Arghillà, la sfida che dovrebbe cogliere il sindaco Falcomatà
- Maurizio Malaspina
Arghillà, il quartiere dormitorio costruito a nord di Reggio Calabria nel corso degli anni Novanta, uno degli esempi più eclatanti di cosa non fare in urbanistica, come non costruire le case, come non progettare e dimensionare i servizi, per un amministratore che inizi il suo mandato di governo dovrebbe essere la sfida più avvincente, non solo perché difficile (e sono le difficoltà che fanno crescere un amministratore), ma perché complessa, ricca di motivi forti, di concrete motivazioni per definire modelli di governo innovativi, efficaci, diversi.
Arghillà mette alla prova realmente le capacità gestionali di un amministratore, le sue politiche, le qualità umane che caratterizzano chi è chiamato a migliorare in primo luogo la qualità della vita dei suoi amministrati. Perché vedete,
Arghillà è un coacervo di stimoli, prima ancora che di problemi, una varietà straordinaria di umanità che dovrebbe toccare direttamente il cuore della pubblica amministrazione e della sua organizzazione, dall’urbanistica ai servizi sociali, dal decoro alla pubblica istruzione, dalle attività produttive alla sicurezza. Mi chiedo spesso che senso abbia, o meglio che interesse possa rivestire fare l’amministratore del corso Garibaldi e della via Marina, come è stato per decenni a Reggio, luoghi che chiaramente uso come metafora per porre l’attenzione su una parte di città ormai quasi completamente svuotata di empatia relazionale, di senso di comunità, di quella vita della quale sono parte integrante e sostanziale la sofferenza e le difficoltà quotidiane.
Il centro delle città è sempre più sede esclusiva di attività commerciali che richiamano sterili relazioni commerciali, e le relazioni commerciali sono le relazioni a più basso grado di empatia, quelle che lasciano niente a chi ne è parte, quelle che spesso sono più fredde e più distaccate dalla reale intenzione di trasferire altro che non sia il denaro in cambio di un oggetto. Se si aggiunge la particolarità di una Reggio svuotata nella configurazione storica sotto il profilo formale, ovvero nelle sue architetture o nelle sue strade, come effetto dei terremoti che l’hanno di fatto azzerata più volte, arrivo alla conclusione che amministrare esclusivamente il centro di Reggio significa sempre più amministrare un “non luogo”, una parte della città dove migliaia di persone si incrociano senza entrare di fatto in relazione, sospinti semplicemente dal bisogno di consumare velocemente il tempo, e il denaro di cui dispongono.
Il centro della città è sempre più caratterizzato da una moltitudine di individualità che si spostano. Quando chiudono i negozi, il centro si svuota, le strade si liberano e il nulla diventa silenzio. Viene di fatto meno il perché di vivere quei luoghi, il perché restarci per non tornare a casa. E allora è chiaro come è strano, prima ancora che sbagliato, parlare di Arghillà (come spesso accade) come di un “non luogo”. Perchè il neologismo nato dagli scritti di Marc Augè si sposa con le zone commerciali delle città, le zone monorelazionali, le zone prive di residenzialità, non per quelle periferiche, dove spesso si concentra, tra degrado e abbandono, un’umanità straordinaria, ricca di pathos e di motivi di interesse.
Ad Arghillà le attività commerciali si contano sulle dita, mentre non bastano due mani per contare i “colombai” giallini, venuti fuori da un format del bravo ingegnere, o per par condicio del bravo architetto. Viene alla mente quell’abusivismo, spesso di necessità, che lasciava i mattoni a vista e i ferri delle armature sui tetti ponendo un confine netto tra parte pubblica e parte privata dell’edificio, quelle architetture disseminate per campagne e alvei dei torrenti, che per tante volte abbiamo sentito accusare dentro le università di depauperare la qualità e il decoro urbano. E vengono in mente quasi con rimpianto, guardando questi palazzoni anonimi, quasi come un’opportunità mancata, tanto è lo sconforto.
Ma nonostante questo, ad Arghillà non manca quell’umanità vissuta, precaria, combattiva, che è alla base di una sfida che chi amministra non può non cogliere. Non è possibile patire i tremori provocati dalla paura di essere travolto da qualcosa di più grande, come non è possibile decidere di rilegare Arghillà nell’alone dell’emergenza.
Coraggio è la parola che è mancata in tutti questi anni a chi ha amministrato Reggio rispetto alla questione Arghillà, coraggio non perchè occuparsi di Arghillà comporti rischi maggiori che occuparsi di Gallico, Archi, Catona o Reggio centro.
Coraggio per mettersi in discussione, per affrontare i bisogni reali dei cittadini, per mettere mano a soluzioni che vadano oltre il modello di raccolta rifiuti occasionale (originale e innovativo nel suo genere, a dire il vero).
Coraggio per affrontare la quotidianità e trasformare un’umanità variegata, precipitata dallo spazio in un luogo che per millenni ha prodotto vino, in una comunità.
Ad Arghillà servono azioni programmate, costanti e sinergiche, con i territori, con le associazioni, con la scuola, con gli imprenditori. Serve uno sguardo al tutto, una vista d’insieme, uno scenario su cosa questo territorio dovrà essere, cosa debba produrre, debba esprimere nella città di Reggio, e ancor prima nella nuova dimensione metropolitana.
Perché oggi Arghillà potrebbe essere ovunque: ovunque c’è stato un fallimento urbanistico che è andato a gravare come un macigno sulle spalle della povera gente; ovunque in questo paese ci sia stata speculazione alle spalle di chi per il bisogno di avere un tetto sulla testa sia stato disposto a calpestare la sua stessa dignità; ovunque ci sia stato un forte che si è approfittato di un debole; ovunque ci sia stato abbandono, incuria, cattiva amministrazione.
Ma Arghillà c’è ancora di più in chi vuole lottare per il cambiamento; in chi vuole riappropriarsi di un territorio, in chi vuole ricominciare a produrre vino, e ortaggi, in chi conduce un’attività imprenditoriale di frontiera nonostante tutto e nonostante tutti.
Arghillà sta in quanti pensano che serve un modo nuovo e diverso di decidere come trasformare i territori, come valorizzare le risorse locali, come usare la parola partecipazione non come slogan per raccattare voti o finanziamenti, ma come metodo di governo e cambiamento.