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Cantine: vino rosso, aringhe e fave

  •   Cosimo Sframeli
Foto di Enzo Penna Foto di Enzo Penna

In quel paese, dove mancava il pane e la carne era considerata un alimento proibitivo per la stragrande maggioranza della popolazione, vi erano ettari di terreno coltivato a vigna che produceva un vino squisito. Nel centro storico e nelle numerose frazioni, in ogni strada, in ogni viuzza, in ogni piazza, in ogni angolo, vi era una cantina per la degustazione e la vendita del vino. Non si serviva l’anice. Nelle sere d’inverno, quando i venti freddi che soffiavano dall’Aspromonte si incanalavano attraverso le gole delle fiumare e si abbattevano sulle case vecchie, e quando una pioggia fitta ed inquieta si abbatteva sul paese, le cantine si riempivano di popolo che scolava bicchieri di vino rosso accompagnandolo con fave e ceci abbrustoliti, con qualche castagna arrostita tra la cenere, con qualche lupino salato. Taluni arrostivano sulla brace qualche aringa, altri si dividevano le sarde salate e una manciata di olive nere. Anche i militari della Benemerita, che tornavano da una perlustrazione in montagna, a piedi o a dorso di cavalli, lì si fermavano per dissetarsi, per incontrare amici e, senza coinvolgimento apparente, ascoltavano i racconti del giorno, ma riprendevano affrettatamente la via essendo tutori di altri doveri. Intanto, lentamente si creava in cantina un clima di calore umano e di crescente complicità di cui nessuno di quegli abituali avventori avrebbe potuto mai fare a meno; quasi che il vino avesse il sapore del latte materno per questi eterni poppanti. I discorsi erano sempre uguali: la campagna sempre avara, gli animali rachitici per il poco cibo, la pioggia che distruggeva o il sole che bruciava ogni cosa; insomma si parlava di una natura che sembrava avesse loro dichiarato guerra. Gli intellettuali conversavano in maniera più stimolante; essi al caffè, che eccitava, preferivano il vino, che li infiammava. 

Nel braciere la fiammella diventava sempre più fioca ma continuava ad attrarre sguardi brillando nella penombra della cantina e, in quell’atmosfera, qualcuno iniziava ad introdurre discorsi sulle anime dannate che vagavano su questa terra in cerca di riposo, di capre indemoniate, di diavoli assassini, di preti esorcisti; ed essi, per farsi coraggio, si avvicinavano sempre di più l’uno all’altro, come i bambini che avevano paura del buio. Intanto un bicchiere tirava l’altro e il vinaio doveva fare credito oppure coloro che lavoravano pagavano per i meno fortunati. L’odore del vino, delle aringhe e delle fave si mescolava con quello del tabacco fumato nelle pipe artigianali oppure attorcigliato nelle cartine o nelle foglie di vite. Nuvole uscivano dalla porta appena socchiusa e con il fumo evaporavano i tristi pensieri di tanta gente: il lavoro massacrante che spezzava anche i più forti, le umiliazioni che sfibravano anche i più dignitosi, il lamento della moglie sempre incinta e ogni giorno più vecchia, i bambini quasi sempre ammalati per gli stenti, gli anziani lamentosi, i loro sogni infranti. Piano piano sembrava che una mano pietosa avvolgesse la loro testa con una carezza, mentre gli occhi si chiudevano, il corpo si sentiva leggero e tutte le cose sembravano ballare un lento girotondo. 

Ognuno sentiva il calore del corpo del vicino; avvertivano il reciproco pianto senza lacrime e, così, non riuscivano a staccarsi da quei vecchi tavoli per affrontare la vita che li aspettava oltre quella porta appena socchiusa. Solo quando il braciere era freddo, ormai sera, i ritardatari uscivano nelle strade già buie. Timidi e barcollanti, guardati con disgusto dai ben pensanti. Alcuni avvertivano un senso di colpa, ma anche qualcos’altro che solo loro potevano comprendere. Infatti, anche per quella sera avevano fatto un supplemento del loro lavoro, quello più faticoso, una specie di ricarica per poter sostenere l’insostenibile lotta per l’esistenza, per poter continuare a vivere quella insopportabile vita di tutti i giorni.


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