Cemento e veleni. Abbiamo violentato la natura e lei ci ucciderà
- Redazione
«Ehi Lewis, ce l'abbiamo fatta, abbiamo superato quelle maledette rapide!»
«No Bobby, ti sbagli. La natura non si può mai battere!» ("Un magnifico weekend di paura" (1972) di John Boorman).
Gli anni '70, in Italia, sono stati anni di contestazioni, di terrorismo, di scandali, di periferie violente, di città e di natura violentate. In America anni di guerra in Vietnam, di reduci, di scandali Watergate e di contestazione giovanile con proposte alternative di vita.
In quegli anni si manifestavano inquietudini socio-economiche e culturali che venivano rispecchiate dal nuovo cinema americano, dalla musica e dalla nascita di quei movimenti giovanili che credevano nella possibilità del ritorno alla terra per realizzare una agricoltura più sana, biologica, e nell’uso delle energie alternative. E attraverso il rock‘n’roll i giovani americani ridefinivano il loro ruolo e la loro identità all’interno della società, per non essere considerati solo dei “consumatori” così come aveva deciso il sistema e il potere politico.
Anni in cui l’America ha vissuto forti contestazioni creative. Anni in cui la vita vissuta nelle città americane era molto dura per varie ragioni. Tra il ‘73 e il ‘79 si verificano due crisi energetiche causate dal forte aumento del prezzo del petrolio imposto dall’OPEC; la città di New York sfuggì di poco alla bancarotta nel 1975.
«L'ecologismo, come movimento organizzato, fu anticipato dal pensiero di intellettuali come John Ruskin, William Morris, George Bernard Shaw e Edward Carpenter, i quali predicavano un ritorno alla natura rifiutando consumismo, inquinamento ed altre attività dannose per il mondo naturale»
In questo contesto un gruppo di quattro amici (tutti uomini: le uniche donne le vedremo in una foto, la moglie e la figlia di Ned, il giudizioso padre di famiglia) decide di trascorrere un weekend “selvaggio”, a stretto contatto con la natura, per assorbire l’essenza del suo fascino ancora non contaminato dal mondo civile. Una delle ultime occasioni per poterlo fare, perché infatti, da lì a poco, tutto quel paesaggio naturale verrà distrutto dalle ruspe per far posto ad una diga.
Siamo sui monti Appalachi, una catena montuosa geologicamente molto vecchia e anche molto depressa dal punto di vista economico; per certi versi somigliante all’Aspromonte di quegli anni.
I quattro compongono una comitiva che rappresenta la tipologia dei cittadini americani, come già aveva fatto John Ford con “Ombre Rosse” con una diligenza che si mette in viaggio con una compagine eterogenea di personaggi che rappresentano la comunità civile con i suoi stereotipi.
Gli indiani Apache sono sul piede di guerra, ma i passeggeri si mettono lo stesso in viaggio avendo fiducia nell’esercito che protegge quei luoghi.
Il più motivato per il weekend è Lewis (Burt Reynolds), colui che convince gli amici di cimentarsi questa avventura, certo del disfacimento della civiltà delle macchine:
«Le macchine cederanno e tutto il sistema crollerà. Allora?»
«Allora cosa?»
«Dovremo sopravvivere. Chi sarà in grado di riuscirci? Questa è l'incognita: sopravvivere»
In questo modo Lewis persuade gli amici ad effettuare un “corso” della durata di un weekend per imparare a sopravvivere nella foresta.
Porta con sé un arco per procurasi il cibo in modo “leale”; una posizione idealistica che le armi da fuoco invece non consentono.
(Ricordate? Anche Robert De Niro, che interpretava “Il cacciatore”- 1978 - di Michel Cimino, origini calabresi - andava a caccia con un “colpo solo” per “lealtà” verso i cervi. Tornato dal Vietnam non riuscirà a sparare neanche “un colpo solo”, traumatizzato dalla guerra e dal gioco crudele della roulette russa che ha dovuto subire dai vietcong e che si “gioca” proprio con un colpo solo in canna).
Gli altri personaggi sono Ned Gentry (John Voight), mite e riflessivo, ma capace di adattarsi alle situazioni, molto amico di Lewis, con il quale condivide la passione per l’arco; Drew Ballinger (Ronny Cox), uomo di forti ideali e chitarrista, Bobby Trippe (Ned Beatty), stereotipo dell’americano sempliciotto, un po’ gradasso, che si fa forte della sua superiorità cittadina, forse il più difficile da convincere per la gita avventurosa. Però anche lui riesce ad ammettere che nella “foresta c’è qualcosa che l’uomo ha perso, anche se, in definitiva, la civiltà delle macchine ha i suoi vantaggi”.
«É proprio vero, alle volte bisogna perdersi per poter trovare qualcosa!»
L’inizio del film ci fa vedere i preparativi di costruzione della diga.
I 4 amici arrivano nella “zona” dove incontrano una piccola comunità di redneks (“collo rosso”, bruciato dal sole per il lavoro all’aperto), i cui componenti non hanno un aspetto rassicurante, probabilmente anche a causa della promiscuità in cui vivono.
Si fermano per fare benzina e Bobby ha un approccio poco felice con il benzinaio:
Bobby: «Lo sai che porti il cappello in modo strano?».
Benzinaio: «Si vede che non capisci niente!».
Non tira una buona aria fra il mondo “superiore” delle macchine e il mondo “inferiore” dei nativi.
Ma c’è anche la possibilità dell’incontro fra i due gruppi nel momento in cui ognuno depone “le armi” della parola e si lascia andare all’arte, in questo caso l’arte della musica del banjo suonato da un ragazzo del luogo, in apparenza “diversamente abile”, accompagnato da Drew Ballinger, che rappresenta l’idealismo americano e che, guarda caso, sarà l’unico a morire nella discesa del fiume.
É una ballata diegetica, che coinvolge tutti, i cittadini e i montanari: è il momento della possibile socializzazione. Nel corso del film la musica non favorirà più l’Incontro ma descriverà lo scontro, con sonorità inquietanti.
La sfida che hanno intrapreso i quattro cityboys li costringerà a regredire quasi allo stato primordiale, anche sessuale.
Bobby infatti verrà stuprato da due abitanti della foresta e Lewis, che uccide con l’arco lo stupratore, rimarrà ferito ad una gamba.
Lewis viene così “punito” per la sua baldanza ed ora diventa un peso per il gruppo, la stessa cosa che rimproverava a Bobby, avendolo avuto come compagno di canoa.
Sarà Ned a dover prendere in mano la situazione, portandola a termine grazie alla sua determinazione razionale prima e istintiva nel momento del pericolo, alla voglia di rivedere la sua famiglia, al suo equilibrio, all’amicizia con Lewis a cui deve la vita per aver ucciso il montanaro che voleva violentarlo, ma anche alla violenza che è costretto a utilizzare per tornare a casa.
Per condurre termine la missione di sopravvivenza, affrontando da solo questa volta la natura e l’uomo (il secondo montanaro armato e fuggito: forse è lui che ha ucciso Drew), dovrà spogliarsi del suo essere razionale e accomodante, padre di famiglia (la foto della moglie e della famiglia cadranno in acqua) e trovare in sé una forza che ancora non conosce, che è ancora titubante (l’abbiamo visto all’inizio del film quando ha teso l’arco con mano incerta per uccidere un cervo che è poi fuggito).
Nel momento in cui rischia di morire troverà invece la forza di tendere bene l’arco per uccidere il secondo uomo, anche se rimarrà ferito dalle sue stesse frecce, con il dubbio che l’uomo ucciso non fosse quello cercato.
La fine dell’avventura sarà per tutti - anche per lo spettatore - una Liberazione che è la traduzione del titolo originale: “Deliverance” (ma anche “Salvataggio”).
In realtà è una liberazione apparente, perché c’è da “gestire”, con la comunità locale incontrata all’inizio e con la giustizia del “mondo civile”, la morte di Drew e degli uomini della foresta, che sono stati annegati nel fiume legati ad una pesante pietra, con il fucile e l’arco.
Il ritorno alla “civiltà delle macchine” non è per niente rassicurante, perché lo sceriffo non crede molto alla storia raccontata, anche se alla fine fingerà di crederci perché non ha prove sufficienti e convincenti per poterli accusare di omicidio.
Ma quello che è stato nascosto alla legge la natura lo conserva dentro di sé, in modo innaturale. E un giorno un fucile, imbracciato da mani fantasma, potrà sempre emergere dall’acqua del fiume: è l’incubo di Ned per i segreti che si porta dietro e per la vendetta che un giorno la Natura potrà eseguire nei confronti dell’uomo per tutte le devastazioni che ha subito e che continua a subire.
Il film ha dato spunto per sottolineare l’aspetto dello scontro fra cultura e natura, visto più come la reazione violenta della natura selvaggia contro l’uomo, ma non è stata data la giusta visibilità alla violenza che essa stessa sta per subire: sia per la costruzione della diga, sia nel considerala solo come un set per effettuare “esercizi di sopravvivenza” prima che venga distrutta.
É assolutamente necessario che lo sviluppo si determini attraverso la violenza sulla natura? Può essere definito “progresso” uno “sviluppo” violento?
Le strade percorse dal mondo occidentale hanno condotto a cambiamenti preoccupanti e le cronache di questi giorni lo confermano.
Molte altre nazioni hanno purtroppo intrapreso la stessa strada (vedi soprattutto Cina e India).
E mentre si tenta di raggiungere un accordo per limitare al minimo i danni provocati all’ecosistema, nuove realtà di guerre, terrorismo, la cementificazione del suolo, lo scioglimento dei ghiacci, il franchino (la frantumazione idraulica delle rocce per estrarre il petrolio, già causa di eventi simili al terremoto; in realtà un vecchio metodo già sperimentato nel 1860, utilizzando però la dinamite), le nuove trivellazioni in mare aperto e la distruzione delle grandi foreste non promettono nulla di buono: anche oggi abbiamo un fucile puntato contro di noi per ricordarci tutti i veleni che abbiamo nascosto nel mare e nella terra (30% in più di tumori e malattie respiratorie nella “terra dei fuochi”).
Giovanni Scarfò