Locri negli Ottanta: assalto al municipio
- Cosimo Sframeli
La raffica di mitra sparata contro il Municipio, mentre era riunito il Consiglio comunale, fu considerata un avvertimento per l’intera città. Ci furono drammatici momenti di panico generale. I consiglieri comunali si rifugiarono sotto i banchi, cercando di ripararsi dai proiettili, alcuni dei quali si conficcarono sulle pareti dell’aula consiliare. La ‘ndrangheta, nell’assenza di risposte efficaci, faceva la voce grossa. I suoi appetiti diventavano sconfinati, totalizzanti, grandi quanto un Piano Regolatore Generale. C’erano interessi e lottizzazioni miliardarie. Tutto si svolgeva senza regole. Il nuovo assessore all’Urbanistica, eletto dopo sette mesi di crisi, era curioso.
Chiese di essere informato, per capire con quali criteri il progettista scegliesse le aree edificatorie. Proprio quelle controllate dalla ‘ndrangheta. Un crescendo di terrore. Dapprima, una scarica di colpi di pistola contro la porta di casa dell’ingegner Gaetano Gallì, dirigente dell’ufficio tecnico comunale. Quindi, un agguato all’Assessore all’Urbanistica Federico Fazzari, scampato miracolosamente al fuoco del commando mafioso. Infine, di venerdì, l’ammonimento al Consiglio comunale che si era riunito proprio per esprimere solidarietà all’assessore. Il linguaggio delle cosche era estremamente chiaro. L’attività edilizia non aveva bisogno di regole, l’abusivismo pilotato dalla ‘ndrangheta non poteva avere freni. Locri, all’una del pomeriggio, sembrava una città morta, avvolta nel silenzio. In quella società mafiosa, in territorio italiano, la vita aveva ritmi diversi. C’era una sola persona davanti al Municipio, dopo l’assalto criminale. Rare le auto che transitavano per le principali strade.
Chi poteva, andava via. Le attività economiche vivacchiavano tra un attentato e una richiesta estorsiva. E negli ultimi cinque anni di attentati ne furono commessi più di cinquecento. Bombe, sparatorie a scopo intimidatorio, auto incendiate, contro tutti. Contro amministratori, appaltatori, uomini politici, giornalisti, albergatori, contro la stessa Curia Vescovile che aveva fatto sentire la sua voce contro i principi mafiosi ed i politici collusi per un recupero di vivibilità su cui pochi credevano e in molti speravano. C’era una logica militare nell’operare delle cosche mafiose. Imponevano i propri progetti, tentavano di bloccare le coscienze. Chi era attaccato, se poteva, andava via. La città si spegneva. Pur tentando di minimizzare, ci si rendeva conto che le cosche avevano esteso il loro controllo dal territorio alle istituzioni. Il Palazzo di Giustizia di Locri spalancava le sue porte sulla Piazza deserta offrendo al visitatore il vuoto desolante di un qualsiasi ufficio pubblico nei giorni di calura. Una lapide di marmo, in cima alla prima rampa di scale, ricordava Zaleuco, primo legislatore del mondo occidentale. Il Palazzo di Giustizia, grigio e squadrato, era un avamposto nella Fascia Jonica reggina, dove prosperavano mafia ed illegalità. Lo Stato non voleva arrendersi. Non a caso in Italia il primo processo alla mafia, secondo l’innovativo art. 416 bis del c.p., fu celebrato proprio a Locri (Giudici Luigi Cotrona e Rosalia Gaeta). Eppure, la normalizzazione avvolgeva
e paralizzava le energie dell’apparato che avrebbe dovuto lottare contro la ’ndrangheta. Di trasferimento in trasferimento, si era smantellato l’esile ma efficace Squadra di investigatori messa su, in anni di lavoro, dai giudici Arcadi e Macrì. Un cambio di strategia nella lotta alla mafia che passò attraverso lo scioglimento del pool, formato da Magistrati e Carabinieri, il primo, ideato e voluto per fronteggiare in maniera seria ed esclusiva il fenomeno mafioso, poco conosciuto, della ‘ndrangheta. Tutti trasferiti e nessuno rimpiazzato. Fu uno smantellamento non tanto quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Non rimase Spanò, “memoria storica”. Alla guida del pool, i Pubblici Ministeri Macrì ed Arcadi; la loro fu la storia di due magistrati che non ebbero riguardi per nessuno. Che non si piegarono a nessuno. Dai loro Uffici partirono inchieste contro i mafiosi, contro i politici collusi e potenti. Contro la ‘ndrangheta. Contarono nella lotta, non nella vittoria. Ed era inutile restare a Locri, se non per combattere la mafia. Meglio andar via.
«C’è stata – affermava il Giudice Ezio Arcadi – una maledetta fretta di smontare tutto. Smontare la piccola, fragile macchina che pure ha dato i suoi frutti, nel passato. Un gruppetto di magistrati e carabinieri che, fra l’82 e l’86, ha ottenuto gli unici successi organici contro l’Anonima sequestri ed è giunto a toccare certi ambienti politici collegati alla mafia. Oggi non si applica la politica dei risultati, ma quella della normalizzazione. Vengono trasferiti Marescialli e Brigadieri attivi in zona, magari solo da un paio d’anni, applicando con fiscalità regolamenti che ad altri, di stanza qui magari da vent’anni senza pestare i calli a nessuno, non si applicano. Per farci la guerra, è stato usato qualsiasi mezzo. False lettere di raccomandazione, falsi rapporti del Sisde, processi, procedimenti disciplinari, ispezioni ministeriali, esposti, citazioni per danni. Si è giunti perfino all’istanza di interdizione presentata da un avvocato per dire che un giudice era pazzo. L’apparato mafioso ha lavorato alla nostra delegittimazione».