territori gravitanti su Villa San Giovanni (oltre Villa San Giovanni, Fiumara, Campo Calabro, Cannitello). Agli altri fu concessa una sorta di autonomia “soft” con l’istituzione delle delegazioni municipali in ognuno dei Comuni soppressi, alle quali era affidata la gestione di servizi primari come la manutenzione, la raccolta Rsu, l’anagrafe. Ma cosa rappresentavano i territori che dopo il 1933 continuarono ad essere parte del Comune di Reggio e cosa è stato di quello straordinario patrimonio tanto appetibile da spingere la città a rivendicarne l’annessione? In gran parte erano centri a forte vocazione agroproduttiva, in contesti ambientali straordinariamente vantaggiosi per l’agricoltura grazie all’abbondanza di risorse idriche derivanti dai corsi d’acqua. E poi contesti paesaggistici di straordinaria valenza e un patrimonio identitario estremamente caratterizzante e diversificato. Si aggiunga che quasi tutti erano borghi medievali in gran parte superstiti, almeno nella conformazione urbana, al terremoto del 1908, e di fatto presentavano nuclei storici ricchi di edilizia tardo-settecentesca e un’economia non solo legata alla terra, ma con un buon numero di opifici per la trasformazione delle produzioni agricole (dall’essenza del bergamotto ai mulini ad acqua, ai frantoi). E poi quell’industria serica che aveva nelle industrie di Villa San Giovanni una delle eccellenze a carattere europeo, con l’allevamento diffuso del baco da seta in ogni casa di un vasto territorio.
Pellaro, Catona, Gallico
Provando una ricognizione di ciò che resta di quei territori e di quel patrimonio produttivo nella configurazione ante 1927, partiamo dai tre centri rivieraschi più importanti, Pellaro (unico nella zona sud della città), Catona e Gallico, ormai in gran parte assimilati nella dimensione della città compatta con i nuclei originari ancora leggibili nei rioni pescatori prossimi al mare, come borgo Cecilia a Gallico Marina, e il nucleo antico di Spontone tra Catona e Villa San Giovanni. Urbanizzazione spontanea, di pessima qualità, spesso abusiva e permeata da quel non finito che è diventato significativo di una città allo sbando, ma al contempo ancora con tanti “vuoti” che, con colture superstiti e verde spontaneo, attenuano un impatto che disorienta.
Arghillà
Da Catona saliamo ad Arghillà attraverso via Scopelliti, già corso d’acqua e oggi strada. Un tempo pianoro di ricchi vigneti baciati dal sole, Arghillà è oggi esempio lampante di ciò che è stato perduto in questa città negli ultimi novant’anni. Un patrimonio economico e produttivo, ancor prima che ambientale e identitario, spazzato via da un’urbanizzazione desolante, un ghetto di povera gente ostaggio delle forme più diffuse di criminalità (dalla spicciola alla più organizzata). Lasciamo Arghillà con un nodo in gola e tanta rabbia, guardando i resti di vigneti che ancora oggi danno la denominazione ad un marchio Igt miracolosamente riconosciuto ad un vino di fatto “a vigneti zero”, e scendiamo a Salice attraverso un’altra stradella ricavata ancora una volta in un ex vallone, al termine della quale ci ritroviamo lungo l’argine destro del torrente Catona.
Salice
Sull’altra sponda c’è il territorio di Fiumara, un contesto ricco di agrumi, un tempo prevalentemente bergamotto. Salice in passato era rinomato per l’estrazione dell’essenza e per l’allevamento del baco da seta. Mentre il borgo antico giace quasi abbandonato alle pendici della collina di Arghillà, oggi Salice è niente di più di una serie di case lungo la strada che porta a Catona, molte non utilizzate, tra agrumeti mal messi e la spada di damocle di una mega discarica di inerti della Salerno-Reggio Calabria realizzata sulla testa dei cittadini.
Rosalì
Da Salice, proseguendo lungo la strada che conduce a Calanna, troviamo Rosalì, altro dei Comuni soppressi nel 1927, quando le cronache lo riportavano “tutto verdeggiante di agrumi, ulivi, gelsi e vigneti”. Rosalì sorge sulla sponda sinistra di un affluente del Catona che praticamente lo taglia in due parti: da un lato il nucleo antico, sulla parte opposta il centro post-1908, dove sorge la chiesa nuova e una improbabilissima piazza, con il classico anfiteatro in costruzione. Lo spopolamento ha letteralmente svuotato Rosalì come la gran parte di questi borghi, a smentire che sia l’accessibilità il fattore che maggiormente incide nella determinazione dei flussi migratori di prossimità (verso i centri rivieraschi). E poi il rischio idrogeologico è altissimo, anche in ragione di interventi sconsiderati di urbanizzazione dentro l’alveo del torrente. Da Rosalì si cambia rapidamente vallata risalendo verso Villa San Giuseppe, passando sul torrente Gallico.
Villa San Giuseppe
Villa San Giuseppe è famoso per le sue arance dalle qualità inconfondibili (cultivar “belladonna”). Le cronache antecedenti l’accorpamento a Reggio ne parlano come di un Comune dalle condizioni economiche particolarmente agiate, in ragione delle rendite derivanti dalle produzioni agrumarie che occupavano gran parte degli abitanti. E poi l’industria serica, il vino e non ultimo il miele, con ancora oggi oltre quattro aziende di lavorazione del prezioso nettare. Dal panoramico balcone di piazza Umberto I si domina la bassa Vallata del Gallico con la distesa di agrumi che un tempo lambiva il mare fino alla marina di Gallico. Oggi la produzione agricola è in forte contrazione: l’atavica incapacità di cooperare, unita ad un mercato sempre più esigente di competitività, ha fortemente intaccato il risultato economico della lavorazione dell’agrume. Si aggiunga una struttura mercatale del tutto incapace, con la sua arretratezza all’ingrosso, di essere al servizio dello sbocco delle produzioni locali, per palesare più di un motivo di preoccupazione. Da Villa San Giuseppe, passando per Gallico superiore e il borgo di Santa Domenica (che nel medioevo accompagnava il nome dell’omonimo monastero che vi sorgeva con “de Dromo”, per il passaggio dell’antica via Popilia), si raggiunge Sambatello, antico comune di origini bizantine, ricco di testimonianze basiliane e arabe.
Sambatello, Mulini
Con la costruzione del secondo lotto della strada a scorrimento veloce Gallico-Gambarie, Sambatello è stato di fatto tagliato fuori, restando emarginato e destinato ad un rapido declino. La sua collina è ancora una grande distesa di vigneti soleggiati, anche grazie a recenti investimenti di imprenditori illuminati che sono riusciti a rilanciare un settore che rischiava, grazie al piano regolatore di Quaroni e alla edificabilità di tutti i pianori affacciati sullo Stretto, di diventare una seconda Arghillà. Da Sambatello, provando a raggiungere Mulini attraverso il percorso dell’antica consortile, poi Statale 184, è facile constatare il risultato dell’abbandono in un percorso accidentato e minacciato da forte dissesto idrogeologico, con frane e smottamenti in ogni dove. Da Mulini, nel territorio di Calanna, in attesa del terzo lotto della Gallico-Gambarie (in realtà Gallico/Podargoni) che attraverserà il fondovalle isolando di fatto i piccoli centri di Laganadi e di Sant’Alessio in Aspromonte, il vecchio percorso si inerpica a mezzacosta lungo il fianco della Vallata del Gallico, in un percorso suggestivo e particolarmente panoramico che ci consente di raggiungere l’ex Comune di Podargoni, ai piedi di monte Marrappà, a oltre trenta chilometri da Palazzo San Giorgio, casa comunale di Reggio.
Podargoni
Podargoni è l’esempio concreto di come muoia un borgo per solitudine, dimenticato e asfissiato dalla distanza dei servizi primari, con i suoi vicoli, la fontana ottocentesca, la statua cinquecentesca della Madonna del Bosco, i mulini ad acqua, i “nasiti”, che farebbero di qualsiasi altro borgo una perla da custodire gelosamente. Qualsiasi, ma non Podargoni, che Reggio ha saputo dimenticare e rilegare nell’oblio di una disperazione che ogni giorno produce macerie. Stessa sorte toccata a Schindilifà, antica frazione del Comune di Podargoni, e a Cerasi, che invece Comune a sé stante non lo è mai stato. Da Podargoni si risale lungo una strada, indegna di essere considerata tale sotto il profilo della manutenzione ma bellissima sotto il profilo paesaggistico e ambientale, che si innesta su quella Reggio-Gambarie che i reggini percorrono per andare a sciare o per fare pic-nic nei boschi (sempre più spesso unico modo che conoscono di vivere la montagna che da sempre offre loro la vita). Risaliamo fino a Tre Aie, scorriamo veloci i resti abbandonati delle colonie che un tempo offrivano soggiorno ai figli di alcune categorie di lavoratori (ferrovieri, forestali, etc.), e scendiamo verso i campi di Cardeto con un panorama sullo Stretto che lascia senza parole.
Gallina
I campi, ancora in parte coltivati, precipitano improvvisamente sulla fiumara del Sant’Agata, conducendoci ai resti dell’antica Motta Sant’Agata, distrutta dal terremoto del 1783 e ricostruita sul versante opposto con la denominazione Gallina. I resti abbandonati di una chiesa, con la cripta e le fosse per le sepolture comuni, la vegetazione tra i muri di pietra, i resti di una cisterna; anche un occhio non esperto legge tra l’abbandono più sconfortante lo splendore della città che c’era attraverso un sito archeologico dalle straordinarie potenzialità. Ai piedi di Motta Sant’Agata l’ex Comune di Cataforio e la vallata del Sant’Agata, con le sue produzioni un tempo interamente votate al bergamotto. Siamo giunti alla fine del nostro viaggio, da qui Reggio è a pochi minuti, anche se qualcuno tanti anni fa ha voluto che anche qui fosse Reggio.
Il declino di Reggio
Tra le tante riflessioni, una, per concludere: nel 1927 si erano accorti che la ricchezza di Reggio stava in quei territori interni e limitrofi che non le appartenevano, e Reggio si è fatta “grande” per raggiungere quelle risorse. Ma quelle risorse Reggio non le ha mai fatte proprie: le ha utilizzate come giacimento, le ha consumate, erose, svilite, senza mai trasformarle in patrimonio comune. Così lentamente le ha prima disconosciute e poi lentamente dimenticate. Come la madre che non alimenta più il figlio che insistentemente ha preteso di adottare, Reggio ha spinto i territori delle aree interne nel rapido declino, per esserne poi travolta. Il declino di Reggio sta nel declino delle sue aree interne e solo la consapevolezza di questo potrà determinare le condizioni per iniziare a cogliere le potenzialità insite in ciò che le sta alle spalle, nel suo territorio collinare e montano, nei borghi lungo le vallate, nelle piccole comunità che ci vivono, nei boschi dell’Aspromonte, nel sistema produttivo minacciato ma ancora non cancellato. Se un giorno questa consapevolezza verrà fuori in chi amministra e in quanti vivono questa città, quel giorno forse Reggio potrà finalmente diventare “grande”.