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Testimonianze. Gli anni bui a Reggio Calabria

  •   Cosimo Sframeli
Testimonianze. Gli anni bui a Reggio Calabria

A Reggio, e nella provincia, le regole che dettavano legge erano quelle del codice mafioso. La ‘ndrangheta si era spartita i territori comunali. Innumerevoli le cosche, i killer, i capibastone, i picciotti che terrorizzavano gli inermi abitanti. Erano i colpi di fucile e di pistola a scandire i ritmi della vita quotidiana. Ogni strada, ogni angolo portava i segni della morte e dell’agguato mafioso. Era una vera e propria guerra. Le famiglie malavitose ingaggiavano scontri armati sotto gli occhi impotenti dello Stato. Venerdì 21 ottobre 1988 veniva ucciso, a colpi di lupara, l’ambulante Pietro Barbieri di 35 anni, mentre stava sistemando il carico di tessuti del suo furgone, al mercatino di piazza del Popolo a Reggio Calabria.

Il macabro conteggio

Al Comando Gruppo Carabinieri si tenevano i conti della continua strage. Quando alle sei e mezzo del mattino di venerdì 21 arrivò la notizia dell’uccisione del Barbieri, il bollettino aggiornato parlava di 42 morti ammazzati nel solo comune di Reggio, di centoventidue in tutta la Provincia. La media dell’anno prima (153 omicidi) era quasi rispettata: una media da macello. Sui muri male intonacati della città, comparirono i primi manifesti di una coraggiosa iniziativa antimafia. Un appello ai cittadini di Reggio: “La nostra città vive una crisi profonda che non ha precedenti nella sua storia. – Si leggeva a firma della Nuova Costituente Democratica per la salvezza e la rinascita di Reggio – La criminalità mafiosa, senza più freni, insanguina quotidianamente le nostre strade. Un degrado civile, sociale, economico, democratico ha ridotto Reggio in condizioni di autentica invivibilità. Le classi dirigenti della città ed i partiti di governo che la esprimono si dimostrano sempre più corrotti ed incapaci di dare risposte adeguate alla crisi di Reggio”. Si trattava di un grave fallimento, di un autentico tradimento degli interessi veri della città. Qualcuno aveva strappato il manifesto. Erano gli anni in cui iniziavano i grossi traffici di droga con la Turchia e col Libano. L’omicidio era lo strumento usuale per la riaffermazione dei reali rapporti di forza, con la eliminazione degli avversari. La mappa della città, così come nei paesi della provincia, vista in controluce, era quella di un Risiko al naturale, con i movimenti di truppe, gli spostamenti dei commandos, le strategie d’attacco, le battaglie e gli scontri armati. Operazioni militari dirette ad affermare la supremazia. 

L’uccisione di Calofiore 

Francesco Calafiore gestiva, per conto di Giovanni Rosmini, un negozio di giocattoli. Dentro c’era un’innocente coppia con un figlio di 4 anni. Fecero in tempo a salvarsi nascondendosi dietro un mucchio di bambole e di trenini elettrici, mentre il killer entrava per eliminare gli eventuali testimoni. Quei secondi, con la mano che tappava la bocca del bambino, erano tutta una vita. Appesa ad un soffio. Appesa alla fortuna. La gente non parlava, taceva perché aveva paura. L’omertà, nel senso di obbligo al silenzio, “Non parrari, non t’impicciari, non t’intricari”, non riguardò soltanto i mafiosi. Fu duro e difficile vivere in quell’intricato universo della ‘ndrangheta calabrese, con la paura e il rischio di non essere compresi: «Voi di fuori non potete comprendere che significa vivere con la mafia sotto casa, magari alla porta a fianco».

 


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