Gerace. Incontro con madre Mirella
- Cosimo Sframeli
Invito al coraggio ed alla gioia di vivere da risorti, con gli altri, nel nostro paradiso terrestre che abbiamo trasformato in fossa
L’incontro spirituale si è svolto nella chiesa il 12.5.13
In premessa Madre Mirella dà notizie sulla chiesa. Il suo nome odierno (Santa Maria di Monserrato) indica una derivazione catalana di età moderna; ma da alcuni lacerti di muro e da altri segni si evince una sua vita precedente, risalente all’età bizantina. Data la sua ubicazione, si può credere che sia stata una delle due chiese bizantine che si trovavano fuori le mura, presso la parte terminale dell’antica via che sale dalla marina: o Santa Sofia oppure la Santissima Trinità. Accennando alla sua vocazione, madre Mirella osserva che essa è testimonianza pasquale, di resurrezione, operante dentro la nostra mentalità che sembra avere perso il significato del battesimo e della Pasqua. Noi siamo soliti immergerci come in una caraffa senza orizzonti laddove il battesimo è, sì, la discesa agli inferi, ma per risorgere: Sei salito in alto conducendo prigionieri (salmo 68, v. 39). Nella sua vocazione eremitica, è contenta quando può comunicare la testimonianza della risurrezione. Infatti la solitudine dell’eremita è provocatoria, ma la sua vocazione è comunitaria; il monachesimo non è fuga, ma ricerca della vera relazione d’amore nella comunione del Cristo.
È la seconda volta, dice, che il nostro incontro cade nella Domenica dei Padri del Concilio di Nicea: la ripetizione ci aiuta ad attualizzare ciò che essi ci hanno tramandato. Oggi intende proporre due o tre “scintille” che ci aiutino a sentirci parte nella Pasqua. Questa è la prospettiva che ci insegna l’Oriente, il mistero della partecipazione. Infatti noi non assistiamo, ma partecipiamo ai divini misteri. La partecipazione si verifica anche nella “metania”, cioè nel cambiamento di prospettiva a cui ci induce il pentimento: essa è il riconoscimento del nostro limite come luogo in cui ci veniamo a trovare e dove discende il Cristo per portarci la sua luce; e se non riconosciamo il limite, conosciamo tuttavia il dono, perché proviamo fame e sete della vita vera che Cristo viene a portarci: e nei giorni della fame saranno saziati (salmo 37, v. 19b). Noi abbiamo soprattutto fame di sicurezza, di garanzia (in Calabria l’avvertiamo fortemente). Ma non c’è sicurezza nelle cose e nemmeno nelle persone. È nel Signore. Che senso ha ricordare oggi i Padri di Nicea? L’icona dei padri conciliari è come quella di Pentecoste: seduti in cerchio come attorno ad un vuoto, che non è tale, non è tomba, ma grembo, perché in esso c’è un personaggio che ha nome “mondo”, il quale è stato espropriato dalla morte, ed annuncia la sua rinascita. Ecco allora il condàkion della festa odierna: L’annuncio degli apostoli e le dottrine dei padri hanno consolidato nella Chiesa l’unicità della fede; ed essa, che indossa la tunica della verità tessuta con la teologia dall’alto, rettamente tratta e glorifica il grande mistero della pietà. La pietà è l’amore di Dio, a cui noi corrispondiamo con l’amore: è, dunque, il mistero della comunione. La festa dell’Ascensione, celebrata giovedì scorso, ed in Italia proprio questa domenica, ci riporta all’evento pasquale: Gesù le disse: Maria! Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: Rabbunì!, che significa: Maestro! Gesù le disse: Non mi trattenere (ma il verbo greco significa “toccare”), perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (Giovanni XX, 16-17). (Dice “non mi toccare” perché non abbiamo più bisogno di modalità materiali). Maria, dunque, annuncia l’Ascensione. Colui che ascende è Colui che è già disceso: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù (Efesini II, 4-6). La donna è pertanto sacramento dell’Incarnazione e dell’Ascensione. Noi siamo in Dio perché l’umanità di Gesù è salita al cielo; tutti gli uomini della terra siamo già lì. Ma Lui fa di noi la sua umanità sulla terra: una realtà bella e però fortemente impegnativa. Il suo peso è quello gioioso della Pasqua: il cammino della vita terrena ci è dato per abbracciare questa chiamata. Noi siamo il suo corpo, non soltanto in senso mistico. Ora il nostro capo è salito al cielo e ci sentiamo come un po’ decapitati; la facoltà di vederlo risiede nella fede. Seconda “scintilla”. Gli apostoli, all’Ascensione, guardavano tutti verso il cielo, la nube (Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo: Atti I, 11). E furono nella gioia: Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia (Luca XXIV, 51-52). Perché la gioia? Gesù, dicono i due uomini in bianche vesti, tornerà come è stato visto salire, e dunque nella nube. Ma questa nube non è una dissolvenza cinematografica, è la presenza dello Spirito. Dunque torna nello Spirito, e non alla fine dei tempi, ma subito ora: nella Pentecoste. Perciò l’ Ascensione è motivo di consolazione.
Terza “scintilla”. Lo Spirito a Pentecoste discende come lingua di fuoco; ma la lingua non è fiammella, bensì parola; essa è il riscatto della comunicazione, dopo il disastro del protagonismo di Babele. L’unica nostra lingua è quella dello Spirito dell’amore: solo così possiamo comprendere le lingue (Atti II, 6). Il fuoco dello Spirito, a Pentecoste, è quello del roveto ardente che si mostra a Mosé (Esodo III, 1-6). Il quale è esule, sradicato, né egiziano né ebreo, a servizio di un pagano di cui fa pascolare le greggi nel deserto (questa è una condizione di oppressione che la maggioranza degli uomini ben conosciamo). Il fuoco che egli vede non consuma, ma si atteggia secondo il corpo del cespuglio: è il mistero della nostra vita cristiana, che, pur restando roveto, diventa quella sostanza di grazia. La lingua di fuoco della Pentecoste trasforma, è lo Spirito di comunione e di condivisione. Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché forte come la morte è l’amore, / tenace come gli inferi è la passione: / le sue vampe sono vampe di fuoco, / una fiamma del Signore! / Le grandi acque non possono spegnere l’amore / né i fiumi travolgerlo (Cantico VIII, 6-7°: le acque qui sono simbolo del male). Sono parole sponsali rivolte a noi. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello (Apocalisse XXI, 22). La Gerusalemme celeste non ha più bisogno del fuoco, il quale illumina e riscalda, ma anche brucia. È nella luce, che ha la valenza del primo giorno della creazione. Nel cuore della Gerusalemme celeste, nostra patria già da ora, è luce. Abbiamo visto la luce vera, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la fede vera, adorando l’indivisibile Trinità: essa, infatti ci ha salvati(tropario del vespro prima di Pentecoste, ricorrente nella Divina Liturgia, dopo la comunione). Abbiamo visto la luce vera: è la potenza della fede. La salvezza è opera trinitaria, opera di comunione per eccellenza; economia dell’unità nella diversità. Perciò il vespro solenne, quello che chiude la domenica di Pentecoste, si celebra in ginocchio, in adorazione di fronte al mistero trinitario. “Ho un grandissimo desiderio”, conclude madre Mirella, “di realizzare l’icona della Santissima Trinità, quella dell’ospitalità di Abramo. Allora parleremo del mistero dell’ospitalità”.
Il diacono Mario intima quindici minuti di silenzio. Ma prima Tullia e Mimmo Bagalà, da Palmi, offrono il loro dono dello squillante sìmandron [bàttola, tavola sonora] che hanno fatto confezionare utilizzando ambedue i legni “coronati”, il faggio per lo strumento ed il tiglio per il mazzuolo. Illustreranno l’opera dopo gli interventi ed il pasto, ma madre Mirella subito risponde che è gratissima, perché questo dono le viene offerto da San Fantino e perché le ridona la voce. Infatti, come i Greci usarono il sìmandron dopo che i Turchi avevano loro vietato le campane, così madre Mirella potrà ora sopperire alla mancanza della campana, che è guasta e da sette anni nessuno vuole ripararla.
Interventi. 1. Maria, assunta in cielo, fa parte della Trinità? R. Non è la IV persona, non c’è confusione fra umanità e divinità, ma perfetta comunione, pienezza della vocazione di ogni creatura. Maria è una primizia.
2. In principio l’uomo era in piena comunione con la Trinità. R. Sì.
3. I tropari mi dischiudono la dimensione trinitaria. Invece sento ripetitiva la preghiera del cuore. R. Sì, il tropario è lode ed è completo. La preghiera del cuore è ripetuta perché è orientata sul battito del cuore. Il tropario ha bisogno di consapevolezza, la preghiera del cuore tende ad andare al di là della consapevolezza. Il fine dell’ascesi monastica è la contemplazione della luce: come esperienza, non come visione [per una diversa esperienza mistica, latina, cf. Dante, Paradiso XXVIII, 109-111 e XXX, 38-42].
4. La presenza trinitaria è incessante nella Scrittura e nella preghiera della Chiesa, ma nell’esperienza cristiana predomina la cristologia. Come dobbiamo parlarne agli altri? R. Il mistero della Trinità è nascosto, non abbiamo bisogno di annunziarlo. L’unica via al Padre è il Figlio e la dimostrazione del Figlio è nella nostra vita cristiana. Nell’ebraismo, una corrente che risale alla caduta del Tempio, afferma che ora il Tempio è l’uomo. Risiede nell’uomo il sacrificio interiore della lode. Molto importante è la qualità della vita cristiana, come la predichiamo agli altri. L’unico vero dialogo è l’ospitalità del cuore, che possiamo apprendere meditando parola per parola il capitolo 17 del vangelo di Giovanni. Qui in Calabria dobbiamo insistere sul fatto che l’esperienza della risurrezione fa parte della nostra vita. La realtà presente non è tomba, ma segno: è la terra attraverso la quale si apre l’oltre.
5. Come possiamo testimoniare il Cristo noi che siamo consapevoli della nostra debolezza? Siamo sempre immersi nello scandalo, l’invito a convertirci ci giunge dall’esterno. Possiamo testimoniare la nostra fragilità e la grandezza di Dio, come chi sta nella sete e indica l’acqua. R. Sì, questa è testimonianza vera, perché è senza protagonismo. Preghiamo di sapere indicare l’Altro.
6. a) Ammiro la risurrezione, che è silenziosa, sussurrata a pochi, dimentica del passato terreno, memore solo delle scritture. Pochi gesti del Cristo risorto, ma intensi: la pace donata, il cibo consumato con i discepoli, la prova offerta a Tommaso, la richiesta di amore a Pietro… Eppure ha rivoluzionato tutto. b) Mi sovrasta il Cristo, mi sembra di esserne occupato, ma sono consapevole che invece vivendo in lui sono liberato dalla mia alienazione. La prossima volta, se vuole e accettano gli altri, ci spiega chi è il Signore? R. a) Anche l’incarnazione è operata sottovoce. b) Uuuh!
7. Come presentare agli altri il Signore? R. C’è un punto in cui la menzogna non è possibile: la Grazia ci permette di essere consapevoli della nostra debolezza e di non cadere nell’empietà della nostra idolatria. L’empietà degli atei è l’affermazione dell’immanenza assoluta, anche nel compiere il bene. La nostra empietà è più grave, perché consiste nell’affermare che il Signore è a nostra immagine, rendendolo un idolo. Occorre che vigiliamo perché la parola di Dio sia davvero una spada a due tagli, come si afferma nella lettera agli Ebrei (IV, 12), che tagli anche noi. In me il trionfo del Signore è l’accettazione della mia morte. La nostra morte all’idolatria, cioè la nostra rinunzia all’idolatria, è opera mirabile della redenzione, in cui la Trinità si riversa pienamente, potremmo forse dire appassionatamente; perciò qualche teologo parla della “tragedia di Dio”, della redenzione come dramma trinitario. Dobbiamo comprendere che siamo vita, vita per gli altri, e invece siamo devastati dalla paura di vivere. La vita può essere per noi meravigliosa oppure angosciante. Come gli esploratori della terra promessa inviati da Mosé: due tornano entusiasti e due depressi. Sono i due modi di vedere la vita. È folle avere paura della vita.
8. Papa Francesco ha parlato della Chiesa come luce. In essa noi possiamo riscoprire la luce, che ci è stata donata nel battesimo. Perciò nelle ricorrenze annuali della famiglia riaccendiamo le candele del battesimo. R. Sì, ed è molto bella questa vostra consuetudine.
Si torna alla saletta per il convivio. Trionfale: è necessario organizzare un freno, affinché dalle nozze di Cana non passiamo al banchetto dell’epulone.
Poi si torna in chiesa e Mimmo Bagalà illustra l’opera del sìmandron, commentando alcune annotazioni scritte di cui distribuisce il testo. Mostra come lo si fa risuonare alla maniera greca: un vero concerto e perciò gli chiediamo il bis. Sigilla l’incontro Mario che recita ad alta voce, per tutti noi, un salmo di cui non ricordo le parole.
Il prossimo incontro, il primo del ciclo liturgico successivo, avverrà domenica 17 novembre 2013. [Scriba]