L’inchiesta. Le macerie di “Urban” 15 anni dopo
- Maurizio Malaspina
È tutta colpa di una calda giornata di luglio, dell’afa irrespirabile e di quella calura che sconsiglia di uscire anche solo per andare al mare. Perché in questo caldo pomeriggio, restando rintanato nella frescura delle quattro mura domestiche che solo le case di un tempo ti sanno dare, decido blandamente di mettere ordine nell’archivio del mio studio, un guazzabuglio di documenti, carte e cianfrusaglie “disorganizzate cronologicamente a strati” sulla mia scrivania. Così, con il cestino della spazzatura vicino, inizio una selezione che ricalca esattamente l’immagine che ho in mente del giudizio universale: dentro o fuori, senza pietà. Un rito che si ripete con cadenza non meno che quinquennale e che so già domani mi getterà nello sgomento, quando non riuscirò più ad essere padrone del mio disordine e non troverò nulla di quanto mi serve.
Gli slogan del progetto Urban
A rompere la monotonia del gesto, ecco però saltare fuori un opuscolo, colorato di un azzurro speranza, con un imbianchino di spalle proteso a dipingere lo skyline di una città colorata, alle cui spalle un sole giallo, grande, sembra sorgere carico di buoni auspici. La scritta che campeggia in copertina mi rapisce: “La città di domani”, incorniciata da una miriade di loghi e simboli, tra i quali campeggia “Pic Urban Reggio Calabria”. L’opuscolo resta sospeso per alcuni interminabili secondi tra faldone e cestino, ondeggia, propendendo a tratti da una parte e a tratti dall’altra, ma alla fine, come spesso accade, non va né dall’una né dall’altra parte. La curiosità fa capolino tra le pagine patinate e un po’ sbiadite dal tempo, decido di dargli un’occhiata. Fin dalle prime pagine vengo rapito da slogan “caldi” e sibilanti come coltelli affilati: “Con urban verso la città di domani”; “Urban, un progetto che diventa realtà”; “E adesso parliamo di sviluppo”; “Gallico-Catona: un lungomare li unirà”; “Ecolandia: anche le città crescono… giocando”; “Urban si anima tra film, concerti e teatro di strada”; “Urban la parola ai cittadini”; “Urban per il rilancio economico di Arghillà”, “Pollicino in giro per la città”. Con l’ultimo slogan il sospetto di essere finito in un libro di fiabe è veramente forte, ma in realtà quello che ho davanti è un opuscolo illustrativo del “Progetto Urban” finanziato alla città di Reggio Calabria con la programmazione comunitaria 1994-1999.
Un Pic del 1994
Il Programma di iniziativa comunitaria (Pic) Urban, avviato nel 1994 con il coinvolgimento di 118 città in tutta Europa (sedici delle quali italiane), è stato uno degli strumenti più efficaci (infatti cancellato dopo la programmazione 2000-2006) nella stimolazione di iniziative di rigenerazione urbana e rivitalizzazione economica, ambientale e sociale di quartieri con fattori di devianza o ritardo di sviluppo. Casi di eccellenza nel sud Italia furono per esempio gli interventi di rigenerazione urbana nel centro storico di Cosenza e di Salerno, che con Urban sono tornati ad essere il cuore pulsante delle rispettive città. Reggio, con l’allora amministrazione Falcomatà (padre), sotto la guida dell’assessore Giovanni Pensabene, puntò sulla zona nord del comune, VIII, IX e X circoscrizione (rispettivamente Catona, Gallico e Archi), un territorio esteso e caratterizzato da quella “non periferia” che identifica i piccoli borghi periurbani annessi nel 1927 con la Grande Reggio. L’opuscolo, al motto “Alla fine contano i risultati”, presenta una carrellata straordinaria di interventi, un elenco interminabile di titoli partoriti da un esercizio di proto-marketing territoriale di grande effetto: “Miglioramento infrastrutture e servizi per la mobilità”; “Riqualificazione strada di accesso collina di “Pentimele; “Realizzazione campo sportivo Catona”; “Riqualificazione piazza Matteotti Catona”; “Riqualificazione Piazza Umberto I Villa San Giuseppe”; “Centro polifunzionale di servizi commerciali, artigianali e ricreativi ad Arghillà”; “Struttura per la valorizzazione dei prodotti tipici locali ad Arghillà”; “Ristrutturazione vecchio mercato coperto ad Archi (Ausilioteca)”; “Centro per la legalità e la democrazia”; “Realizzazione di un’attività educativa territoriale per minori (educatori di strada)”; “Riqualificazione dell’area dell’ex Colonia marina di Catona”; “Centro comunale per l’infanzia”; “Centro per il trasferimento delle tecnologie sociali”; “Ristrutturazione della scuola San Francesco ad Archi”; “Attività di reinserimento lavorativo per ex-tossicodipendenti a Gallico”; “Ecolandia”; “Collegamento lungomare Gallico con lungomare Catona”; “Rete antiviolenza donne”; “Attività di animazione e comunicazione Progetto Urban”. Un elenco dove c’è praticamente tutto e di tutto, un paniere vastissimo di progetti in procinto di essere ultimati, tanto che lo staff della comunicazione non esitava a scrivere “basta guardarsi attorno per scorgere i segnali di una città che si sta risvegliando”.
In giro per la città
Allora decido di guardarmi attorno, quasi quindici anni dopo, e di andare a cercare quei progetti direttamente sul territorio (questo è un viziaccio maledetto che non riuscirò mai a togliermi). Non avendo pregiudizi o preferenze, mi muovo in base all’elenco riportato sull’opuscolo, anche se questo non facilita un comportamento responsabile da parte mia sotto il profilo ambientale, con l’inquinamento prodotto dai mille spostamenti poco razionalizzati su tutta la zona nord della città alla ricerca di Urban. Mi sembra di sentirli i progettisti di Urban che mi rimproverano per aver usato la mia automobile anzichè fruire dei mezzi pubblici che proprio il primo intervento puntava a favorire: l’acquisto di 9 minibus e il ripristino delle stazioni ferroviarie di Gallico e Catona (“Miglioramento Infrastrutturale e servizi di mobilità”, 4,2 miliardi di lire). Ricordo quei piccoli autobus che per qualche mese ruppero la monotonia delle corse storiche centro-periferia per collegare i territori delle tre circoscrizioni con percorsi ad anello. Sempre vuoti, dopo pochi mesi furono dirottati altrove e fu persa ogni traccia delle corse e dei bus. Oggi l’Atam continua ad offrire ai cittadini della zona nord l’identica offerta di trent’anni fa: stessi orari, stesse frequenze (a distanza di ore), stesso numero di corse giornaliere. Così, per non far perdere probabilmente ai residenti le abitudini di una vita. Le stazioni poi stanno lì come suppellettili vuote. Pochissimi treni locali vi fanno scalo, tanto che non soddisfano neanche i pochi pendolari che un tempo si affidavano al treno.
Pentimele
La collina di Pentimele è un luogo straordinario sotto il profilo ambientale e storico-culturale (due i forti umbertini posti sulla vetta). Domina Reggio con un panorama sullo Stretto unico ed emozionante, ma la città la ignora, e ne sfrutta esclusivamente la posizione dominante per installare ogni genere di antenne o come alcova per amori fugaci a portata di mano. Pentimele è di fatto inaccessibile: seguendo una strada stretta e tortuosa che si arrampica lungo la collina da via Lupardini, sono costretto a fermarmi prima dell’arrivo ai fortini, perché ampi tratti del percorso sono stati cancellati dalle piogge degli ultimi anni. Per Pentimele, Urban lanciò anche un concorso internazionale di idee per la sua valorizzazione (300 milioni di lire). Qualche idea avrà vinto il concorso, ma di sicuro nessuna idea ha mai valorizzato un bel niente sulla collina di Pentimele.
Marinella
Decido di velocizzare, e passo in rassegna altri interventi: il nuovo campo sportivo di Catona (1 miliardo e 372 milioni di lire), realizzato (male) a Marinella al posto degli alberi di limone, mai collaudato, dopo anni di attività fantasma è oggi abbandonato, con le numerose squadre dilettantistiche locali costrette a giocare in quel di Gallico; le piazze Matteotti e Umberto I a Villa San Giuseppe (1 miliardo e 182 milioni di lire), riqualificate, rimaste per anni incompiute. Quella di Villa San Giuseppe in perenne stato di abbandono nella parte di espansione realizzata con Urban e con i locali sottopiazza praticamente mai consegnati, devastati e oggi ricettacolo di qualsiasi forma di rifiuto. Il giro comincia a farsi demoralizzante. Scorro la lista, cerco con ansia un intervento che possa aver generato quelle prerogative di valorizzazione e di sviluppo nate in altre città con Urban, progetti che abbiano dato speranza diventando una realtà importante per le comunità dove sono stati realizzati. Forse sbagliando, decido di andare ad Arghillà.
Arghillà
Qui Urban prevedeva interventi importanti, forse annusando il rischio di una situazione che negli anni a seguire sarebbe potuta diventare ancora più grave e pesante. Fino ad allora, siamo nel 2002 circa, Arghillà era un nuovo quartiere dormitorio, con una concentrazione di cemento piovuto su un territorio storicamente vocato all’agricoltura e alla produzione di vino. E per onestà di cronaca, in quella corsa alla distruzione che già dagli anni Novanta era stata avviata, ad arrivare per prime non erano state le case popolari della zona nord, ma le cooperative di ogni colore della zona sud. Ad Arghillà il programma prevedeva, oltre ad attività di animazione ed educative di strada per minori (750 milioni di lire), la creazione del “Centro polifunzionale di servizi commerciali, artigianali e ricreativi” (2 miliardi di lire), una “Struttura per la valorizzazione dei prodotti tipici locali” (1 miliardo e 200 milioni di lire) e la “Creazione del Parco di Ecolandia” nel forte umbertino T. Gulli (7 miliardi e 300 milioni di Lire). Tre interventi importanti, tutti con un respiro rivolto alla riattivazione di un sistema economico di fatto compromesso. Il “centro polifunzionale”, titolo chiaramente teso a nascondere il fatto che chi sta progettando non sa bene a cosa dovrà servire ciò che sta progettando, oggi è completamente abbandonato e vandalizzato, dopo essere stato per anni occupato da pochi esercizi commerciali, qualche lavanderia e piccole cose di respiro estremamente corto. Il “Centro per la valorizzazione dei prodotti tipici” (anche qui i progettisti non hanno di certo brillato per fantasia), discutibile manufatto circolare tra i palazzoni di Arghillà sud, non è mai entrato in funzione: mai un solo prodotto locale è passato per quelle stanze, ne tantomeno è stato valorizzato. Oggi i suoi locali sono utilizzati da alcune associazioni collegate alla parrocchia di Sant’Aurelio. Delle “due imponenti costruzioni che tra qualche mese diverranno il volano dell’economia del quartiere”, come con toni da ventennio preannunciava l’opuscolo, resta il fallimento, naturalmente a carico di un quartiere sempre più abbandonato a se stesso e alla criminalità (più o meno organizzata).
Ecolandia?
Per quanto riguarda Ecolandia, a distanza di quindici anni, di fatto il Parco non è ancora entrato in funzione. Dopo i tentativi dell’amministrazione Scopelliti di affidare la struttura, mal realizzata e incompleta, all’amico sacerdote don Gelmini, una gara ne ha affidato la gestione, ormai da diversi anni, ad un consorzio di cooperative del terzo settore, che ad oggi ha brillato più per la capacità di intercettare fondi comunitari che per dinamismo imprenditoriale. Ecolandia sarebbe realmente una grande opportunità per Reggio se non fosse stata fino ad oggi soltanto utile a dare spessore alle schede progetto di bravi professionisti dello sviluppo locale. Fare impresa è altra cosa, è produrre occupazione generando economia, è investire in un territorio con uno spirito scevro da istinti rapaci, e a volte cinici. Pertanto, dopo quindici anni, continuiamo ad aspettare il Parco ludico tecnologico e ambientale, una struttura realmente capace di stare sul mercato, di intercettare flussi turistici importanti e di diventare volano di sviluppo per Reggio e la sua zona nord. Deluso (ma non più di tanto, a dire il vero), ritorno sulla costa e vado a vedere il prolungamento del lungomare di Catona (3 miliardi e 775 milioni di lire), che il programma realizzava non solo con l’intento di “collegare” tra di loro due luoghi particolarmente panoramici”, ma per favorire la nascita di “nuovi spazi per la ristorazione e per il turismo”.
Catona
Non so perché, ma appena arrivo su un sito segnato nell’opuscolo di Urban, di primo acchito penso di aver sbagliato strada e di essere finito da un’altra parte. Il lungomare di Catona conferma purtroppo la sensazione: costruito di fatto sulla spiaggia, tanto che il mare più volte ne è ritornato in possesso prima che fosse messa in opera una lunga barriera di massi a protezione, il lungomare di Catona si tuffa al termine del suo percorso nella fiumara del Gallico. Uno stradone di asfalto, con pista ciclabile in parte cancellata dalla sabbia e dal mare, con un percorso avventura tra tombini divelti e tratti smottati, che termina contro un corso d’acqua senza neanche tentare di superarlo. Ma la cosa interessante è che questa situazione non è stata determinata da fattori imprevedibili, che so la fine dei fondi stanziati, o l’arresto dell’imprenditore, o il sequestro del cantiere da parte della magistratura: no, è così perché è stato progettato così, esattamente così, per finire contro la fiumara, con tanto di presentazione in conferenza stampa dai toni entusiasti. Magari qualcuno allora, immaginiamo, ci sarà stato a dirgli che in quelle condizioni, con l’impossibilità di superare il torrente vista la dimensione dell’area di foce e la presenza del depuratore, forse non era il caso di farci uno stradone per far passare le macchine, e che magari conveniva ripiegare su un progetto con aree attrezzate, piste ciclabili, percorsi pedonali, impiantistica sportiva, spazi ludico-ricreativi; una sorta di parco costiero compreso tra torrente e abitato, che scardinasse anche quell’orribile abitudine di concepire i lungomare come strade, sempre affollate di automobili in coda nel rito della “passeggiata carrabile”. Ma se tali considerazioni furono mosse all’epoca, saranno state di certo giudicate come le solite posizioni radicali di chi sa dire solo no a tutto. Anche perché, senza stradone, scusate, tutte le aree agricole lungo la costa come avrebbero potuto diventare edificabili e ospitare le miriadi di strutture turistiche, in realtà anche quelle mai sorte? Il lungomare di Catona è il colpo di grazia. Sono amareggiato e sto per cedere.
I non-progetti
Potrei andare a cercarmi il “Parco urbano degli agrumi” (?) che vedo in elenco e che l’opuscolo mi indica come già all’epoca fosse stato oggetto di gara; lo cerco nella cartina allegata, sarà nella zona di Villa San Giuseppe, dove vuoi che sia. Ma la cartina lo indica a Pentimele, vicino ad una importante struttura balneare della città. Ora, è chiaro che non andrò a cercarlo il “Parco degli agrumi” a Pentimele, perché non esiste, ma che c’entri Pentimele con gli agrumi e perché sia stato pensato proprio lì un “Parco dell’agrume” per me resta ancora un mistero indecifrabile. Potrei andare a cercare la “Piattaforma di stoccaggio – rete di servizi per la raccolta ed il recupero dei Rsu” (2 miliardi e 50 milioni di lire), che il progetto localizzava proprio in quella località Cartiera di Pettogallico dove la popolazione dei paesi vicini ha combattuto qualche anno dopo una storica battaglia (vinta) a difesa del territorio, proprio contro la realizzazione di un impianto di trattamento rifiuti (caspita, vuoi vedere che la scelta del sito al Commissario l’aveva ispirata proprio Urban), ma lì troverei oggi, per fortuna, solo capre e pecore al pascolo. Potrei andare a cercare il “Centro comunale per l’infanzia” (1 miliardo e 220 milioni di lire), o il “Centro per il trasferimento delle tecnologie sociali” (?) (937 milioni di lire), localizzati presso l’ex Colonia Marina di Catona, un vecchio edificio demolito dal progetto per essere ricostruito ma che ancora oggi è lì, incompleto, in muratura rustica, senza infissi, abbandonato in un infinito non finito. Potrei cercare i risultati del progetto della cooperativa Nazareno per l’inserimento lavorativo di ex-tossicodipendenti in alcune serre allora esistenti tra Gallico e Catona (1 miliardo e 240 milioni di lire), ma oggi non restano neanche le tracce di quelle serre.
Potrei andare ad Archi a cercare l’Ausilioteca (648 milioni di lire la ristrutturazione; 400 milioni la gestione) che il progetto collocava nei locali ristrutturati dell’ex mercato coperto, una struttura che avrebbe dovuto essere di ausilio al territorio per le tecnologie informatiche, la formazione, il trasferimento di competenze, e che invece troverei in completo stato di abbandono, mai entrata in funzione, mai affidata in gestione e per un decennio servita come una sorta di miniera per il rifornimento di porte, finestre, cavi elettrici e altro materiale edile. Potrei andare a vedere il risanamento delle discariche del torrente Torbido, ma sarebbe inutile perché il Torbido, come molte altre fiumare della zona nord, continuano ad essere una discarica a cielo aperto. Potrei andare, e ci sono infatti andato, in tutti questi non-progetti, trovando il nulla, opere non finite, se finite abbandonate prima di entrare in funzione, e qualora entrate in funzione chiuse perché senza alcun respiro territoriale, nessuna integrazione, nessuna gestione.
Una città ferita
É vero che Urban era un progetto concepito dall’amministrazione Falcomatà, e di fatto non ancora completato quando la città passò nelle mani di Scopelliti per i successivi dieci anni, con i risultati che conosciamo; non c’è dubbio che le amministrazioni susseguitesi nel tempo abbiano grosse responsabilità sull’aver consentito quantomeno che un investimento così cospicuo andasse depauperato e vandalizzato; ma se un progetto era fondato sulla sabbia, come lo era Urban a Reggio Calabria, il progetto non poteva che rivelarsi, come si è rivelato, una delle più grandi occasioni perse da questa città. Se anche le strutture completate non sono mai andate a gestione (pubblica o privata), le spiegazioni possono essere tante, ma fondamentalmente riconducibili a due: quegli interventi, concepiti come sono stati concepiti, non erano in grado di soddisfare alcun bisogno reale dei territori sui quali intervenivano; nessuno si è posto il problema su chi dovesse gestire, operare e rendere virtuoso il rapporto tra costi di gestione e ricavi di ogni singola infrastruttura. Tanti slogan, tanta comunicazione, ma nessun piano di gestione capace di dare un senso a ciò che si stava realizzando, che ricercasse un nesso tra intervento e intervento. Solo un elenco puntuale di progetti, slegati, privi di qualsiasi respiro strategico, nati per aprire cantieri, dare appalti, impegnare spesa. Di questi naufragi, negli ultimi 15 anni, è affondata la città. Unica superstite, anche in questo caso, la comunicazione.