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La 'ndrangheta di Francesco Saverio Barillaro

  •   Cosimo Sframeli
La 'ndrangheta di Francesco Saverio Barillaro

“Uno scrittore calabrese, dal manicomio criminale, scrive di onoratà società, anticipando tutte le più grosse firme del panorama nazionale. Sono 7 le cose belle, 99 i punti di umiltà, 1 di brutalità.”

La narrativa come strumento letterario per conoscere la Calabria. Un libro introvabile, anche sul mercato dell’antiquario, e di cui solo gli “addetti ai lavori” ne conoscono l’esistenza. La famiglia Montalbano di Saverio Montalto (il suo vero nome era Francesco Barillaro), scritto e concluso tra il 1939 ed il 1940, viene pubblicato nel 1973, come è facile dedurre da una lettura del Memoriale, ed è il romanzo capostipite di tutti i romanzi sulla mafia, supplendo alla disattenzione della letteratura meridionale del Novecento sull’aggregato criminale. Infatti, l’ultimo di cui si ha notizia è la braveria de I promessi sposi. Poi, Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta (1961) precede cronologicamente, ma non geneticamente, La famiglia Montalbano. Saverio Strati giunge più tardi con Il selvaggio di Santa Venere (1977).

Il primo romanzo organico sulla mafia della provincia di Reggio Calabria è di Saverio Montalto, veterinario e scrittore di Ardore. La mafia ne La famiglia Montalbano non è un’accidentalità, un comportamento, una cultura dell’onore, una dei tanti incastri del mosaico paesano, ma è come un gas, che riempie l’intera vita paesana nelle sue più profonde radici. Le regole e le donne Ha testa e piedi nella campagna, che ne costituisce il suo humus storico e culturale. Si mostra potente e prepotente, agguerrita ed organizzata, protetta e impunita. Il prete, il sindaco, il medico, il deputato, i proprietari terrieri, gli avvocati, persino i magistrati, sono amici degli amici e, tutt’insieme concorrono alla stagnazione della piccola comunità contadinesca. Non è più un mito l’onorata società, che difende i deboli e le donne. Tutto è associazione a delinquere, macchina di sfruttamento, di morte, di alleanza con il potere economico e politico.

Nel romanzo, malavita calabrese e mafia americana si toccano, s’incontrano, s’influenzano. É l’emigrazione che ha reso possibile il contatto ed il contagio, “esportando” anche picciotti e uomini d’onore. Saverio Montalto è il narratore italiano, ancorato in Calabria, che afferra il rapporto d’interdipendenza tra emigrazione e mafia, l’ingrandimento di questa da quella, e il docile innesto degli usi, dei costumi, dei comportamenti della mafia americana sulla già mala pianta (come la chiama Corrado Alvaro) della mafia calabrese. Saverio Montalto, nel narrare, individua il principio d’involuzione e corruzione della onorata società calabrese, degli uomini d’onore che sono poco onorati. Trescano, intrigano nell’ombra, si affiatano con il potere, derubano la povera gente, “spogliano” e “vestono” affiliati secondo le loro comodità, architettano infamie. Disonorano madri, moglie, sorelle dei camorristi, che le “regole sociali” vorrebbero fossero rispettate. In particolare, la donna cambia modo di essere, si attiva in funzione della malavita ed emerge per spirito di vendetta. Ella, nell’universo mafioso, non ha un ruolo primario, ma può attizzare l’odio, chiedere e ottenere vendetta, essere parte determinante delle decisioni. É proprio la donna, nella società contadina, depositaria del valore estremizzato dell’onore. L’uomo non può che uccidere la donna indegna per ridiventare onorato oppure, disonorato per sempre, destinato al non rispetto, al disprezzo, allo scherno. Nella società onorata non c’è posto per altri. Ne fa parte l’uomo vero, l’uomo di sostanza, l’uomo di malavita, dotato di “sette cose belle” che sono: l’Omertà, la Fedeltà, la Politica, la Falsa-politica, la Carta, la Penna, il Coltello e il Rasoio.

A tal proposito, è bene precisare, come l’Omertà sia propriamente considerata l’umiltà nel senso che, secondo la “regola sociale”, l’uomo d’onore deve possedere 99 punti di umiltà e una di brutalità. “Omertà” è, appunto, la capacità di mantenere il silenzio sulle regole e i delitti dell’onorata società. Anche se, nella persistente lettura nazionale, l’Omertà viene vista come una caratteristica peculiare del popolo meridionale, portato dalla sua natura a non vedere, a non sentire, a non parlare. La famiglia Montalbano è stata una delle tante denominazioni della criminalità organizzata. Miticamente, la sua nascita è indicata nel passaggio leggendario in Calabria di tre famosi cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, provenienti dalla Spagna. Storicamente la sua formazione è fatta risalire ai primi anni dopo l’Unità d’Italia. Saverio Montalto, nel romanzo, oltre che il termine di “famiglia Montalbano”, usa quello di mafia, malavita e onorata società. Mai il termine ‘ndrangheta che appare negli anni del secondo dopoguerra. I prefetti di Reggio Calabria, dove il fenomeno ha avuto la sua manifestazione, nei rapporti scritti dopo il 1880 hanno usato l’espressione: “camorra”, “maffia” e, più tardi, “picciotteria”. Il testo si legge tutto d’un fiato.

I ritratti psicologici delle persone sono straordinari, anime perse in una società che va dissolvendosi nei suoi valori tradizionali, sino alle figure sinistre e spietate dei capi bastone, che preludono ai moderni capi ‘ndrangheta. «Al paese la fama delle sue prodezze era arrivata prima di lui da tanto tempo […]. Tutti si misero ad ossequiarlo e a venerarlo e quando si parlava di lui nel paese, specie il popolo minuto, lo facevano con lo stesso rispetto come si fosse trattato di Dio e del diavolo insieme. Anche il medico, l’arciprete e don Mico, i quali tutti e tre erano stati dispensati dal servizio militare chi per una ragione e chi per un’altra, lo trattavano, come si dice, di gnorsì e di gnornò, e la loro casa per lui era aperta in qualunque ora e momento, benché lui, a dire il vero, di loro nutriva nel suo animo un sacro rispetto, in quanto, a parte che don Mico era l’assessore, pensava, non si sapeva mai, che da un momento all’altro avrebbe potuto ammalarsi e quindi cadere in potere del medico ed inoltre, quando fra cent’anni sarebbe morto, aveva una paura matta d’andare all’inferno per la qual ragione non bisognava guastarsela neanche con l’arciprete. Bruno lo Spincione che si trovava anche lui a casa con l’esonero agricolo, non appena lo vide gli diede le redini del comando conservando per sé il grado di sottocapo e Gianni Zoppa allora, avendo trovato che le cose erano alquanto malandate, subito organizzò la mafia del suo paesello all’uso americano e come prima entrata fece pagare ad ognuno, principalmente ai giovanottini di primo pelo che ambivano di avere l’alto onore di appartenervi, una tangente di cento lire» (da La famiglia Montalbano).

«Le file in poco tempo s’ingrossarono, specie dopo l’armistizio, giacché ormai, anche quelli che tornavano dalla guerra erano convinti che per essere rispettati, o per lo meno essere lasciati in pace, bisognava appartenere alla “famiglia Montalbano”, come fra di loro l’associazione veniva comunemente chiamata. Avevano visto che in genere tutti coloro della portata di Gianni della Zoppa non avevano fatto la guerra, perché o si imboscavano oppure si facevano mandare a casa e quindi era entrata nella convinzione di tutti l’idea che non esistevano più né giudici, né carabinieri, né sindaci. Ormai era chiaro che o anche loro appartenevano alla “famiglia Montalbano”, ovvero avevano paura, e ciò veniva pure confermato dal fatto che quando un individuo dell’onorata società del paese ed anche degli altri paesi vicini commetteva qualche reato così grave e palese da non potersi fare a meno a non portarlo dentro, non c’era tempo di arrestarlo per quanto presto lo rimettevano di nuovo in libertà» (da Saverio Montalto La famiglia Montalbano). Una storia che rende perfettamente l’ambiente, l’atmosfera di quell’epoca in quei luoghi. Una delle più belle storie ambientate in Calabria, in cui si narra la mafia senza giustificazioni di alcun genere.


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