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Piminoro. Una vita sotto il Levante

  •   Francesco Barillaro
Piminoro. Una vita sotto il Levante

Fin da bambino sono stato affascinato dai racconti degli anziani di Piminoro, che nelle afose giornate d’estate trascorrevano gran parte del loro tempo rievocando episodi della I e II guerra mondiale, vissuti personalmente.

Senza darsi appuntamento si ritrovavano nella piazzetta centrale del paese, seduti all’ombra sui gradini delle vecchie case, alzandosi di tanto in tanto per rinfrescarsi alla vicina fontana a quattro canali, al centro della piccola piazza. Dopo un breve accenno alle ultime novità del paese, iniziavano i loro discorsi: un gregge attaccato dai lupi in montagna o dai ladri, la mancanza del lavoro per i giovani costretti a lasciare il paese per cercare fortuna lontano, spesso soli nelle grandi città del Nord ad affrontare la vita.

Sostenevano che per fortuna Mussolini aveva pensato a loro, altrimenti senza la pensione avrebbero patito la fame! Seguiva un’imprecazione condivisa da tutti contro il “lupo” ossia il temuto vento di Levante, che puntualmente distruggeva il paziente e umile lavoro dei contadini nei terrazzi scugnati con il sudore della fronte. Tutti raccontavano dei danni subiti: ciaramidi buttate giù dal tetto (malgrado una delle caratteristiche di Piminoro sia rappresentata da decine di pietre sopra le tegole), o piante di ulivo schiancate, se non addirittura sradicate, dalla furia incontrastata del Levante. Altri rimpiangevano le viti dell’uva fragula che produce un vino molto leggero, chi raccontava dell’orto raso al suolo, tutti giuravano a sé stessi che la successiva primavera avrebbero lasciato margio il proprio pezzo di terra!

Piminoro è l’avamposto del Levante, su di esso si abbatte come una maledizione tutta la sua potenza, non c’è angolo che ne sia risparmiato e, come una nave nel mare in tempesta, bisogna solo aspettare che esaurisca tutta la sua forza, per poi contare i danni. Quando al vento si associa la pioggia, allora sono guai seri per tutti.

Per giorni interi bisogna rimanere tappati in casa, pensando agli uomini sorpresi in montagna dietro uno sperduto gregge. Le donne si raccomandano alla Madonna della Pastorella, l’unica, secondo loro, capace di intercedere verso l’alto. Finite le ultime lamentele contro il vento e il governo, i discorsi degli anziani prendevano la solita piega: la guerra. Smettevo di giocare e restavo incantato ad ascoltare quelle che loro ritenevano le proprie imprese, anche se ormai gli argomenti erano sempre uguali. Mi affascinava però pensare che uomini, vissuti in questo abitato aspromontano, segnati dalle privazioni e dal duro lavoro, in gioventù erano stati in prima linea nei vari fronti di guerra.

Cominciavano parlando del viaggio, spesso a piedi fino a Gioia Tauro, per molti la prima volta che vedevano un treno, e poi il mare. Era così immenso che non trovavano aggettivi appropriati per descriverlo. Quelli che avevano preso parte alla guerra del 1915-18 anche nei ricordi uscivano vittoriosi, fieri di essere “Cavalieri di Vittorio Veneto”. Fra questi il mio carissimo nonno Francesco dal quale ho preso il nome, poi Ceravulu, Giacchetta, Cirinio, Paiano e tanti altri. Il gruppetto comprendeva, oltre a noi ragazzi, altre persone più giovani.

Puntualmente a metà mattinata Ceravulu portava Rosa la scecca ad abbeverarsi, per ultimo arrivava cumpari Rafieli detto Chiò, un uomo grande ma altrettanto buono, col viso scavato da profonde rughe, sempre sorridente e, quando gli chiedevano di cantare la canzoncina della guerra, attaccava non prima di aver precisato che lui in guerra era stato solo mulattiere e non aveva fatto del male a nessuno! Con voce grossa e rauca intonava “Signor Tenente”.

Quando parlava mio nonno ero particolarmente felice anche perché concludeva il suo racconto rievocando le storie dei suoi figli Domenico, mio carissimo zio, e Peppino, mio padre, entrambi chiamati alle armi durante la seconda guerra. Verso mezzogiorno, quando il sole era alto in cielo e l’ombra delle vecchie case lentamente scemava, come per un tacito accordo, tutti tornavano a casa, e io facevo di corsa la breve salita che separa le due piazze del paese e, giunto in prossimità della chiesa, alzavo gli occhi verso la montagna, vedevo il piccolo autobus di mio padre fra gli ultimi ripidi tornanti del “muro grande” che scendono vertiginosamente verso Piminoro.

Nel pomeriggio il gruppetto si ricomponeva, seduti sui gradini della vecchia casa di Pirricatonga, e, anche se faceva caldo, gli anziani vestivano in modo pesante. Così ricominciavano i racconti. Era storia, mito, sogno…


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