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Cinema. Il regista Oblomov e la porta dei ricordi

  •   Redazione
Il regista Oblomov Il regista Oblomov

«Mammina mammina, è arrivata la mia mammina…» il bambino corre sul prato per raggiungere la mamma, ma la meta sembra assai lontana. È inquadrato in campo lungo e in campo medio; poi la mdp lo segue di spalle mentre giunge su una piccola altura. Il bambino continua a correre mentre il dolly ci svela tutta intera la grande madre Russia abbracciata dal grande coro dell’armata rossa. Il bambino diventa sempre più piccolo. «Mammina mammina è arrivata la mia mammina…» e si presenta la commozione. Non lo so perché (e invece lo so) e non solo oggi, ma anche trent’anni fa, quando ho visto per la prima volta. La visione di quella immensità mi assale come l’Infinito di Leopardi. Quando sono andato in Russia ho cercato di ri-vivere dal vivo quell’emozione a contatto con la realtà, ma è stato possibile solo in parte e di sfuggita. 

CI SONO DEI FILM che hanno la capacità di rappresentare il paesaggio dell’anima, quel paesaggio che è dentro ognuno di noi, ma che il più delle volte diventa un’esigenza di falsa estetica, una percezione esteriore, buona solo per essere fotografata che niente ha a che fare con la Bellezza di cui ho già scritto ma che non mi stanco di ripetere. Quello che si riferisce al concetto di Bellezza argomentato dal cardinale Gianfranco Ravasi quando scrive che «la bellezza è anche nell’oscurità, è persino all’interno del “male”, del dolore, della lacerazione». Si parla di Bellezza sublime, quella che capace di “sconvolgere di destabilizzare”, che entra in ognuno di noi senza chiedere permesso. Lo ha anche scritto il mio amico Raffaele Gaetano (Sull’orlo dell’invisibile): «Il sublime ha rappresentato sin dalla classicità una stimmate lancinante nel cuore della bellezza, assestandole in epoca moderna il definitivo colpo di grazia. Infatti il sublime è ciò che scuote e stordisce per la sua intensità abbacinante; se il bello conserva al suo fondo una sua regolarità geometrica, che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette, il sublime ricerca le variazioni improvvise, l’asprezza, le deformità, l’orrore». É riconosciuta la differenza tra “il senso dei luoghi” della nostra modernità e il “sublime” che suggestionò in primis i viaggiatori del Gran Tour in Calabria: il dramma che stiamo vivendo purtroppo è che è venuta a mancare la capacità (ma c’è mai stata?) di farsi trascinare da almeno una delle “due emozioni”. 

LO HA RICORDATO anche Domenico Stranieri scrivendo (in un articolo precedente, a proposito della distruzione della grotta di San Floro): «Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa. Per di più, amiamo usare espressioni frequenti nei discorsi o negli articoli, come “eravamo la Magna Grecia” oppure “lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Proprio mentre il vuoto si sostituisce ai segni della presenza umana ed un mondo si spegne, inesorabilmente, senza aver dato un senso alle sue cose». Il libro di Vito Teti, Il senso dei luoghi andrebbe distribuito e studiato nelle scuole, se vogliamo riprenderci la possibilità di salvarne “il senso”, appunto, dei nostri luoghi. Ha scritto Teti: «I luoghi hanno sempre una loro storia, anche se non sempre decifrabile, hanno una loro vita, vengono abbandonati, possono morire e possono rinascere. Poche terre come la Calabria, segnata da abbandoni e ricostruzioni, possono raccontare la mobilità e la storicità dei luoghi». In un recente articolo ha scritto, parlando dei paesi interni: «Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva “troppo pieno” oggi è diventato praticamente vuoto, vacanti. Anche centri ancora vivi e vitali contengono al loro interno una parte disabitata, case vuote, rughe morte, che li trasformano talora in luoghi inquietanti, sospesi, in attesa del peggio» (Non aprite quella porta!). 

I PAESI SONO STATI luoghi in cui è vissuta la maggior parte della popolazione mondiale (in Italia 5000 paesi hanno un numero di abitanti inferiore a 5000, ma sono quelli in cui si producono la maggior parte dei prodotti tipici italiani che fanno grande e diversificata la nostra cucina). «Gli orti, le campagne vicine all’abitato erano sistemi produttivi ma anche abitativi e culturali» (anche alla Casa Bianca hanno sentito la necessità culturale di realizzare un orto, sicuramente con lo scopo di umanizzare simbolicamente la vita della metropoli). Ho avuto sempre una grande attrazione per gli orti (e finalmente ce l’ho anch’io), una produzione “anziana” fino a pochi anni fa, ma che oggi necessariamente ha il significato di un luogo che ci avvicini alla terra e agli affetti dei nostri genitori e dei nostri nonni. Una delle domande che più ha angosciato i calabresi è stata: parto o resto? E quando vedevi gli altri partire ti sentivi in colpa perché restavi; e quando eravamo noi a partire ci sentivamo in colpa perché andavamo via. «Chi vive fuori - scrive Teti - scorge una vicinanza impensabile con il luogo in cui vive, mentre chi resta si misura con lontananze e solitudini inaspettate». E quindi? Già, e quindi? Secondo Teti dobbiamo «riguardare i luoghi con la levità di chi non vuole farsi soffocare dal passato, abbandonando gli aspetti grevi e deteriori legati a una storia di miseria e di oppressione». 

HA PERFETTAMENTE ragione: è triste quando qualcuno vede un rudere, in paese o in campagna, magari avvolto dalla vegetazione, e pensa a qualcosa che andrebbe abbattuto, perché “è vecchio”, non riuscendo a capire nulla di cosa significhi memoria del vissuto; perché i «segni della memoria vanno rintracciati non già nei luoghi abitati, ma proprio là dove i luoghi sembrano finiti. Ritrovare i semi della vita proprio là dove l’uomo ha rischiato di smarrirsi, perdendo i suoi luoghi e i rapporti con essi». Ma attenzione, perché la ricerca del tempo perduto nasconde molte insidie: “ferisce” se provoca piacere; “uccide”, se provoca dolore; perché viene a mancare “il secondo respiro”, la via della fuga. 

PROPRIO COME Oblomov, metafora, secondo Mikhalkov, non di un pigrone e di un apatico, ma di chi aveva sempre in sogno il paradiso perduto di Oblomovka, dove ha vissuto l’infanzia: un uomo che non riusciva, non voleva adattarsi al nuovo modello di vita rappresentato dal suo amico d’infanzia Stoltz che pur tanto ammirava, intrecciata alla sua fin da bambino nell’altalena dei ricordi, con il rischio di non riuscire a dare un senso al tempo perduto/ritrovato, come quello di alcune scene del film. Come scrive Piero Citati: «Siamo nell’Eden, ma in un Eden di dolcissima pigrizia, dove si è invischiati e inghiottiti in una specie di miele corroborante. Ogni mattina la balia o il servo mettono le calze e le scarpe al bambino, gli lavano il viso, lo pettinano, gli infilano la giacca, attenti a fargli passare le braccia nelle maniche senza disturbarlo, nel minimo modo. Nessuno disturba l’uniformità di questa vita: il padre va su e giù nel salotto, ascoltando il rumore dei propri passi, la madre cuce e ricama, e avverte un lievissimo fruscio, il pendolo rintocca sempre eguale nella stanza da letto. L’arrivo di una rarissima lettera turba, sconvolge, provoca terrore, e la lettura viene indefinitamente rinviata, come se contenesse una sciagura o un esplosivo. Oppure qualcuno, chissà perché, ride. Il riso si propaga. Passa nell’anticamera e nella camera delle serve, si impadronisce clamorosamente di tutta la casa. Sembra interrompersi, comincia a tacere, tace, e poi riprende con una forza sempre maggiore, senza che nessuno capisca le ragioni e il significato di quest’allegria incontenibile». Il mio pendolo batte le 8.00, sento i miei passi nella stanza e rido. Chissà perché. P.S. Mentre scrivo in televisione sta andando in onda una puntata della famosa serie di telefilm americana degli anni ‘60, dal titolo Ai confini della realtà: un uomo, un dirigente televisivo, non riesce ad adattarsi ai ritmi del “quinto potere” in funzione pubblicitaria e sogna “un luogo e un tempo dove si possa vivere a misura d’uomo”: già “ai confini della realtà”. Mammina mammina, è arrivata la mia mammina…

Giovanni Scarfò

 


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